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Comunità di Pulsano – Commento al Vangelo di domenica 7 Aprile 2024

Commento al brano del Vangelo di: Gv 20, 19-31

Domenica di «S. Tommaso»

La fede nel Cristo è il fondamento della nostra figliolanza divina: «Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio» (1 Gv 5,1 II lett.). E questa divina paternità, che tutti accoglie, ci rende tra noi fratelli, legati da un vincolo di amore che fa capo al Padre comune perché chi ama il Padre «ama anche chi è nato da lui». Gesù è colui che nella sua passione ha superato la grande prova dell’amore, e ci comunica proprio nell’atto della sua risurrezione, la forza di accogliere e vivere in pienezza il suo comandamento nuovo: «Amatevi a vicenda come io ho amato voi» (Gv 13,34). Questo «miracolo» dell’amore che deve giungere fino ai nemici, pure essi figli di Dio, è il frutto più prezioso della fede nella forza salvifica e redentrice della risurrezione ed è il segno della nostra appartenenza a Cristo: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni verso gli altri» (Gv 13,35).

L’evangelo ci presenta Gesù che la sera del giorno stesso di pasqua, appare agli apostoli, increduli ed esitanti, ancora chiusi in casa per paura dei giudei. La fede non aveva ancora illuminato le loro menti né aperto i loro cuori, perciò il timore e il dubbio li dominavano. Ma Gesù entra a porte chiuse: il suo corpo, reale, ma glorioso e incorruttibile, non conosce più barriere né ostacoli; come ha spezzato i vincoli del sepolcro e della morte, penetra attraverso le porte sbarrate e ancora più può irrompere nei nostri cuori chiusi e induriti dall’incredulità e dall’egoismo, per spalancarli alla speranza e all’amore.

Gesù, entrato dai discepoli timorosi, comunica loro il grande dono della pace e per rassicurarli mostra loro le mani e il costato che portavano ancora il segno delle ferite. Poi investe i discepoli, ormai pieni di gioia per averlo riconosciuto, della stessa missione che a lui era stata affidata dal Padre. Quindi, alitando su di loro, comunica ad essi il suo Spirito vivificatore e santificatore, conferendo loro il potere di rimettere i peccati, attuando realmente così la grande promessa del riscatto e della nuova creazione. Nel perdono che ci è dato mediante lo Spirito, siamo veramente rinnovati, diventando in Cristo «nuova creazione». La liturgia odierna è tutta immersa nel clima pasquale: ci mostra Gesù risorto che appare ai suoi; ci fa meditare sulla vita nuova della primitiva comunità cristiana; proclama che ognuno di noi, mediante la risurrezione di Gesù, è stato rigenerato ad una «speranza viva».

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Gesù è stato crocifisso ed è morto; ma Dio lo ha risuscitato e per mezzo suo dona agli uomini la salvezza.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso 1 Pt 2,2

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Come bambini appena nati,

bramate il puro latte spirituale,

che vi faccia crescere verso la salvezza. Alleluia.

La Liturgia di questa II Domenica di Pasqua, quale che sia il ciclo, inizia con l’invito da parte dell’apostolo Pietro all’Iniziazione della Notte santa, sia per i neobattezzati e ancor più per i fedeli veterani. Restare nell’innocenza battesimale, cercare Cristo desiderando il cibo dello Spirito Santo, «il latte spirituale» per crescere senza limiti verso la salvezza.

Anche nella I colletta l’iniziazione ha un ruolo rilevante per comprendere l’immenso dono dello Spirito Santo e del Sangue prezioso del Signore Risorto:

Dio di eterna misericordia,

che nella ricorrenza pasquale

ravvivi la fede del tuo popolo,

accresci in noi la grazia che ci hai dato,

perché tutti comprendiamo l’inestimabile ricchezza del Battesimo

che ci ha purificati,

dello Spirito che ci ha rigenerati,

del Sangue che ci ha redenti.

Per il nostro Signore…

Con la Dom. di Pasqua, Risurrezione del Signore, si apre un periodo festivo che dura 50 giorni: il tempo di Pasqua. Il tempo pasquale è un tempo forte dell’anno liturgico, importante come la quaresima, che supera non solo nella durata, ma anche nel simbolismo. Il numero 40 indica il tempo della prova, dell’attesa, mentre il numero 50 (7 x 7 = 49 + 1; dove il 7 indica la completezza, la pienezza) è l’eternità, la perfezione della meta. Il tempo di Pasqua è il tempo liturgico dedicato allo Spirito Santo. Da questo momento, lo Spirito agisce personalmente nella vita di tutta la Chiesa e di ciascuno dei credenti e agisce in mille modi. Il tempo pasquale si presenta come il periodo simbolico per eccellenza della tappa attuale della storia della salvezza, quella che appartiene alla Chiesa e allo Spirito Santo.

La riforma liturgica ha restituito a questo tempo la dignità e continuità primitiva: «I 50 giorni che si succedono dalla Dom. di Risurrezione alla Dom. di Pentecoste si celebrano come un sol giorno di festa, anzi come “la grande domenica”» (S. Atanasio).

Per questo le 8 domeniche (sino a Pentecoste) non si chiamano più come nel messale precedente Dom. I, II, … dopo Pasqua, bensì Dom di Pasqua.

I testi biblici sono d’una ricchezza e d’una tale varietà, che è impossibile toccare tutti i contenuti; tracceremo perciò soltanto uno schema, rinviando il resto alla riflessione e alla sensibilità di ciascuno di noi.

Il titolo della II Domenica di Pasqua

La II dom. di Pasqua è l’antica Dom. detta “In deponendis albis“. per il fatto che coloro i quali erano stati battezzati nella veglia pasquale, deponevano i loro vestiti bianchi quando si concludeva la settimana della loro iniziazione sacramentale. Diventavano così fedeli a tutti gli effetti. L’evangelo è identico nei tre anni A B e C. Anche per l’Oriente la figura dell’apostolo riveste una grande importanza tanto da meritare componimenti raffinati sia per gusto artistico che per tenore teologico. La liturgia delle Chiese orientali titola infatti con il nome dell’apostolo la seconda Dom. di Pasqua: Domenica dell’Antipascha o la Psêláphêsis del S. Apostolo Tommaso. La singolare importanza di questa Domenica si rileva anche dai suoi nomi. Antipáscha infatti significa che esprime in qualche modo eguaglianza e somiglianza con la Domenica della Resurrezione. In essa avvenne infatti la Psêláphêsis dell’Apostolo Tommaso, in cui si afferma per sempre la fede nel “Signore e Dio” Risorto. Si dice anche “Domenica delle porte chiuse” per indicare l’irresistibile Venuta del Risorto ai suoi e da qualcuno si chiama infine “Domenica del rinnovamento”, come quella che chiude la gloriosa settimana che segue la Resurrezione. La contiguità funzionale di questa Domenica con quella di Pasqua ha certamente un aggancio nella celebrazione solenne del “Vespro dell’agape” alla sera della Resurrezione dove l’Evangelo, ripetuto in varie lingue, narra la venuta del Risorto ai discepoli chiusi dentro il cenacolo e il dono della Pace e dello Spirito Santo, con l’invio a portare la remissione dei peccati al mondo (Gv 20,19-23), e la dura presa di posizione di Tommaso, disposto a credere solo a condizione che il Signore venga da lui per farsi “palpare” (Psêlápháô, verbo però non usato da Giovanni), nulla contando la testimonianza dei Dieci Apostoli (Gv 20,24-25).

Il Signore per solo amore di Tommaso sottostà a queste condizioni, perchè ha bisogno della fede anche dell’incredulo Tommaso reso poi fedele e credente.

I temi

Un tema dominante di questa Domenica è dunque la fede nei segni della Risurrezione. L’incredulo Tommaso dovette «vedere»per credere; i cristiani che verranno dopo credono senza aver visto, sebbene Cristo si accosti a loro con segni diversi della sua presenza gloriosa. Non con segni fisici e corporali.

I segni con cui si manifesta sono i sacramenti: l’Eucaristia, il Battesimo, ecc. questi sacramenti pasquali, non dimentichiamoli, sono segni della fede.

Nel gruppo delle letture la preponderanza dei libri del NT appare al primo colpo d’occhio.

II libro degli Atti ha lo scopo di far vedere nei tre anni, in una maniera parallela e progressiva, le prospettive di vita e la testimonianza della Chiesa primitiva. La selezione, quindi, permette di rivedere i passi più significativi del libro, ma in modo che la tematica di ciascuna delle Domeniche sia parallela a quella della stessa Dom. degli altri due anni.

Ecco i temi che comprendono le letture degli Atti nel corso delle Domeniche:

II   Dom. di Pasqua: Sommari della vita della comunità.

III  Dom. di Pasqua: Discorsi missionari di S. Pietro.

IV  Dom. di Pasqua: Discorsi di Pietro e Paolo.

V   Dom. di Pasqua: I ministeri nella Chiesa.

  • Dom. di Pasqua: Manifestazioni dello Spirito Santo.
  • Dom. di Pasqua: Nell’attesa dello Spirito.

Per la seconda lettura sono stati scelti tre libri del N.T.:

  • nell’anno A si legge la prima lettera di S. Pietro, di evidente contenuto battesimale;
  • nell’anno B si legge la prima lettera di S. Giovanni, che parla della fede e dell’amore come conseguenza del riconoscimento della manifestazione del Verbo eterno di Dio nell’uomo Gesù;
  • nell’anno C si legge l’Apocalisse, coi suoi bellissimi temi dell’Agnello assiso sul trono e delle nozze di Cristo con la Chiesa. Libro poco usato nella liturgia e poco commentato anche dai Padri della chiesa è il libro della storia della Chiesa, vista nella storia di salvezza universale; a torto è considerato misterioso e cabalistico.

Le letture di ogni Dom. sono in armonia fra loro intorno a determinati aspetti del mistero pasquale:

  1. Dom. di Pasqua: La fede in Gesù risuscitato.
  2. Dom. di Pasqua: Apparizioni.
  3. Dom. di Pasqua: Il Buon Pastore.
  4. Dom. di Pasqua: Annunzio della dipartita e del ritorno.
  5. Dom. di Pasqua: Promesse dello Spirito Santo.
  6. Dom. di Pasqua: Assenza che è presenza.

Questi sono i grandi temi che orientano la celebrazione delle Dom. di Pasqua; ognuna di esse suppone un passo in più e un aspetto diverso dell’unico mistero pasquale di Cristo, che risuscita, si manifesta, è pastore della Chiesa, sale al cielo, ma resta coi suoi per mezzo dello Spirito Santo promesso e inviato.

I lettura: At 4,32-35

La prima lettura ci dà un quadro mirabile della nuova comunità cristiana, riunita in nome e nel segno della fede, ispirata dall’amore fraterno ed operante, animata e sorretta dalla testimonianza degli apostoli. La moltitudine dei credenti, è detto, aveva un cuore solo e un’anima sola. Chi aveva dei beni non li considerava propri, ma metteva tutto in comune e si distribuiva a ciascuno secondo il suo bisogno. Questa comunanza di vita e di beni è attestata pure in un altro brano degli Atti (2,41-47), dove si nota anche la gioia e la semplicità di cuore con cui questi primi credenti si riunivano nelle loro case.

Questa comunione semplice e gioiosa è veramente il miracolo del Risorto che schiude il cuore gretto ed egoista dell’uomo vecchio per spalancarlo alla novità dell’amore a cui siamo chiamati come cittadini del regno di Dio. È il miracolo della fede semplice, ma profonda, che crede nel mistero di Gesù, figlio di Dio, il quale, con la sua vittoria pasquale, ha fatto nuove tutte le cose (Ap 21,5).

L’anima di questa comunità era la coraggiosa testimonianza degli apostoli che, investiti dalla forza della fede e dal fuoco dello Spirito, proclamavano con vigore ed efficacia la risurrezione del signore Gesù (Atti 2,36; 3,15).

Il motivo della fede ispira anche la seconda lettura, un brano della prima lettera di Giovanni (5,1-6); in essa l’apostolo proclama la vittoria della fede: «Chi vince il mondo se non colui che crede che Gesù è il figlio di Dio?» (v. 5). È la fede la forza che sconfigge il mondo perché nulla più ha potere contro il Risorto. E noi siamo, per il battesimo e la fede, così strettamente congiunti a lui, da potere, con lui e per lui, essere vittoriosi contro ogni potenza e insidia del male: «Ognuno che è nato da Dio vince il mondo e questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede» (v. 4).

Il salmo responsoriale: 117,2-4.16ab-18.22-24, AGC

Il Versetto responsorio: «Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre» (v. 1), comune per questa Domenica nei 3 Cicli, è l’imperativo innico dell’Orante a celebrare il Signore perché è Buono, e la sua Misericordia è eterna, manifestatasi nella Resurrezione del Figlio. In alternativa, si può cantare l’Alleluia.

Il Salmo è un importante poema dalla struttura molto complessa, attraverso cui si rende grazie al Signore, celebrandolo per i benefici concessi ad un personaggio regale. Questo Salmo è usato con diversi tagli nell’occasione delle celebrazioni di questo Tempo liturgico. La scelta è ristretta, e qui cade solo su 7 versetti.

L’Orante esorta a turno, ma insieme, l’intero popolo del Signore, Israele (v. 2), la casa sacerdotale di Aronne (v. 3), e i timorati del Signore (i proseliti, quelli che si accostavano da fuori alla fede d’Israele; v. 4) a narrare e a proclamare e a celebrare il Signore, perché è l’Unico Buono, e per questo la sua misericordia è eterna. Questa misericordia si è manifestata una volta per sempre al Mar Rosso, quando il Signore con la sua Destra potente operò prodigi irresistibili (Es 15,1-18), che adesso Egli ha rinnovato per questo suo fedele orante (v. 16ab, che è citazione di Es 15,6; e vedi Is 51,9-12). Perciò il Salmista afferma la sua fiducia, egli ha sperimentato che il Signore gli ha concesso la vita, e lui la dedica a narrare le opere divine all’assemblea dei fedeli, e al mondo stesso (v. 17). La prima affermazione in questo è di essere stato provato dal Signore, con meritate punizioni, tuttavia nel suo amore il Signore non lo abbandonò alla morte (v. 18).

Il Signore costruisce con sapienza, facendo collaborare gli uomini. Quando gli uomini nella loro ignoranza e nella loro ignavia trascurano la pietra principale dell’edificio, il Signore interviene di persona, e la pone come chiave di volta e fastigio dell’intera fabbrica, come quella che conferisce compattezza e resistenza all’edificio (v. 22-23a; e vedi Is 8,14; 28,16). Questo è ripetuto in modo di parabola da Cristo stesso (vedi Mt 21,42; Lc 20,17-18; Mc 12,10-11), e ripreso spesso dal N. T. (oltre che qui, vedi Rom 9,33; Ef 2,20; 1 Pt 2,6-8). Il Signore operò tale fatto straordinario anche per l’Orante, in vista dei suoi confratelli del popolo, ed essi ora lo ammirano come evento prodigioso, e ne rendono grazie al Signore celebrandolo (v. 23b). Ma allora questo evento è quello decisivo, poiché i suoi fedeli vi riconoscono i segni dell’intervento divino, che segna in modo irreversibile il tempo favorevole: è il Fatto divino, che avviene in un giorno, e lo rende il Giorno del Signore. Perciò l’Orante esorta i suoi confratelli a esultare e a gioire «in questo Giorno» (v. 24). E qui la gioia è causata dal Signore mediante il fatto e nel Giorno, nell’unica Realtà divina, che è la Resurrezione di Cristo Signore.

L’evangelo

Una rapida lettura del contesto della pericope evangelica fa subito risaltare come il c. 20 ruoti attorno alle apparizioni di Gesù risorto a Maria Maddalena e a Tommaso. Mentre gli eventi che hanno come protagonista questa discepola, si verificano il mattino di pasqua, le apparizioni ai discepoli avvengono la sera di questo giorno e una settimana dopo.

Dal punto di vista topografico rileviamo che gli eventi della prima sezione (Gv 20,1-18) si verificano presso la tomba di Gesù o hanno per oggetto questo sepolcro; invece nella seconda parte (Gv 20,19-29) ci troviamo nel cenacolo. Il nostro brano è incentrato nella figura di Tommaso (cfr canto all’evangelo[1] preso da Gv 20,29): dopo la descrizione della prima apparizione del risorto ai discepoli, è riportata la reazione negativa di questo apostolo all’annuncio strabiliante della risurrezione del Maestro.

Nel brano finale è narrata la seconda apparizione di Gesù ai discepoli, presente Tommaso, con il quale il Risorto dialoga, per proclamare beati coloro che credono senza aver visto. L’unità dell’intero capitolo è data dalla presenza di Gesù: il Risorto appare a Maria Maddalena e poi al gruppo dei discepoli. L’evangelista, prendendo lo spunto dalle ultime espressioni del Risorto a Tommaso, conclude l’evangelo, dichiarando che lo scopo della sua opera è suscitare la fede nella messianicità e nella divinità di Gesù.

Le scene descritte in Gv 20 appaiono nella loro originalità drammatica, propria del 4° evangelista: gli incontri di Gesù con Maria Maddalena e con Tommaso sono creazioni letterarie di un artista molto fine.

Anche qui però Giovanni non inventa, ma tramanda notizie redazionali riscontrabili negli altri scritti del NT; lo scrittore sacro rielabora questi dati storici, presentandoli in modo personale.

In Gv 20 sono riportati tre fatti fondamentali:

  1. la constatazione del sepolcro vuoto da parte di Maria Maddalena e di alcuni discepoli;
  2. l’apparizione del Cristo risorto a questa donna;
  3. le apparizioni di Gesù ai discepoli.

Questo triplice elemento è tramandato anche dai sinottici.

La nostra pericope si può dividere in tre momenti:

  1. dapprima viene narrata l’apparizione del Cristo agli apostoli (vv. 19-23),
  2. segue il breve dialogo fra i testimoni del Risorto e l’assente Tommaso (vv. 24-25);
  3. quindi ha luogo l’incontro con il discepolo presente nel cenacolo con gli altri (vv. 26-29).

Gli ultimi versetti del capitolo (vv. 30-31) non appartengono propriamente a questo episodio, ma costituiscono l’epilogo all’intera narrazione giovannea.

Esaminiamo il brano

v. 19: È la sera di “quel giorno”, il 1° della settimana che apre il tempo nuovo di Dio. I discepoli sono spaventati, quasi ossessionati dalla paura dei Giudei e l’evangelista annota come le porte siano chiuse. Lc 24,36-49 è molto vicino al racconto del 4° evangelo. I discepoli spaventati sono rassicurati da Gesù; non come un tempo «Sono io» (Gv 6,20), perché la sua presenza è ormai di un altro ordine, ma «Pace a voi» che non si tratta del consueto saluto ebraico (cf. Gdc 6,23; 19,20; Lc 10,5), ma è l’adempimento della promessa fatta all’ultima cena (cf. Gv 14,27). È la pace che li renderà capaci di superare lo scandalo della croce e ottenere la liberazione nella loro vita. Il saluto è ripetuto due volte.

«si trovavano i discepoli»: L’evangelista annota sobriamente che “i discepoli” si trovano riuniti insieme. Non dice chi siano, lascia intendere però che si tratta anzitutto dei discepoli principali, i Dodici, restati qui in dieci per la defezione dolorosa di Giuda, e per l’assenza innocente di Tommaso. Ora, “dieci” è la quota minima del minjan, il numero legale affinché nel culto ebraico vi sia un’assemblea idonea, a cui il Signore non fa mancare la sua presenza quando si pone in preghiera o si pone allo studio della Tôràh. La sera della Resurrezione perciò vede il primo minjan della nuova assemblea del popolo di Dio, a cui il Signore Risorto non fa mancare la sua presenza, tanto più che i discepoli non sembra che stiano studiando la Scrittura o pregando, ma solo si trovano uniti per farsi coraggio, per trovare qualche consolazione per la morte del loro Signore. Sì, Pietro e il discepolo amato si sono recati al sepolcro sollecitati dalla Maddalena, l’hanno trovato vuoto, e non hanno compreso (Gv 10,1-12); hanno ascoltato anche il messaggio della Maddalena: “Ho visto il Signore!”, vivente, che le aveva anche parlato (v. 18). Adesso stanno parlando di questo, forse senza convinzione.

Un’altra annotazione viene dal fatto che secondo la narrazione degli Atti, i Dodici (avendo anche ricomposto il numero con Mattia) stavano insieme ad altri 120 fratelli, con Maria la Madre del Signore e le altre Donne fedeli (At 1,12-26). Giovanni non ne fa parola, ma conoscendo il suo metodo, di rinviare senza alludere ai fatti già narrati da Matteo, Luca e Marco, è probabile che in questo momento i Dieci stiano con tutta la Comunità. Il Signore sta sempre con l’intera Comunità.

«stette in mezzo»: Il narratore evangelico sottolinea la venuta straordinaria del Risorto in quell’ambiente chiuso e precisa che «stette in mezzo a loro». Il corrispondente verbo greco (hístēmi) ha una particolare connotazione, anche perché è costitutivo del verbo «risorgere» (anístēmi) e del sostantivo «risurrezione» (anàstasis). Significa «stare in piedi», tipica posizione di uno vivo e la sfumatura dell’aoristo esprime l’inizio di un’azione improvvisa: Gesù si colloca quindi «al centro», segnando visivamente il proprio ruolo centrale e decisivo.

v.20 : «Mostrò loro…»: L’evangelista Giovanni sottolinea con forza che il Cristo che appare e che sta in mezzo ai discepoli è un essere reale, è lo stesso Gesù appeso sulla croce, per questo mostra i segni del suo martirio. Giovanni è il solo a dare rilievo alla piaga del costato; già nella crocifissione l’aveva menzionata come densa di significato per il sangue e acqua che ne uscirono (Gv 19,34-35). Luca non parla di costato perché nel racconto della passione questo episodio non è citato. Ma con tutto questo, fra il modo di essere del Gesù di prima e del Cristo di ora, c’è una profonda differenza: egli entra improvvisamente, a porte chiuse. L’umanità del Cristo è stata trasfigurata radicalmente, per cui non appare più soggetta alle leggi fìsiche; perciò il Risorto può penetrare in ambienti chiusi, a porte serrate, comparendo ai discepoli come d’incanto (vv. 19 e 26).

vv. 21-23: Questi versetti ci mostrano il compimento di altre due promesse:

  1. la missione;
  2. il dono dello Spirito.

Gesù manda i discepoli e non si precisa dove e a chi sono mandati.

Mt 28,18 dice a «tutti i popoli»; Mc 16,15 parla di «estremità della terra».

L’indeterminazione che c’è nel testo del 4° evangelo è più eloquente, è decisamente un’apertura senza confini. Il quarto evangelo non si dilunga nel descrivere la missione ma ne indica l’aspetto centrale: il perdono dei peccati. Tutto è detto in quel «come il Padre ha mandato me». È un invito a rileggere i numerosi passi dell’evangelo in cui è descritta la missione che Gesù ha ricevuto dal Padre (3,17.34; 5;36.38; 6,57;…).

Gesù «alitò su di loro»: è solo di Giovanni, in Luca è una promessa che si verificherà a Pentecoste (At 2,1-4). Il gesto è un simbolismo conosciuto nell’antico Testamento ed esprime l’idea di una creazione rinnovata. Gen 2,7 creazione di Adamo; vedi anche la grande visione di Ezechiele (37,9). Soltanto lo Spirito di Dio è capace di ricreare l’uomo e strapparlo al peccato (Ez 36,26-27; Sal 50,12-13; 1 Re 17,21). Lo Spirito è il dono del Cristo, viene dal «soffio» del Cristo Risorto; in ebraico il termine «spirito» e «soffio» coincidono, ricordiamo Gv 19,30. La missione, il dono dello Spirito, il potere di rimettere i peccati sono dati all’intera comunità, che però si esprime attraverso coloro che detengono il ministero apostolico.

vv.24-25: Siamo davanti alla prima testimonianza ecclesiale e al suo primo insuccesso; Tommaso non crede (per conoscere la personalità di questo apostolo si legga 14,5; 11,16), questo apostolo è un uomo concreto che vuol vedere con i suoi occhi e toccare con le proprie mani. Il dubbio dei discepoli in Giovanni è affrontato nella cruda realtà, mentre in Mt 28,16-20 e Lc 24,34-43 è affrontato in maniera solo enunciata ed anonima.

«Tommaso… chiamato Dìdimo»: Il narratore non presenta l’apostolo solo per nome ma ne spiega il significato: purtroppo la nuova versione CEI ha ancora conservato la stessa traduzione precedente, che non è adeguata. Un lettore italiano infatti comprende che Dìdimo fosse il soprannome di Tommaso, mentre è la traduzione greca (Didymos) del vocabolo aramaico (Toma’): entrambi significano «Gemello». L’espressione greca ho legómenos ricorre anche in Gv 4,25 per spiegare «Messia» con «Cristo»: è evidente che Giovanni vuole fornire la forma greca (Cristo) di un termine semitico (Messia). Lo stesso avviene qui. Inoltre è da osservare che in ben tre casi (oltre a questo avviene in Gv 11,16; 21,2) l’evangelista ci tiene a precisare che Tommaso significa Gemello: se lo fa, è perché lo ritiene importante. Certamente importante ma di questo gemello non vi sono tracce; mai negli evangeli si parla del “gemello” di Tommaso. È un vero enigma.

«uno dei dodici»: Nel 4° evangelo, come presso i sinottici, i «dodici» indicano gli apostoli. Il brano della vocazione di questi discepoli più intimi appare significativo: dal gruppo dei suoi seguaci il Maestro ne sceglie dodici per inviarli a proclamare l’evangelo (Mc 3,13ss e par.).

Anche nel 4° evangelo troviamo una netta distinzione tra i discepoli in genere e il gruppo dei «dodici»: il brano che descrive la defezione dei primi e l’adesione dei secondi a Gesù, molto chiara in merito, è Gv 6,66ss.

Ora, in Gv 20,24 siamo informati che Tommaso era uno dei «dodici» cioè uno dei dodici apostoli; questo è l’unico passo di Gv 20, nel quale si fa riferimento al gruppo dei «dodici»; nei restanti versetti si parla sempre dei discepoli (cf. Gv 20,18ss.25s), perciò si tratta di tutti i seguaci di Gesù presenti nel cenacolo e non dei soli apostoli, anche se i «dodici» occupano un posto di preminenza. In base a questo dato esegetico si deve concludere che non solo i dodici apostoli, ma tutta la comunità dei discepoli ricevette il dono dello Spirito, per essere abilitata alla missione. In realtà, come abbiamo or ora costatato, lo Spirito Santo crea il nuovo popolo di Dio, formato non di soli apostoli, ma di tutti i seguaci del Cristo.

vv. 26-27: «Otto giorni dopo…»: Il rituale è lo stesso della prima apparizione, Gesù è sempre lui. Senza attendere risposte va da Tommaso e gli fa constatare la sua identità, calma le sue apprensioni e lo invita a non comportarsi da incredulo. Lo chiama ad approfondire la sua fede di prima, a rafforzarla, a farla crescere. Egli non deve limitarsi alla fede nel messia deve credere al Figlio dell’uomo glorificato nella sua morte.

v. 28 «Mio Signore e mio Dio»: Tommaso perde ogni freno, quasi esagera nella sua professione di fede.

In nessun punto del 4° evangelo c’è una professione di fede così decisa e chiara. Tra la prima professione del discepolo Natanaele (1,49) all’ultima di Tommaso è contenuto il viaggio di fede della comunità. S Gregorio Magno diceva:«Ci ha giovato più l’infedeltà di Tommaso che la fede dei discepoli credenti», perché questi ha vissuto il dramma di molti di noi, ha parlato per noi e per noi ha avuto la risposta.

Così anche la liturgia bizantina con i suoi tropari:

O straordinario prodigio! L’incredulità ha generato ferma fede. Tommaso infatti che aveva detto: Se non vedo, non credo; dopo aver palpato il costato, proclamava la divinità di colui che si era incarnato, il Figlio stesso di Dio. Ha fatto conoscere colui che nella carne ha patito: ha annunciato il Dio che è risorto, e a chiara voce ha gridato: O mio Signore e mio Dio, gloria a te.

O straordinario prodigio! Il fieno ha toccato il fuoco ed è rimasto indenne. Tommaso ha infatti messo la mano nel costato igneo di Gesù Cristo Dio, e non è stato bruciato da questo contatto; con ardore ha infatti mutato in bella fede l’incertezza dell’anima, e dal profondo dell’anima ha gridato: Tu sei il mio Sovrano e Dio, risorto dai morti.  Gloria a te.

O straordinario prodigio! Giovanni ha riposato sul petto del Verbo, Tommaso ha ottenuto di toccare il suo costato: e l’uno ne ha tremendamente tratto l’abisso della teologia, mentre l’altro è stato reso degno di iniziarci all’economia, perché chiaramente ci presenta le prove della sua risurrezione, esclamando: O mio Signore e mio Dio, gloria a te.

Con la sua destra indiscreta Tommaso ha esaminato, o Cristo Dio, il tuo vivificante costato: e giacché tu eri entrato a porte chiuse, insieme agli altri apostoli esclamava: Tu sei mio Signore e mio Dio (Kondakion).

Alla luce di questa solenne e profonda professione di fede possiamo provare a dare qualche soluzione al senso del nome Gemello:

  1. dall’essere ‘doppio’, tipico del dubbio, Tommaso è passato infatti ad una adesione chiara;
  2. inoltre proprio grazie alla fede, diviene ‘simile’ a Gesù stesso, lasciandosi conformare a lui;
  3. infine – ancora meglio – il narratore vuole suggerire al lettore di riconoscere in Tommaso il proprio simile, facendo con lui l’itinerario di crescita nella fede in Cristo Gesù.

vv. 28-29 «Beati…»: L’assicurazione accordata a Tommaso è in via eccezionale, la normalità riposa sul fondamento dell’ascolto. Il segno che conduce alla fede si è trasformato: non è più oggetto di visione diretta ma di testimonianza (cfr II Colletta):

O Dio, che in ogni Pasqua domenicale ci fai vivere le meraviglie della salvezza,

fa’ che riconosciamo con la grazia dello Spirito

il Signore presente nell’assemblea dei fratelli,

per rendere testimonianza della sua risurrezione.

Per il nostro Signore…

vv. 30-31: «Gli ultimi»: pur essendo la conclusione dell’intero evangelo sono particolarmente collegati al racconto dell’apparizione Tommaso e alla beatitudine della fede. Con questo epilogo l’evangelista spiega per quale fine ha raccontato quei segni di Gesù: anzitutto perché i suoi lettori (cioè noi!) credessero che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio. Ma il fine ultimo è la vita: credere in Gesù infatti permette di avere la vita, cioè la possibilità di vivere in modo pieno e realizzato.

La nuova comunità cristiana riunita nel nome e nel segno della fede, ispirata dall’amore fraterno ed operante, animata e sorretta dalla testimonianza degli apostoli è veramente il miracolo del Risorto che schiude il cuore gretto ed egoista dell’uomo vecchio per spalancarlo alla novità dell’amore a cui siamo chiamati come cittadini del regno di Dio. L’amore, su cui tanto insiste Giovanni nella sua prima lettera, non è un sentimento soggettivo, un’emozione: è una realtà che impegna totalmente e che può esistere solo quando si è in comunione di fede con Dio. L’amore fraterno è sincero e autentico quando suppone la sottomissione di tutta la propria esistenza alla volontà di Dio, mediante l’osservanza dei suoi precetti (vv. 2-3). Questo “miracolo” dell’amore che deve giungere fino ai nemici, pure essi figli di Dio, è il frutto più prezioso della forza salvifica e redentrice della resurrezione. È l’annuncio della beatitudine che risponde alla richiesta dell’apostolo Tommaso e che percorre tutti i secoli e durerà fino alla fine dei tempi.

Queste cose, conclude l’evangelista Giovanni, sono state scritte «affinchè crediate che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio, e credendo abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,31).

Piccola conclusione

Alla testimonianza dell’apostolo, Gesù risponde: «Perché mi hai veduto, o Tommaso, hai creduto; beati coloro che non hanno visto e hanno creduto». Forse siamo poco abituati a riflettere su queste parole così profonde, pronunciate da Gesù nel momento in cui, per la prima volta dopo la passione, un discepolo riconosce esplicitamente la sua divinità.

Beati quelli che credono senza vedere, senza discutere, senza argomentare: ma credono nel Figlio perché si è rivelato e lo Spirito gli ha reso testimonianza. L’annuncio di questa beatitudine ha davvero percorso tutti i secoli e durerà fino alla fine dei tempi. Queste cose, conclude Giovanni, sono state scritte «affinché crediate che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio, e credendo abbiate la vita nel suo nome» (Gv. 20, 31).


[1] «Perché mi hai veduto, Tommaso, tu hai creduto;
beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano

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