D’Avenia Alessandro – Ciò che inferno non è

1833

23 maggio 1992, la scuola sta per finire: un gruppo di liceali palermitani sta festeggiando in piscina, quando dalla tv giungono le immagini della strage di Capaci. Federico è uno di quei ragazzi. Mesi dopo, alla fine di un nuovo anno scolastico, proprio mentre si prepara ad andare a Oxford per un mese di studio, Federico incontra “3P”, il prof di religione: lo chiamano così perché il suo nome intero è Padre Pino Puglisi, e lui non se la prende, sorride. 3P lancia al ragazzo l’invito ad andare a Brancaccio a dargli una mano con i bambini del centro Padre Nostro, che don Pino ha inaugurato per strapparli alla ai “padrini” del quartiere, parodia violenta della paternità.

Quando Federico attraversa il passaggio a livello che porta a Brancaccio, ancora non sa che in quel preciso istante comincia la sua nuova vita, quella vera. Quella sera tornerà a casa senza bici – gliela rubano -, con il labbro spaccato da un pugno e con la sensazione di dover ricominciare da capo: dal buio dei vicoli controllati da uomini senza scrupoli; dalle vite spesso disperate, sempre durissime, ma talora felici di Francesco, Maria, Dario, Serena e tanti altri… Fino al 15 settembre 1993: il giorno del cinquantaseiesimo compleanno di padre Pino, lo stesso in cui viene ucciso. Il giorno in cui la bellezza e la speranza per Palermo restano affidate alle sue mani di ragazzo, chiamato a cercare e difendere ciò che, in mezzo all’inferno, inferno non è.

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Cio che inferno non eINTRODUZIONE

Nella luce prima, un ragazzo la spia. È immersa nell’agguato ventoso e salato dell’alba che si leva ancora vergine dal mare, per tuffarsi poi nelle strade avvolte dalla penombra.

Lui abita in cima a un palazzo: da lì si vede il mare e si vede nelle case e nelle strade degli uomini. Lassù l’occhio spazia fino a perdersi, e dove si perde l’occhio anche il cuore resta invischiato. Troppo mare si spalanca davanti, specie la notte, quando il mare svanisce e si sente tutto il vuoto che c’è sotto le stelle.

Perché tutto quel nascere ogni mattina? Non ha risposta un ragazzo, a cui fanno più male i petali sfioriti della rosa che le spine e ogni mattina si guarda allo specchio come un naufrago. Si tocca il volto e cerca negli occhi, con il mare incastrato dentro, quel che vi resta di vivo. Di vivo c’è la luce di lei, smagliante nell’ultimo giorno di scuola. La studia come le mappe misteriose che da bambino amava contemplare per disincagliarne tesori e isole, navi e onde.

Il ragazzo la guarda: è lei a frugargli il cuore, nel groviglio in cui crescono i sogni. Le cose investite di troppa luce proiettano altrettanta ombra, ogni luce ha il suo lutto, ogni porto il suo naufragio. Però i ragazzi non vedono l’ombra, preferiscono ignorarla.

Con le mani si copre il volto acerbo, come se si potesse ascoltare un viso con le dita. Assomiglia a un marinaio sul molo, in attesa di un contratto dopo un forzato riposo. La guarda ancora. E ancora. Permette a luce, vento e sale di modellargli la carne e i pensieri. Luce, vento, sale facciano di lui quello che vogliono, come da mille • trasformano persino la pietra infeconda degli scogli. Dio gli ha messo in petto il cuore, ma si è dimenticato la corazza. Lo fa con ogni ragazzo e per questo per ogni ragazzo Dio è crudele.

Il ragazzo ha diciassette anni e la vita da inventare. Diciassette non promette buona sorte, persino gli attori sono brutti a diciassette anni e non credono che diverranno belli. Il sangue è caldo e, quando preme forte sul cuore, si è costretti a decidere che farsene. Lui ha tutte le domande, ma le risposte arriveranno quando le avrà dimenticate. Diciassette è un errore di tempistica tra domanda e offerta.

La fissa nella luce di giugno e ha paura, perché è l’ultimo giorno di scuola e quel giorno tutti hanno nell’anima solo l’estate e le sue fughe, e lui invece mille domande. La vita gli pare simile a quelle equazioni del libro di matematica di cui può leggere il risultato in basso a destra, tra parentesi, ma il procedimento non gli riesce mai, e lo preoccupa che meno per meno dia più e meno per più meno. Il meno è sempre di mezzo.

Come una sirena, tutto quel mare e tutta quella luce lo incantano e senza remissione si lascia irretire dall’incantesimo. Guarda dall’alto, come amano fare i ragazzi a quell’età, quando cercano di decifrare il labirinto senza entrarci dentro. Non ha il filo da dipanare per non smarrirsi nei corridoi delle sue paure.

Che ne sanno i ragazzi di come si diventa uomini? Che ne sanno delle istruzioni per l’uso della notte, delle ombre, delle tenebre? I ragazzi si aspettano sempregioia dalla vita, non sanno che è la vita ad aspettarsi gioia da loro. Lui vorrebbe una vita semplice, ma la vita semplice non è mai stata. Anche se tutti ne godono, ne soffrono, ne parlano, ne scrivono, se ne sa così poco della vita. Forse semplice potrebbe essere lui, e lasciare alla vita il suo labirinto di luce e lutto.

La luce sui tetti e il lutto nelle vie, come in un quadro di Caravaggio: è la paradossale estetica della città abitata dagli uomini, adatta a ragazzi presi dall’incanto. Ignorano il dolore che ci vuole a diventare e quanto coraggio serve a perdere le illusioni. Il ragazzo lo ignora più degli altri: ha poca carne attorno ai sogni.

Per un istante lei smette di incantare e incatenare, ha occhi per fissarlo, gelosa, artigli per ghermirlo, vorace come ogni sirena, quasi a svelare la notte che cela incastrata nel cuore.

La sua città.

Palermo.

1993.

ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO

La strada tace, nonostante tutto.

Alle finestre assediate dal caldo estivo qualche tenda scatta come un serpente lasciando entrare i soffi lenti e tenaci di scirocco. Qualche cane ciondola calpestando oasi d’ombra. Rari refoli di mare temperano la calura, persino la risacca digrigna affaticata.

Don Pino con le sue scarpe grandi alza la polvere che s’indora al tocco di tutta quella luce. Ha il passo rapido, non della fretta ma del ritardo, in una città che in ritardo lo è per costituzione. Si avvicina alla sua Uno rossa, divorata da sole e ruggine. Il bambino è seduto sul cofano con i piedi penzoloni. Ha sei anni, una maglietta bianca e un paio di pantaloncini sporchi, ai piedi ciabatte da mare e a casa Maria come madre acerba. E basta.

«Dove vai a quest’ora presto, padre Pino?»
«A scuola.»
«A che fare?»
«Quello che ci vai a fare anche tu.»
«A prendere a legnate i compagni?»
«No, a imparare.»
«Ma tu sei grande, devi imparare cose?»
«Più ne sai, più ne devi imparare… E tu non ci vai oggi?»
«È vacanza.»
«Sei sicuro? La scuola finisce oggi, ma oggi c’è, sennò finiva ieri…»