don Antonello Iapicca – Commento al Vangelo del 27 Gennaio 2021

 NELLA CHIESA SIAMO TERRA BUONA DOVE LA PAROLA PREDICATA E FATTA CARNE IN NOI CONSEGNA AL MONDO IL FRUTTO DELLA PASQUA DI CRISTO

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AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE

Una barca sul mare, e sulla terra “una folla enorme” di volti e cuori in attesa. Di che cosa hanno bisogno? Di una parabola, che li strappi uno ad uno dall’anonimato che stinge l’unicità di ciascuno impedendo un rapporto vivo con Cristo. Tra le “molte cose” che Egli insegnava, il Vangelo ne registra una, trasmessa attraverso una parabola che racconta di un Seminatore che è “uscito a seminare” il seme della Parola. Immaginiamo che si riferisse alla terra che aveva davanti, la Galilea, fatta di pescatori e peccatori, uomini capaci di gesti generosi e coraggiosi come quando ci si infila nel mare per strappargli il cibo per vivere; ma anche testardi e duri di cuore, incapaci di comprendere la Parola. La Galilea, così simile alla terra della nostra vita, attraversata dalle “strade” del pensiero mondano dove corrono veloci le menzogne del demonio per scipparci la Parola ascoltata. Piena di “pietre”, dure come i nostri cuori gonfiati dall’ego, che si infiammano al sole dei facili entusiasmi, mentre però occupano con la superbia spazi preziosi di terra sottraendoli alle radici del seme. Aggredita dalle “spine” acuminate come i pensieri che il demonio ci insinua di fronte alla precarietà per farci dubitare di Dio; si conficcano nell’intimo condannandoci all’avarizia e all’avidità con cui ci illudiamo di possedere cose e persone, mentre invece “soffochiamo” il seme che, fruttificando, ci darebbe libertà e pace. Ma proprio nella descrizione che Gesù fa della “terra” su cui è seminata la Parola è celata la chiave che ci apre all’intelligenza di tutte le parabole: a noi, infatti, è “confidato il mistero del regno di Dio”, ovvero l’esistenza di un lembo di “terra buona” in mezzo alla “terra infruttuosa”. Tutte le parabole ne parlano, descrivendolo piccolo come un “seme” appunto, perseguitato, nascosto, accerchiato dalla zizzania, mentre la sua crescita sarà proprio come avviene quando “un uomo getta un seme nella terra”. 

La Parola che il seminatore è uscito a seminare è dunque il seme del Regno di Dio! Esso è rifiutato dalla maggioranza degli uomini, ma accolto da un resto, chiamato ed eletto perché il seme possa crescere e divenire un sacramento di salvezza per il mondo. Gesù sta parlando della Chiesa, del suo stare nel mondo come “terra bella” e feconda di “frutti” che hanno il sapore della vita eterna, il destino per il quale ogni uomo è venuto al mondo. Ma quello che Gesù dice della Chiesa vale anche per ciascuno di noi, che siamo chiamati nella Chiesa a “dare frutto” per la salvezza del mondo. Come ogni uomo anche noi, a causa del peccato, viviamo su una “terra” che non è quella “buona e bella” del Paradiso, proprio come annunciato da Dio ad Adamo: “poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: «Non devi mangiarne», maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi” (Gen 3,17-18)In queste parole sono profetizzati i tipi di terra nei quali il seme della Parola non attecchisce, cioè la situazione concreta del mondo e di chi ne è parte. Eppure, come è accaduto agli apostoli, anche in noi il Signore ha visto un pezzo di “terra buona”, così piccolo e nascosto che probabilmente nessuno ci ha mai fatto caso; neanche noi, che forse ci sentiamo “abbattuti” perché “incostanti” e fragili dinanzi ai problemi e alle sofferenze, induriti nell’orgoglio e schiavi delle concupiscenze.  Ma il Vangelo di oggi ci annuncia che in noi c’è un frammento di Paradiso, e lì Gesù vuol seminare la sua Parola! La natura umana, infatti “non è interamente corrotta: è ferita nelle sue proprie forze naturali, sottoposta all’ignoranza, alla sofferenza e al potere della morte, e inclinata al peccato (questa inclinazione al male è chiamata « concupiscenza »)”. Ma “il Battesimo, donando la vita della grazia di Cristo, cancella il peccato originale e volge di nuovo l’uomo verso Dio; le conseguenze di tale peccato sulla natura indebolita e incline al male rimangono nell’uomo e lo provocano al combattimento spirituale” (Catechismo della Chiesa Cattolica 405).

Il battesimo, ecco il “mistero del Regno di Dio” che Gesù “ci confida” oggi! Come descritto nella parabola, nella Chiesa primitiva si giungeva al battesimo dopo una lunga preparazione che iniziava con la “semina”, ovvero con l’ascolto del kerygma, della Buona Notizia. I pagani raggiunti dallo zelo degli apostoli erano peccatori, schiavi delle concupiscenze, concubini e adulteri, non importava quanto fosse infeconda la loro terra. Importava che la Chiesa li avesse raggiunti, che i cristiani avessero offerto la testimonianza dei propri frutti chiamandoli alla fede, e che ascoltassero la predicazione che seminava in loro la Parola. E che iniziassero un serio cammino di conversione guidati dalla Chiesa, proprio perché il seme caduto nella “terra buona” dei catecumeni giungesse a maturazione. Un cammino di iniziazione cristiana nel quale essa potesse mettere radici e crescere sino a dare i frutti di una vita nuova nella “Grazia di Cristo”, in virtù della quale “il sasso può diventare una terra fertile, la strada non essere più calpestata dai passanti e diventare un campo fecondo, le spine essere sradicate e permettere al seme di dare frutto liberamente” (San Giovanni Crisostomo). Si trattava di un lungo cammino di conversione perché doveva essere cacciato “satana” sempre pronto a “portare via la parola seminata in loro”.

Occorreva vincere l’“incostanza” togliendo una ad una le “pietre” dal loro cuore perché in esso la Parola potesse mettere “radici” e resistere senza “abbattersi” “al sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della parola”. Era necessario cambiare mentalità togliendo le “spine” del pensiero mondano, perché la Parola non restasse “soffocata” dalle “preoccupazioni del mondo, dall’inganno della ricchezza e da tutte le altre bramosie”. Il battesimo giungeva solo dopo questo cammino, che alcuni abbandonavano come afferma chiaramente il Signore nella parabola. Esso sigillava l’opera di Dio nel neofita, che, annegando nell’acqua l’uomo vecchio schiavo del peccato e per questo infecondo, risorgeva con Cristo come un figlio del Regno, pronto a offrire al mondo i suoi frutti, “dove il trenta, dove il sessanta, dove il cento”. Non tutti, infatti, sono chiamati con la stessa vocazione, ma in ciascuno la Parola produce il frutto necessario in quel momento, per quella persona che si trova in quella situazione. Per questo con la parabola di oggi Gesù ci ridesta perché torniamo al cuore e al fondamento della nostra chiamata; altrimenti, come accade per le parabole, non capiremo nulla della nostra vita. Perché essa sia compiuta e dia i “frutti” che Dio ha pensato per noi dobbiamo tornare al battesimo attraverso i cammini che la Chiesa ci offre. Solo così saremo le primizie del Regno che solca il mare della morte. Per questo “la barca” di Gesù che, “seduto”, annuncia il Vangelo e insegna la Verità come l’unico Maestro, è separata dalla terraferma: è il segno sua risurrezione!. Così è la Chiesa, la “terra buona” che risplende feconda; così le nostre comunità sparse nel mondo senza appartenergli; così ciascuno di noi, issati su quella barca per assumere il combattimento spirituale di ogni giorno per difendere la bellezza della vita celeste in noi, il frutto squisito dell’amore da offrire a chi ci è accanto.

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