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don Andrea Vena – Commento al Vangelo di domenica 7 Aprile 2024

Commento al brano del Vangelo di: Gv 20, 19-31

Domenica scorsa abbiamo contemplato la risurrezione di Gesù, la sua vittoria sul peccato e la morte. Una vittoria  che è passata attraverso il duro crinale della passione e della croce. Esperienza che ha sconquassato, frammentato  la Comunità dei discepoli: c’è chi ha tradito, chi ha rinnegato, chi è scappato.

Gesù Risorto allora, con pazienza,  cerca di ricomporre la sua Comunità, di infondere in loro fiducia e coraggio. Come ha fatto con i discepoli, così oggi  fa con ciascuno di noi, dato che le esperienze dei discepoli sono riflesse nei nostri cuori e nella nostra vita, tanto  che noi possiamo rispecchiarci in quello che loro hanno vissuto.  

v. 19 “La sera di quello stesso giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte dove si trovavano i  discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù”: il testo fa riferimento al giorno della Risurrezione, a quel giorno che  noi da allora chiamiamo Pasqua. Gesù Risorto è già apparso a Maria (cfr Gv 20,1-9, vangelo di Pasqua); ora si  presenta ai Discepoli, i quali, per paura dei giudei, sono «chiusi», a indicare che non hanno ancora capito quanto  avvenuto, che non hanno fede.  

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v 19b: «Venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi»:Gesù irrompe nella stanza, nella vita, nei cuori dei  discepoli. E nonostante quello che hanno fatto nei suoi riguardi nei giorni precedenti, dice «Pace», mostrando i  segni della passione. Questo ritorno compie la promessa fatta ai discepoli: «Ritornerò da voi… voi mi vedrete» (Gv  14,18-19). Si tratta di un nuovo conoscere e un nuovo vedere. Il dono della «pace» non è un semplice augurio, ma è  saluto pasquale, incoraggiamento per superare la paura. La pace di Gesù è dono reale, è dono di salvezza che già  aveva offerto: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la da il mondo io la do a voi. Non si turbi il vostro cuore e  non abbiate paura» (Gv 14,27). 

«Stette»: è lo stesso verbo usato per la Madonna sotto la croce: Stava (Gv 19,25). E’ uno stare che indica presenza,  continuità, forza di un esserci. Un rimanere quasi pietrificato, cementato al suolo. Ormai il Risorto STA con i suoi,  anche se in modo misterioso, come STA la Madre. 

v. 20: «Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco»: Gesù si identifica con il crocifisso, non nasconde la sua  identità di Uomo dei dolori, crocifisso e morto. Un modo per rimarcare che la passione e la morte sono parte del  cammino verso la risurrezione. Un modo per confermare la sua nuova realtà di uomo risuscitato. Un modo per  risvegliare la loro fede, per far cogliere che la morte in croce non è stata un fallimento, ma evento di «gloria».  

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v. 21: «Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi»: in ogni apparizione troviamo il tema della  missione, dell’invio (Mc 16, 15-16; Mt 28,19-20; Lc 24,47; At 1,8). C’è dunque un’unica missione che parte dal Padre  e attraverso il Figlio raggiunge i discepoli. La missione dei discepoli è perciò il prolungamento della missione di  Gesù. Così la nostra missione non è «nostra», ma è quella di Gesù e quindi deve corrispondere al suo contenuto, al  suo stile. 

v. 22: «Detto questo, soffiò e disse: Ricevete lo Spirito Santo»:la missione è preceduta, sostenuta e accompagnata  dalla presenza dello Spirito Santo. Il gesto di Gesù, «soffiò», richiama la Genesi, lì dove Dio crea l’uomo (Gen 2,7).  In questo modo con Gesù ha inizio un mondo nuovo, una nuova creazione.  

v. 23: «A chi rimetterete i peccati, saranno perdonati…»: la missione comporta il perdono dei peccati (Lc 24,47).  È missione di misericordia, perché la missione dell’Agnello di Dio è quella di togliere il peccato del mondo (1,29),  «purifica da ogni peccato» (1Gv 1,7). Perdonare e avere compassione dev’essere quindi l’arte principale dei discepoli,  come lo è stata per Gesù. E’ l’arte di Dio perché è la sua stessa essenza. Dio è misericordia e non può che essere  misericordioso. Così i suoi discepoli. Così ciascuno di noi, anche se questo crea scandalo ai perbenisti di tutti i tempi.  Gesù crocifisso, Misericordia del Padre, non può trasformarsi in un feticcio da appendere ai muri o al collo, ma deve  diventare vita in noi. Misericordia in noi. Compassione in noi. Perdono in noi. 

v. 24: «Tommaso, uno dei Dodici, non era con loro»: l’assenza di Tommaso indica che la Comunità dei Discepoli  è incompleta, imperfetta, ferita e disgregata. Tommaso non accetta la testimonianza dei discepoli, non accetta  l’esperienza del Risorto fatta da altri, rivelandosi come incredulo, colui che è ancora chiuso al mistero: «Se non vedo nelle sue mani i segni dei chiodi…». Dettaglio, quello dei chiodi per la crocifissione, riportato solo da  Giovanni.  

v. 26: «Otto giorni dopo»: è importante questa indicazione: l’ottavo giorno è il giorno della risurrezione di Gesù, e  la comunità dei credenti ha imparato a riunirsi per la preghiera e la celebrazione eucaristica, «Otto giorni dopo i  discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso». Venne, meglio, letteralmente «viene Gesù», il  verbo al presente indica che, ogni volta che la comunità si riunisce, in essa c’è la presenza di Gesù, «a porte chiuse,  stette in mezzo».  

v. 27: «Poi disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio  fianco; e non essere incredulo, ma credente!»: Tommaso è presente e Gesù lo invita a toccare e vedere. Va  incontro alla sua incredulità: non giudica. Gesù conosce i segreti dei cuori, ma in quell’invitare a vedere e toccare  desidera aiutare i discepoli a superare la «fisicità», a entrare nella visione di fede. A Tommaso dirà: «Smetti di  essere incredulo e diventa credente». A questo «rimprovero», Tommaso risponde dicendo: «Mio Signore e mio  Dio!». Un’autentica professione di fede in Gesù, Figlio di Dio. Giovanni aveva presentato Gesù come colui che era  la rivelazione di Dio, e Gesù, a Filippo, aveva detto: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9) e, sempre Gesù,  aveva detto: «Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora saprete che io sono» (Gv 8,28), che è il nome divino  (cfr Es 3,14). Ebbene Tommaso è il primo tra i discepoli a riconoscere in Gesù la pienezza della divinità, la pienezza  della condizione divina, «Mio Signore e mio Dio!»

«Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»: ci  sono due beatitudini nel vangelo di Giovanni, strettamente legate tra loro: una, quella nella Ultima Cena , dopo il  servizio che Gesù ha fatto della lavanda dei piedi, quando dice: «Beati se le metterete in pratica»” (Gv 13,17) cioè  beati se vivrete questo atteggiamento di servizio; l’altra è questa che è strettamente collegata: l’atteggiamento di  servizio permette di sperimentare il Cristo risorto nella propria vita, «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».  

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Gv 20, 19-31 | don Andrea Vena 76 kb 11 downloads

II domenica di Pasqua, anno B At 4,32-35 Sal 118 1Gv 5,1-6 Gv 20,19-31 a cura di…

Nella domenica di Pasqua – prima tappa del cammino – c’è stato ricordato che noi credenti siamo discepoli di  Gesù Risorto; non siamo semplicemente operatori sociali, educatori o chissà cos’altro. Non siamo la nostra  professionalità, il nostro servizio. Siamo prima di tutto discepoli di Gesù risorto. È Lui la causa della nostra vita e  della nostra gioia. E per Lui, solo per Lui, poi siamo disposti a fare quanto ci viene chiesto. Oggi, seconda tappa del  cammino, viene tratteggiato un primo profilo del nostro essere credenti in Gesù, ed è il fatto che non siamo  perfetti! Non ci è subito tutto chiaro.

Come Tommaso, la fatica del credere è parte connaturale della nostra vita,  della nostra vocazione, del nostro servizio. Credere in Gesù non è un fatto automatico, non è un’esperienza facile  a cui aderire. Il credere è impastato di tempo e di cammino, di assenza e di presenza, di umiltà e di coraggio, di  cadute e di ripartenze. Ma c’è un ulteriore dato che va evidenziato: Tommaso «crede» quando impara a «stare» in  Comunità: si arriva cioè alla fede in Gesù nella misura in cui s’impara a «stare», ad aderire alla vita della Comunità  che è la Chiesa. Come è vero il movimento contrario: l’adesione di fede a Cristo Gesù inserisce in una comunità,  porta a una comunità.  

Un secondo punto, Tommaso crede nella misura che «vede e tocca»; ma Gesù dirà che è «beato» chi crede senza  «vedere e toccare». Noi siamo dunque già «beati» perché crediamo in Gesù, il Risorto, senza averlo visto né  toccato. Ma solo attraverso le sue ferite, che si rivelano per noi feritoie di grazia, possiamo venire salvati. La  salvezza di Gesù, il suo infinito amore misericordioso, non cessa di sgorgare dal suo costato aperto: spetta a noi  alzare lo sguardo.

Credere. E credere insieme, perché la fede è un fatto comunitario. (diversamente, è un po come  quando si dice «Credo in Gesù ma non nella Chiesa»: ma è proprio nella e con la Chiesa che impariamo a conoscere  Gesù, diversamente consociamo «il mio Gesù», ma non il Gesù morto e risorto). Perché il nostro essere credenti è  un fatto che si manifesta comunitariamente, anche quando sembra che si agisca da soli. Ecco perché a Comunità  dei credenti si ritrova così alla domenica, giorno del Signore Risorto – Pasqua della settimana – per ripartire con  slancio nel vivere gli impegni della settimana: senza Domenica non possiamo dirci cristiani!  

Che in fondo è quanto richiamato e descritto nel libro degli Atti proposto dalla liturgia nella prima lettura: «…Aveva  un cuore solo e un’anima sola…fra loro tutto era comune…» perché avevano scoperto e compreso che il patrimonio  più importante era ed è Gesù: «Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre», 

risponderemo nel salmo. Comunità, rilancerà il testo della seconda lettura, talmente appassionata di Gesù che  cerca di piacerGli in tutto accogliendo i suoi comandamenti. Mettendo in pratica quanto Gesù stesso ha vissuto  con amore e nell’amore. 

Questo significa rispettare l’altro nella sua fatica, nella sua infedeltà, nella sua incredulità, nel suo dubbio e nella  sua lotta. Anche nel suo essere peccatore. Ciò significa farsi compagni di viaggio, non maestri. Significa accostarsi  con sguardo misericordioso e non di giudizio. Riguardiamo a Gesù: Tommaso non c’era, potremmo dire era rimasto  indietro. Gesù non lo ha umiliato, non lo ha rimproverato. Lo ha atteso. Si è sintonizzato con le sue fatiche, le sue  fragilità, il suo linguaggio. E nella misericordia di Gesù Tommaso è risorto. Ha ritrovato vita. Fiducia.

Viene da  domandarsi se sappiamo farci «prossimi» di quanti fanno fatica, restano indietro. Domandarci se il vangelo per noi  è solo un «copia e incolla», due formule imparate a memoria o se invece permettiamo al vangelo di farsi vita in noi. Se ci pensiamo, anche noi nella vita andiamo avanti a tentoni, come un bambino che inizia a camminare, e cade;  pochi passi e cade ancora; cade e ricade, e ogni volta qualcuno lo rialza o lo invita a farlo. La mano che ci rialza  sempre è la misericordia: Dio sa che senza misericordia restiamo a terra, che per camminare abbiamo bisogno di  essere rimessi in piedi. Potrei anche obiettare: “Ma io non smetto mai di cadere!”. Ricordate la terza caduta di Gesù:  Egli è caduto quanto ormai alla fine del cammino: un po’ come noi, quando vediamo ormai la meta, ci sentiamo  ormai sicuri e…ecco che cadiamo, cediamo! Perché ci sentiamo forti di noi stessi invece che del Signore! 

Il Signore lo sa ed è sempre pronto a risollevarmi. Egli non vuole che ripensiamo continuamente alle nostre cadute,  ma che guardiamo a Lui, che nelle cadute vede dei figli da rialzare, nelle miserie vede dei figli da amare con  misericordia. Lungo la via Crucis è caduto tre volte, proprio per dirci che Lui ci raggiunge un’infinità di volte lì dove  cadiamo e pensiamo di essere soli e abbandonati: no, Lui c’è. Per consolarci e rialzarci. «Io sono l’amore e la  misericordia stessa; non c’è miseria che possa misurarsi con la mia misericordia», disse Gesù a santa Faustina  Kowalska.

E una volta che la santa disse a Gesù, con soddisfazione, di avergli offerto tutta la vita, tutto quel che  aveva, la risposta di Gesù la spiazzò: «Non mi hai offerto quello che è effettivamente tuo». Che cosa aveva trattenuto  per sé quella santa suora? Gesù le disse con amabilità: «Figlia, dammi la tua miseria» (10 ottobre 1937). Anche noi  possiamo chiederci: “Ho dato la mia miseria al Signore? Gli ho mostrato le mie cadute perché mi rialzi?. Oppure c’è  qualcosa che tengo ancora dentro di me? Un peccato, un rimorso del passato, una ferita che ho dentro, un rancore  verso qualcuno, un’idea su una determinata persona?…” Il Signore attende che gli portiamo le nostre miserie, per  farci scoprire la sua misericordia. Come Tommaso, non temiamo di tornare: il Signore ci ama! 

Per gentile concessione di don Andrea Vena. Canale YouTube.

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