Comunità di Pulsano – Commento al Vangelo di domenica 29 Ottobre 2023

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Domenica «DEI DUE MASSIMI COMANDAMENTI»

L’amore di Dio e l’amore degli uomini sono compatibili o, al contrario, l’uno esclude l’altro in modo che bisogna assolutamente operare una scelta? Bisogna allontanarsi dagli uomini per trovare Dio? E chi ha trovato Dio può ancora ritornare verso gli uomini e vivere con loro, interessarsi di loro e lavorare con loro e per loro? Queste domande hanno ricevuto da Gesù una risposta essenziale: il primo comandamento è di amare Dio, e il secondo, che gli è simile, è di amare gli uomini. Il cristiano può allontanarsi momentaneamente dagli uomini, per pregare, per non pensare che a Dio. Può fare un’ora di meditazione senza ritrovare nella contemplazione di un mistero divino il pensiero dei bisogni degli uomini. Questo, anzi, diventa, in certi momenti, una sentita necessità. Nella vita cristiana come nella vita umana in genere, esistono normalmente dei ritmi; si va dalla contemplazione all’azione, e dall’azione alla contemplazione. Ma l’allontanamento dagli uomini è sempre solo provvisorio. Così accade nel “mondo” nel quale si succedono momenti di ritiro a momenti di intensa attività. Anche all’interno della Chiesa vediamo contemplativi e attivi. Il contemplativo serve gli uomini servendo Dio, l’attivo serve Dio servendo gli uomini. I due esprimono, specializzandosi nell’imitazione dei Cristo, uno stesso e unico mistero: quello della fede nel Verbo incarnato. Così è capitato e capita ancora nella storia della Chiesa. Il santo Curato d’Ars sospirava il monastero e la solitudine mentre si prodigava fino in fondo a favore degli uomini; e il monastero ha dato alla Chiesa grandi papi, grandi vescovi, grandi riformatori e missionari che sono passati dalla contemplazione e dalla solitudine all’azione più indefessa e senza soste.

Leggiamo dai Padri:

L’amore non può essere diviso. Scegli pure ciò che vuoi amare: il resto seguirà da sé. Cerca di dire: lo amo soltanto Dio Padre. Tu menti: se ami, non puoi amare lui solo; se ami il Padre, ami anche il Figlio. Sì, tu dici, amo il Padre e il Figlio, e basta: amo Dio Padre e il suo Figlio, Gesù Cristo, Signore nostro, che ascese al cielo e siede alla destra del Padre, Verbo per mezzo del quale tutto fu fatto, Verbo fatto carne, che venne ad abitare in mezzo a noi; soltanto questi io amo. Tu menti: se ami il capo, ami anche le membra; se poi non ami le membra, non ami neppure il capo. … Fratelli, voi sapete già quali sono le sue membra: sono la Chiesa di Dio. «Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio». In che modo? I figli di Dio non sono forse diversi da Dio? Ma chi ama Dio, ama i suoi precetti. E quali sono I precetti di Dio? «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri». Che nessuno cerchi di sottrarsi all’amore in nome di un altro amore, perché l’amore abbraccia tutto. (S. Agostino, Commento alla prima lettera di s. Giovanni, X, 3)

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Più si è uniti al prossimo, più si è uniti a Dio. … Voglio ricordare un’immagine significativa che si trova nei padri della chiesa. Supponete un cerchio tracciato per terra. … Immaginate che questo cerchio sia il mondo; il centro, Dio; e i raggi, le diverse vie, i diversi modi di vivere degli uomini. Quando i santi, desiderosi di avvicinarsi a Dio, camminano verso il centro del cerchio, si avvicinano nello stesso tempo gli uni agli altri; e più si avvicinano gli uni agli altri, più si avvicinano a Dio. … Così è la carità.

(Doroteo di Gaza, Istruzioni VI, 78)

«Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?». La domanda è ancora volutamente insidiosa, ma Gesù risponde con straordinaria semplicità. Dal punto d’intersezione tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo egli fa derivare tutta la Scrittura, come valore morale e come norma di condotta. Dichiarando che il secondo comandamento è simile al primo, Gesù lascia intendere che la carità verso il prossimo è importante quanto l’amore a Dio. Ed è proprio in questo che la sua religione si differenzia da quella degli scribi e dei farisei. E la nostra? In connessione con una crisi delle nostre rappresentazioni di Dio, il nostro modo di vivere la fede si è sclerotizzato in posizioni diverse. Calcando un po’ i tratti, possiamo dire che per alcuni cristiani esiste soltanto il primo comandamento: la religione del Padre, la dimensione verticale della fede e, a livello socioculturale, il rispetto dell’ordine e dell’autorità al di sopra di tutto. «Vogliamo sentir parlare di Dio, del cielo, della grazia e dei sacramenti! Il resto non ha importanza». Per altri, nulla eguaglia il valore del secondo comandamento: la religione dei fratelli, la dimensione orizzontale della fede, lo sviluppo degli uomini e dei popoli, l’impegno politico.

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Il guaio è che sia gli uni che gli altri finiscono col rinchiudersi in una sola dimensione, rinunciando a una pienezza di relazioni al di sopra, intorno e dentro di loro. E inconsapevolmente si rivolgono a un Dio anch’esso ridotto a una sola dimensione, mentre il Dio degli evangeli si è rivelato come Padre, Figlio e Spirito santo. Con lo stesso amore, effuso nel suo cuore dallo Spirito, il cristiano può amare Dio, i propri fratelli e se stesso. Ed è amando il prossimo come se stesso che manifesta il suo amore per Dios e vive nel modo giusto la sua relazione filiale nello Spirito. È questo il nocciolo di tutto l’insegnamento della Legge e dei profeti.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 104,3b-4

Gioisca il cuore di chi cerca il Signore.

Cercate il Signore e la sua potenza,

cercate sempre il suo volto.

Nell’antifona tratta dal salmo 104 appartenente al genere didattico storico (DSt) il Sapiente divenuto orante esorta i nostri cuori, i cuori l’assemblea dei fedeli, con tre imperativi (gioisca, cercate, cercate) affinché non cessiamo di cercare il Signore che ci attende e diventiamo saldi nella fede. Il Signore poi opera sempre in modo da farsi trovare nella sua Bontà. Trovarlo è impossibile, ma allora è Lui a trovare quanti Lo cercano. Noi dobbiamo cercare «il Volto», la Persona del Signore, da cui irraggia la luce vivificante per l’eternità, senza mai stancarci.

Canto all’Evangelo Gv 14,23

Alleluia, alleluia.

Se uno mi ama, osserverà la mia parola, dice il Signore,

e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui.

Alleluia.

L’alleluia all’Evangelo (Gv 14,23) ci ricorda che l’amore verso il Signore che è stato tante volte ansiosamente richiesto da Lui stesso ai suoi discepoli porta al segno tangibile, praticare la Parola da Lui portata e donata ad essi. Solo allora il Padre ama i discepoli così visitati dallo Spinto Santo, quelli che dallo Spinto Santo vivono la Vita nuova. Questa è la preparazione immediata alla Venuta del Figlio (Ap 3,20; Ct 5,2), il quale promette che, venendo, porterà con sé il Padre, con il quale porrà in essi la loro augusta Dimora trasformante. La maniera in cui Dio vuole farsi conoscere dagli uomini è il contagio dell’evangelo che la seconda lettura descrive brevemente. Gesù si è espresso con atti e con parole: parole che illuminavano le azioni, e azioni che avvaloravano le parole. Gli apostoli hanno fatto lo stesso, e ogni comunità cristiana, che si sente chiamata ad annunciare la buona notizia, non può agire in modo diverso. È questo che san Paolo riferisce della giovane comunità cristiana dei tessalonicesi. Nessuna meraviglia se la vita di simili comunità riesce ad essere contagiosa e se l’evangelo tramite loro si diffonde. Il versetto del canto all’evangelo è dunque ottima preparazione alla lettura della pericope evangelica: comprendere e vivere l’amore di Dio. Gesù che non vuole intavolare discussioni vane, si limita a citare i due comandamenti dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. Tuttavia, non può fare a meno di aggiungervi un commento: il resto della legge dipende da questi due comandamenti: sopprimeteli e tutto l’edificio crolla. Ce n’è abbastanza per chiudere la bocca ai farisei di tutti i tempi, così attaccati al «resto», alle prescrizioni contingenti, al formalismo esteriore. Ed è altresì una condanna di tutti quei gruppi in cui regnano così numerose le virtù, che non c’è più posto per un gratuito atto d’amore.

Antifona alla Comunione Sal 19,6

Esulteremo per la tua salvezza

e gioiremo nel nome del Signore, nostro Dio.

Con l’antifona alla comunione (Sal 19,6, SR = Salmo della Regalità) l’assemblea orante, unita con il suo Re, riafferma oggi la volontà di gioire per la salvezza divina, che è sempre mediata dal suo Capo, attraverso le sue vittorie, che sono del suo popolo. E così esprime anche la volontà di onorarsi solo del Nome del suo Signore, al quale è vincolata dall’alleanza, sapendo che solo in Lui sta la sua salvezza. I fedeli si gloriano di questo Nome, quando l’invocano con il «Padre nostro», quando dall’ascolto della Parola sono ammessi alla Mensa del Convito preparato nella Chiesa; e se ne gloriano, perché a partire dalla loro Iniziazione esso è sempre invocato su loro, con esso cominciano ogni preghiera, in esso vivono e muoiono. Nome sigillato su loro dallo Spirito Santo. Così sono resi idonei dallo Spirito Santo ad amare il Signore con tutto se stesso, e non meno il loro prossimo come se stesso.

L’insegnamento pubblico di Gesù a Gerusalemme (cfr contesto delle Dom. precedenti) si avvicina alla fine, la Passione è ormai vicina. Oggi leggiamo il dibattito/scontro riguardante il precetto più grande della Legge (cfr. lo schema di Matteo). Omessa la seconda disputa sul problema della risurrezione, posto dai sadducei (Mt22,23-33), la liturgia domenicale ci propone la terza disputa con i rappresentanti ufficiali del giudaismo, in cui sono ancora i farisei a prendere l’iniziativa e a proporre a Gesù un’altra spinosa questione. Gesù è stato accostato, come si usava nelle scuole rabbiniche, da diversi tipi di uomini, provenienti da diverse correnti, ad es. i sadducei (vv. 23-33) e già prima da farisei ed erodiani (cfr. Dom. precedente). Si tratta sia di conversazioni interessate alla dottrina, sia di tentare questa dottrina e trovarla in fallo. Tutti gli interlocutori di Gesù però non trovano da ridire nulla su Gesù. I tre sinottici hanno discrepanze più forti del solito nelle loro versioni di questo episodio. L’evangelista Luca (10,25-28) lo ha collocato in un contesto differente e alla discussione ha fatto seguire la parabola del buon samaritano, a lui peculiare, l’esposizione classica del significato del termine «prossimo». In Luca inoltre è il «dottore della legge (nomikós)» che formula i due comandamenti in risposta alla domanda di Gesù. Marco particolarmente con l’aggiunta di 12,32-34, presenta lo scriba in una luce favorevole, come una persona aperta, assennata e meritevole di lode, un soggetto insomma che non sta «lontano dal regno di Dio». In Matteo e Luca invece, l’interrogante è ostile e pone la domanda per «tentare» Gesù (cf verbo peirázō); in Matteo egli parla come il rappresentante di una cospirazione. Non si tratta di un trabocchetto come nell’altra circostanza, ma la notazione «per metterlo alla prova» lascia intuire un atteggiamento ostile e maldisposto. L’evangelista Matteo giudica regolarmente gli scribi e i farisei meno benevolmente degli altri evangelisti.

I lettura: Es 22,20-26

L’attesa dei poveri – Voi eravate poveri in Egitto, dice Dio; per questo vi ho fatti uscire da quel paese. Ma vi sono ancora molti poveri nel mondo; chi testimoniera loro la mia benevolenza, chi li libererà in nome mio? Chi prenderà le difese dei poveri come ho fatto io? E chi saprà rendere la sera stessa ai fratelli ciò che ha preso da me la mattina, senza tenerlo egoisticamente per sé?

La pericope fa parte del «codice dell’alleanza», una densa e molto antica sezione dell’Esodo, assai articolata e di accertata redazione mosaica (Es 20,22 – 23,19). Osservando lo svolgimento del testo, si nota facilmente una struttura ad U, nel senso che si scende dai doveri verso Dio a quelli verso i fratelli, verso gli animali, di nuovo verso i fratelli e finalmente si risale a quelli verso Dio. Così, si discende e si risale da Dio. Il testo di oggi sta nella risalita.

Un’altra proprietà del «codice dell’alleanza» è di essere costellato di 6 «decaloghi» minori:

  1. 21,1-11;
  2. 21,12-27;
  3. 22,4-14;
  4. 22,17-30;
  5. 23,1-9;
  6. 23,10-19.

Così il testo di oggi è compreso nel 4° decalogo minore.

La prima norma, di un’umanità sorprendente e di un’attualità sconcertante, è il trattamento cordiale verso lo straniero. La motivazione è stringente ed esemplare: anche Israele una volta fu straniero in Egitto e conobbe la ferocia dell’oppressione e della segregazione (v. 21). La Legge vi torna sopra diverse volte (23,9; Lv 19,33; Dt 10,18-19; 24,17-18; 27,19). Va annotato tuttavia, che se queste norme furono ancora materia di predicazione profetica alcuni secoli dopo, dal sec. 8° al sec. 5° a. C, questo è il segno che esse non erano rispettate (Ger 7,6; Zacc 7,10; Mal 3,5). Come vincere gli egoismi, ospitare gli stranieri, e versare le primizie e le decime nel santuario affinché una parte fosse donata ai forestieri? (Dt 26,11-13: «11Gioirai, con il levita e con il forestiero che sarà in mezzo a te, di tutto il bene che il Signore, tuo Dio, avrà dato a te e alla tua famiglia.12Quando avrai finito di prelevare tutte le decime delle tue entrate, il terzo anno, l’anno delle decime, e le avrai date al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova, perché ne mangino nelle tue città e ne siano sazi, 13allora dirai dinanzi al Signore, tuo Dio: «Ho tolto dalla mia casa ciò che era consacrato e l’ho dato al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova, secondo quanto mi hai ordinato. Non ho trasgredito né dimenticato alcuno dei tuoi comandi.»). L’esperienza di stranieri nel passato, deve contare per qualche cosa. Il forestiero è il più bisognoso, perché non ha statuto civile né giuridico, non possiede la terra, non ha ricchezze, non può commerciare. Non ha famiglia. Non ha padre e madre. Né fratelli. Va aiutato. Se accetta la fede nel Signore Unico, va anche ammesso all’assemblea liturgica, dopo il rito della circoncisione.

Anche la vedova e gli orfani sono in situazione grave. Essi hanno statuto civile e giuridico, ma non hanno la tutela; le vedove giovani sono state sempre oggetto di caccia creduta facile e le vedove in genere subivano ingiustizie e spogliamenti, sfruttamento e facile oppressione; gli orfani corrono il pericolo di non avere più famiglia, di essere depredati sia da parenti, sia da tutori interessati, sia da estranei. Se il Signore chiama se stesso «Padre degli orfani e Giudice delle vedove» (Sal 67,6), allora gli orfani e le vedove debbono essere tenuti in grande conto dall’intero popolo del Signore. Se saranno oppressi, grideranno al Signore. Il Signore è sensibile a questo grido. La sua ira esploderà in modo illimitato, sterminerà gli oppressori, e lascerà a loro volta le loro mogli vedove, e i loro figli orfani (vv. 21-23). La Legge del Signore risuona di diversi richiami in questo campo (Dt 24,17; 27,19), e così i Profeti investiranno il popolo affinché la applichino (Is 1,17.23; 10,2; Ger 5,28; Ez 22,7; Zacc 7,10), minacciando sanzioni terribili. Il grido di dolore (Gb 34,28; Sir 4,6; 35,16. 19) trova sempre puntualmente l’ascolto divino (Sal 17,7; 144,19; Giac 5,4, 1,27).

Una piaga sociale inestirpabile è l’usura, in ebraico «il morso». Essa dura e prospera fino a oggi, sempre omicida, ma oggi ancor più proliferante e incontrollabile. Anche per colpa del sistema legislativo e dell’usura stessa esercitata secondo la legge vigente dal sistema bancario. Si sa che qui non esiste rimedio. Infatti, gli stati, credendo di controllarla, l’hanno legalizzata. Usura è superare il tasso del 5% del capitale mutuato. Gli istituti finanziari sono immensi centri usurari, avidi, corrotti, spietati, che nascondono il termine odioso di usura dietro complicate terminologie e con infiniti trucchi raggirano sia la legge, che pure li protegge, sia i poveri bisognosi che vi ricorrono, talvolta neppure tanto poveri, se le industrie mutuano a interessi agevolati, che sono sempre da usurari.

La Scrittura proibisce ogni forma d’usura. La norma del v. 24 permette il prestito, tuttavia con lo sbarramento drastico: di non imporre l’usura al popolo piccolo, ch’è povero. Ed esistono altre prescrizioni analoghe (Lv 25,35-37; Dt 23,19-20), ribadite dai libri sapienziali (Pr 28,8). Ma se i Profeti richiamano la responsabilità individuale (Ez 18,8.17) e poi esplodono con «rabbia profetica» contro l’intera Gerusalemme, città dove le usure sono normali (Ez 22,12), è segno appunto che «le usure erano restate normali», inestirpabili fino ad allora e oltre. Il Signore non le perdonerà mai a nessuno.

Viene anche l’altro grave problema del pegno, su cui si esercita, sia pure con altri nomi, un’altra indegna forma di usura. Come esempio è preso il mantello, questo ampio indumento che in Oriente ha molti usi, contro il sole, la pioggia, il freddo; la notte per i più poveri fa da materasso e da coperta, su una stuoia, sotto una tettoia, una roccia, un albero, e sotto le stelle. Il povero ha come bene solo il mantello. Lo impegna per avere due spiccioli. È più normale che alla sera non abbia guadagnato tanto da ottenere il margine dei due spiccioli da restituire. Chi ha preso il pegno non l’ha fatto per pietà, altrimenti avrebbe donato i due spiccioli, l’ha fatto per interesse. Bene, la sera deve restituire il mantello lo stesso (Dt 24,10-13.17; Gb 22,6; 24, 3.9; Pr 20,16; 22,27). Il povero ha diritto, prevalente su qualsiasi sordido interesse altrui, di dormire con la sua unica coperta. Se no, come dorme? Egli griderà, allora (vv. 25-26a). Come gridarono i Profeti contro tanta iniqua ferocia di chi non restituisce il pegno, o di chi se lo vende all’asta (Ez 18,7,16; Am 2,8). Il Signore ascolterà, poiché Egli è il Misericordioso (v. 26b; 34,6, e Domenica della SS. Trinità). Vuole che prima si ami il prossimo, altrimenti interviene con rigore inflessibile.

Il Salmo responsoriale: 17,2-3a.3bc-4.47 e 51, salmo regale (SR) con il versetto responsorio: «Ti amo, Signore, mia forza» (v. 2), i fedeli ripetono fervidamente la loro volontà di amare il Signore, loro unica Forza. L’Orante è il Messia regale, che rievoca la sua vicenda difficile, superata solo perché il suo Signore lo assiste, considerando che la salvezza del Re fedele provoca e porta la salvezza dell’intero popolo. Perciò l’esordio del canto è una grande, articolata affermazione dell’amore dell’Orante verso il Signore, e così «Io voglio amare Te, Signore!» è il primo grido appassionato. In questo amore il Re ha scoperto la sua povertà umana, ma anche la sua disposizione alla comunione con il Signore, che verso lui ha manifestato le mirabili qualità divine che si prodigano. L’Orante perciò Lo proclama sua unica Forza, Fortezza, Rifugio, Liberatore per lui, da cui trae ogni energia per vivere (45,1; 70,3). Né in cielo né in terra esistono altri come il Signore. In terra nessuna alleanza umana potè mai aiutarlo, anzi trovò sempre nemici soverchianti (vv. 2-3ab). Così può proclamare con la formula dell’alleanza: «Dio mio e Aiuto mio», ossia potente Alleato maggiore, sul quale riporre tutta la speranza. E contemplandolo, ne sa proclamare anche altri titoli, come Protettore (v. 30), «Corno della mia salvezza» (corno è potenza), unico che gli dia sicuro rifugio (v. 3cd). E su questo può riaffermare la sua fiducia: nell’’invocare il Signore, unico degno di lode, trova la salvezza dai nemici, poiché il Signore interviene sempre al suo grido (v. 4). Il grido giubilante raggiunge adesso l’entusiasmo, con due formule, «Viva il Signore!» e «Benedetto l’Aiuto mio!», la prima essendo anche la classica formula del giuramento, la seconda una benedizione che indica insieme azione di grazie e lode e comunione. Segue l’augurio che il Signore della salvezza sia esaltato e magnificato sempre, in sé e dagli uomini (v. 47). Poiché solo Lui rese grandi «le salvezze» (143,10; ma il termine significa le vittorie) del suo Re, in ogni ordine, ma in specie dai nemici. E solo Lui dona sempre la sua Bontà a colui che scelse per essere il suo «Unto», il consacrato per la missione presso il popolo (v. 51; 2,2).

Esaminiamo il brano

vv. 34-35 Adesso vengono i farisei da soli; quelli stessi che forse hanno ascoltato con piacere come Gesù abbia ammutolito i sadducei sulla questione della resurrezione dei morti. Un esperto della legge (nomikós) è delegato ad interrogare Gesù per provarlo. In quale senso è da ritenere una prova la questione proposta a Gesù? Non era egli stimato capace o competente per rispondere a domande di questo genere? Forse si mirava a ottenere una sua decisione in favore di alcuni comandamenti che stimasse più importanti di altri per poterlo poi accusare di fare discriminazione tra i precetti della Legge e quindi accusarlo di mancare di rispetto per essa. Per molti di essi tutti i comandamenti avevano la stessa importanza; la loro attenzione infatti non si rivolgeva tanto ai contenuti della legge, quanto alla sua caratteristica formale d’imposizione. Riassumendo potremmo dire che valeva il principio della legge per la legge. Altre informazioni le possiamo ricavare osservando meglio il vocabolo usato da Matteo:

  1. Nella descrizione del loro «radunarsi insieme» si potrebbe celare un’allusione al Sal 2,2 («i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e contro il suo unto [Messia]»). Nel verbo synagóriunirsi») ci potrebbe essere anche un riferimento alla sinagoga.
  2. Per indicare il “mettere alla prova” del dottore della legge incontriamo quel peirázō che è già stato usato dallo stesso evangelista nell’episodio delle tentazioni di Gesù (cfr 4,1). Ricordiamo che esaminando il brano delle tentazioni dicemmo che quel “tentare” nel linguaggio biblico ha un duplice significato: «mettere alla prova, saggiare» e «far deviare dalla retta via» e di come prevalesse il secondo significato.

v. 36  «il grande comandamento»: : Il testo greco non ha l’articolo «il». L’espressione ha il valore di un superlativo («il più grande»). La domanda è tipica dei rabbini, che avevano codificato, esplorando a fondo la Legge, ossia anzitutto il Pentateuco, una serie ordinata di precetti positivi e negativi, su cui doveva essere regolata la vita dei fedeli. Il brano della prima lettura tratto dal libro dell’Esodo prepara la risposta di Gesù; le continue ed innumerevoli esortazioni alla pietà verso i deboli, i bisognosi, trovano qui la sintesi più efficace. I rabbini contavano 613 comandamenti distinti nella legge, dei quali 248 (quant’eranole parti del corpo umano, secondo una loro anatomia) erano precetti positivi («farai») e 365 (tante quante i giorni di un anno)  precetti negativi («non farai»). Questi comandamenti erano suddivisi in «lievi» e «gravi» secondo l’importanza della materia. Entrambe le categorie dovevano essere prese sul serio e la ricompensa per la loro osservanza era la stessa per entrambe.

II bisogno di sintesi e di linee direttrici era stato espresso dai profeti (Mi 6,8) e dalla letteratura sapienziale (Qo 12,13) e continuamente ricercato dai grandi maestri della Legge. Così, ad esempio, in b. Sabb. 31a Hillel dice: «Ciò che è odioso per te tu non lo fare al tuo prossimo; questo è tutta la Torah, mentre il resto è un commento ad essa; va’ e imparalo», ma il carattere atomistico della morale della legge non era mai stato superato. Essendo facile disorientarsi o perdersi in una simile giungla legislativa, era dunque compito di ogni maestro indicare un preciso criterio diinterpretazione capace di unificare tutte le leggi.

v. 37 «Amerai il Signore tuo Dio»: Il Signore risponde prontamente citando il testo di Dt 6,5: è il precetto dell’amore verso Dio imposto ad Israele nell’AT.

È un amore che non si esaurisce nell’adempimento delle esigenze esterne del culto, ma coinvolge la parte più «interna» dell’uomo: cuore… anima… mente (Alla fine della citazione Matteo usa la parola diánoia («mente») al posto di dynamisforza») dei LXX. Dio si deve amare col cuore, con l’anima e con la «mente» appunto). Questo precetto fondamentale della religione ebraica veniva ricordato all’israelita nella preghiera che essi recitano almeno 2 volte al giorno e chiamano lo Shema’ (compilazione di Dt 6,4-9; 11,13-21; Nm 15,37-41).

v. 38 Segue ora una esplicitazione: «più grande e primo». Grande per il contenuto e primo ad essere osservato, senza il quale gli altri non avrebbero senso né efficacia.

v. 39 «Il secondo poi è simile al primo»: Marco 12,31 dice semplicemente «Il secondo è questo». Matteo vuole suggerire che il comandamento di amare il prossimo è sullo stesso livello di Dt 6,5. L’amore di Dio e l’amore del prossimo non sono la stessa cosa ma hanno lo stesso peso, formano un’unità integrale.

«homoía»: simile, indica sostanza identica (cfr il Credo). E cita Lv 19,18. La dichiarazione riassuntiva di Gesù è perfettamente tradizionale e ortodossa. In essa si trovano combinati due comandamenti positivi della Torah: «Amerai il Signore tuo Dio (Dt 6,5)… il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18)». Se c’è un minimo di originalità nella risposta di Gesù, essa consiste nella combinazione di questi due comandamenti. Infatti l’amore di Dio ha bisogno di una prova di autenticità e questa è l’amore del prossimo (cfr. 1 Gv 4,20-21). La novità dell’affermazione di Gesù non consiste tanto nelle idee espresse, l’aver citato questo e quel comandamento, qualsiasi rabbino avrebbe giudicato ciò una risposta eccellente, ma nulla di più. La novità consiste nell’aver collocato i due comandamenti sull’identico livello. Il «sommario» della Legge non ha lo scopo di semplificare la casistica giudaica, ma quello di radicalizzare la Legge escludendo l’obbedienza legale che non è né sottomissione totale a Dio né servizio del prossimo. La semplificazione e l’unione dell’amore di Dio e del prossimo devono porre l’uomo non di fronte ad una legislazione, ma davanti a Dio stesso (cf lettura patristica Disc. 90/A di Sant’Agostino, vescovo). Non si tratta perciò della soppressione di leggi secondarie, ma di un loro legame profondo con la sovrana volontà di Dio.

v. 40 «Dipendono»: Che non si tratti di soppressione lo rivela il senso esatto del verbo krématai, che allude all’immagine di un gancio o di un cardine. Il termine greco (lett. «pendere») traduce il verbo ebraico talà, che prospetta l’immagine di una voluminosa massa sospesa in aria mediante due corde o tiranti. L’idea espressa sembra quella di un punto fermo da cui dipende e su cui ruota tutta la rivelazione biblica.

«La legge ed i profeti»: la totalità della Scrittura (per un ebreo) dipendono da questi due comandamenti, come la porta gira sui suoi cardini. La risposta di Gesù non trova discussione. L’esperto della Legge ha constatato che sta nella perfetta ortodossia dottrinale, anzi di essa ha presentato il suo culmine ineguagliabile.

In greco il centro tematico della risposta di Gesù suona così: «Agapéseis Kurion ton Theón… Agapéseis ton plesìon sou» («Amerai il Signore tuo Dio… Amerai il prossimo tuo»). La parola dominante è in quel termine greco agape, “amore” che usiamo anche in italiano, sia pure col senso di “banchetto fraterno”, perché i cristiani delle origini celebravano l’eucarestia, segno d’amore, proprio durante un pasto comune (cfr. 1 Cor 11,17ss).

Nel greco classico pagano il termine più comune per indicare l’amore è eros: il cristianesimo preferisce quest’altro vocabolo più raro e lo fa diventare l’emblema della sua morale. La differenza è stata approfondita da un’opera intitolata appunto Eros e agape di A. Nygren . Scriveva quell’autore: «Eros è desiderio dell’altro, agape è sacrifìcio, donazione per l’altro; eros è nobile autoaffermazione, agape è amore disinteressato e dono di sé; eros è determinato dalla bellezza e dal fascino dell’altro, agape ama e accetta l’altro trasfigurandolo» (ma si veda anche la lettera enciclica “Deus caritas est” di Benedetto XVI)

Amare non abolisce l’obbedire ma lo rende filiale; non annulla il timore di Dio, ma gli toglie il carattere servile; non rende meno impegnativa la relazione con Dio, ma non sopporta una formulazione del verbo amare all’imperativo. Infatti, l’amore non lo si esegue, bensì lo si vive in una festa di libertà. Al desiderio dell’eros l’agape cristiana sostituisce la donazione gioiosa fino a dare la vita per la persona amata. Per questo Gesù va oltre la stessa Bibbia che esigeva di «amare il prossimo come se stessi» e porta l’agape alla pienezza invitandoci ad «amarci l’un l’altro come lui ci ha amato», donando la sua vita, assumendo la condizione di schiavo e morendo in croce. Si legga l’inno dell’agape di Paolo in 1 Cor 13 e qui ricordiamo ancora il salmo 17 che nella liturgia preghiamo con il versetto responsoriale «Ti amo, Signore, mia forza» che offre al Signore la volontà nostra e di tutta l’assemblea di amare il Signore, nostra unica forza. Il salmo 17 (18) è infatti un solenne canto di ringraziamento, attribuito dalla tradizione biblica al «servo di Dio Davide nel giorno in cui il Signore lo liberò dalla mano dei suoi nemici, specialmente dalla mano di Saul» (titolo; cfr 2 Sam 22,1). Un autentico Te Deum regale come lo titola la Bibbia di Gerusalemme in cui il salmista accumula immagini di forza e sicurezza per esaltare il suo Dio con l’entusiasmo di un innammorato. Il salmo offre le parole alla supplica del povero che chiede aiuto a Dio sicuro di essere ascoltato, liberato, salvato. Il salmo per questo diventa la preghiera della comunità cristiana che innalza il canto dell’amore di Dio, contenta e riconoscente per essere stata chiamata ad imitare un Signore che è grande nell’amore.

La versione liturgica è molto ridotta (appena 4 versetti) rispetto ad una composizione molto lunga, (51 versetti), varia ed articolata. Necessità pastorali hanno rielaborato il testo ma si consiglia di pregare leggendo tutta la composizione. Il riferimento finale al re (v. 51) allude a Davide stesso, figura però del Messia che per noi è Gesù di Nazaret. È il Figlio di Davide, dunque, che prega attraverso queste parole e noi, l’assemblea liturgica diamo ancora oggi voce al Messia che dichiara tutto il suo amore per Dio e confessa la sua fedeltà.

Per questo la nuova colletta ha aperto la liturgia della Parola facendoci pregare:

II Colletta

O Padre, che fai ogni cosa per amore

e sei la più sicura difesa degli umili e dei poveri,

donaci un cuore libero da tutti gli idoli,

per servire te solo e amare i fratelli

secondo lo Spirito del tuo Figlio,

facendo del suo comandamento nuovo l’unica legge della vita.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…

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Mt 22, 33-40 | Comunità di Pulsano 150 kb 5 downloads

Domenica «DEI DUE MASSIMI COMANDAMENTI» …

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano