Commento alle letture del 9 agosto 2015 – Card. Silvano Piovanelli

Il commento alle letture di domenica 9 agosto 2015 a cura del Cardinal Silvano Piovanelli – 1 Re 19, 4-8; Sal.33; Ef 4, 30 – 5, 2; Gv 6, 41-51.

PRIMO LIBRO DEI RE – 1 Re 19, 4-8
In quei giorni, Elia s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: “ Àlzati, mangia! ”. Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio di acqua. Mangiò e bevve, e quindi di nuovo si coricò.
Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: “Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino”. Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.
PAROLA DI DIO

L’archeologia conferma che il regno di Acab (874-853 a.C.) fu uno dei più prosperi di Israele. Sovrano abile e accorto, fortificò le città di Meghiddo e di Hazor, costruì palazzi lussuosi (1Re 29,39), favorì il commercio, stipulò alleanze con i popoli vicini. Ma la Bibbia pronuncia su di lui un giudizio severissimo: “In realtà nessuno si è mai venduto per fare il male agli occhi del Signore come Acab, perché sua moglie Gezabele l’aveva istigato. Commise molti abomini, seguendo gli idoli, come avevano fatto gli Amorrei, che il Signore aveva scacciato davanti agli Israeliti (1 Re 21,25-26).

[ads2] In questo momento in cui il popolo, sotto il potere di re empi, pareva precipitare nel paganesimo dilagante ecco Elia, il prestigioso profeta, che, nel IX secolo a.C., difende la fede di Jahwè. La persecuzione dell’onnipotente Gezabele, fenicia, sposa di Acab, empio re d’Israele, costringe il profeta, che aveva trionfato nella sfida del monte Carmelo (1 Re 18,16-46), a fuggire nel deserto (Elia, impaurito si alzò e se ne andò per salvarsi : 1Re 19,3). Uscito dal regno del Nord, attraversato il regno del Sud, da solo s’inoltrò nel deserto per una giornata di cammino. Ma la traversata del deserto è impegnativa e le difficoltà quasi insormontabili. Resiste finché può, ma ormai è allo stremo delle sue forze fisiche e spirituali: tutto quello che ha fatto gli appare inutile e si augura la morte. Allora Dio interviene. Non lo dispensa dalla fatica, non gli risparmia la durezza del cammino, Ma gli offre l’alimento necessario: in mezzo al deserto pane ed acqua, una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio di acqua. L’angelo che lo sveglia dal sonno della sua spossatezza, gli dà un ordine: Àlzati, mangia! E l’offerta del cibo e l’ordine di mangiare vengono ripetuti una seconda volta, perché la strada fino al monte di Dio, l’Oreb, è altrimenti un cammino troppo lungo. Così il profeta Elia può compiere tutto il cammino – quaranta giorni e quaranta notti – e la fuga si trasforma in un pellegrinaggio alle sorgenti della Bibbia e dei ricordi d’Israele, il deserto e l’Oreb-Sinai, luogo natale del popolo ebraico. Là, dove un giorno era nato il popolo della libertà, là nasce anche il nuovo profeta d’Israele, che incontra Dio e ritorna ad essere pienamente fedele alla missione (1Re 19,9-18). Il luogo natale dell’Israele di Dio diviene anche il luogo della nuova chiamata del profeta e del pieno recupero della sua missione.

Anche di te noi abbiamo pietà, Signore, / perché devi avere il cuore che scoppia;
e le notti che certo piangi per noi !…   /   fino a farti pane, nostro cibo,
e a dirci: “Mangiate, alzatevi   /   che lungo è ancora il cammino”.
(P.David M. Turoldo)

EFESINI – Ef 4, 30 – 5, 2
Fratelli, non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.
Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.
PAROLA DI DIO

Gli schiavi venivano segnati con un marchio a fuoco, indelebile, segno della loro definitiva appartenenza a un padrone. Paolo ricorre a questa immagine per definire la condizione del cristiano: segnati dallo Spirito Santo. Da questa sua nuova realtà – un’appartenenza da sogno! – derivano gli impegni che la lettera elenca: vizi che devono essere evitati (v. 31), virtù che devono essere praticate (v. 32). Dobbiamo rispondere concretamente all’amore che abbiamo conosciuto in Cristo. Egli è “l’uomo nuovo” che dobbiamo rivestire per rispondere nella vera santità (4,24). Evidentemente, non si tratta di sottomettersi come schiavi ad una legge, ma di rispondere come figli all’amore di Dio, che nell’Eucaristia raggiunge il culmine più alto. Per questo l’apostolo esorta a non rattristare lo Spirito Santo di Dio. Il cristiano deve avere la preoccupazione di non rattristare il cuore di Dio e quindi non solo evitare il male, ma operare il bene, cioè, radicati e fondati nella carità, conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza (3,19), crescendo continuamente verso la misura della pienezza di Cristo (4,13). In ogni Eucaristia Egli “ripresenta” quello che ha fatto una volta per tutti (Ebr 10,12.14)), una volta per sempre (Ebr 7,27), una volta per tutte (Ebr 9,25): ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore. Ci dice l’apostolo: Fatevi imitatori di Dio e camminate nella carità. La nostra risposta, quella che non rattrista, ma rallegra il cuore di Dio, è estremamente concreta e collocata nel nostro quotidiano: scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze; siate benevoli, gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.

È terribilmente impegnativo, ma in ogni nostro fratello il Signore aspetta la risposta del nostro amore. Non una risposta qualunque, ma una risposta adeguata: fatevi imitatori di Dio, nel modo in cui Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi. Perciò una risposta continuamente crescente: camminate nella carità.

“ Essere imitatori di Dio “:
Dio, la stima che hai di noi;
lanciati sull’infinito traguardo!
Signore, ti chiediamo due grazie:
noi, di non cedere mai allo scoraggiamento,
e tu, di non dirti mai deluso di noi.
Amen.       (P.David M. Turoldo)

GIOVANNI – Gv 6, 41-51
In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù, perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. E dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?.
Gesù rispose loro: “Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
PAROLA DEL SIGNORE

Se, poco o molto, ci riconosciamo nel profeta Elia, il quale, nel deserto, è stanco nel corpo e nello spirito, ecco per ciascuno di noi la parola del Signore Gesù: “Io sono il pane disceso dal cielo”.

Siamo come Elia che si alza, mangia e cammina? Oppure come i Giudei che mormoravano contro di lui perché aveva detto quelle parole?

La crisi nella pagina del Vangelo di Giovanni è espressa attraverso l’espressione del verbo “mormorare” , che è il verbo tipico dell’incredulità d’Israele nel deserto. La mormorazione è rifiuto di credere, è dichiarazione di ostilità, è chiusura dinanzi alla proposta di Dio.

Ora l’incredulità nasce dallo scandalo derivante dall’umanità di Gesù: come può dire di essere “disceso dal cielo”, se è il figlio di Giuseppe e di lui conosciamo il padre e la madre?

L’incarnazione, espressione stupenda e trasparente dell’amore di Dio per l’uomo, si trasforma in un schermo opaco che offusca gli occhi, rende dubbiosa la mente e fa “mormorare” le labbra. Occorre la fede.

È dunque la fede il dono per cui il credente cammina, comprende, ama, vive.

Per superare questo scandalo non devi contare sulle tue forze, ma aprire il cuore all’attrazione del Padre. Dice Gesù: “Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato … chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me”. La fede che Gesù domanda non è frutto delle nostre forze, ma dono di Dio (il Padre attira, il Padre parla e insegna). Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a Gesù ed accetta le sue parole: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.

Il biblista Gianfranco Ravasi osserva: “è curioso notare che, forse, l’espressione finale del v.51 (“il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”) è la formula più semitica e più “originale” della consacrazione, mentre quella sinottica-paolina con “corpo” (”questo è il mio corpo”) risulterebbe più difficile per un semita (“corpo” = cadavere, mentre “carne” = persona vivente). Questa era quindi la formula eucaristica delle chiese giovannee dell’Asia Minore, testimoniata anche da Ignazio di Antiochia ed era la traccia di un ricordo dell’ultima cena omessa da Giovanni”.

Certamente questo discorso è inseparabile, per essere illuminato nella sua profondità, da quello che il Signore farà e dirà nella sua ultima cena pasquale. In questi due testi fondamentali tre realtà si alternano continuamente, come gli elementi del medesimo mistero: il pane, la fede, la vita. Mangiare, credere e vincere la morte.

Dopo la sua Pasqua, il Cristo opera la vera moltiplicazione non dei pani, ma del Pane. Ormai, attraverso tutte le Eucaristie, questo segno della Risurrezione trova una efficacia ed una dimensione universali. Non è più limitato dal tempo o dallo spazio.

A partire dai nostri corpi destinati alla morte, tormentati dalla sete dell’immortalità, nel mezzo della notte che ci disperde, attraverso la nube della fede, noi, partecipando di questo Pane, proclamiamo che le forze della morte non avranno l’ultima parola: “Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.

Il primo motivo che attraversa il lezionario odierno è quello della crisi della fede: crisi drammatica di Elia, crisi dei Giudei che “mormoravano” come i loro padri nel deserto, crisi di chi “rattrista lo Spirito Santo”.

Per superare la crisi bisogna aprirsi alla lezione interiore del Padre. La fede resta prima di tutto un dono, un’“attrazione interiore”, un ascolto della voce intima del Padre, è e resta “opera di Dio” (Gv 6,28).

Signore, anch’io, ad alta voce proclamo: “Credo; aiuta la mia incredulità!” (Mc 9,24)

Dio onnipotente ed eterno, che ci dai il privilegio di chiamarti Padre, fa’ crescere in noi lo spirito di fili adottivi, perché possiamo entrare nell’eredità che ci hai promesso.

Guida, o Padre, la tua Chiesa pellegrina nel mondo, sostienila con la forza del cibo che non perisce, perché perseverando nella fede di Cristo giunga a contemplare la luce del tuo volto.

“ Ti rendiamo grazie, o Padre santo, per il tuo santo nome, che hai posto nei nostri cuori, e per la conoscenza, la fede e l’immortalità che ci hai rivelato attraverso il tuo servo Gesù. Gloria a te nei secoli! Signore onnipotente, tu hai creato l’universo a causa del tuo nome e hai donato ad ogni uomo cibo e bevanda perché ti rendano grazie. Ma a noi, per mezzo del tuo servo Gesù, tu hai fatto dono di un cibo e di una bevanda spirituale per la vita eterna. Per tutto ti rendiamo grazie, perché sei onnipotente. Gloria a te nei secoli!” ( dalla Didachè o Dottrina dei Dodici Apostoli)

Come il profeta Elia, possiamo anche noi vivere momenti di sconforto, segnati dalla stanchezza, dalle incomprensioni, dalle invidie e dalle meschinità. Segnati anche, magari, dalla apparente lontananza di Dio.

Il Signore non ti dimentica e non ti fa mancare il pane che ridona vigore. Una focaccia e un po’ di acqua: la Parola, l’Eucaristia, il sacramento della Riconciliazione, la preghiera, una buona amicizia … Ma ti dice: “Mangia! Accogli e valorizza i doni che ti sono offerti, perché “perché è troppo lungo per te il cammino”.

Ripeti a te stesso, piano piano, le parole: Cristo mi ha amato e ha dato se stesso per me.

E poi chiediti: ma io rispondo come figlio all’amore di Dio?

Non ti capita mai di fare come i Giudei, i quali mormoravano contro Gesù per le parole che aveva detto?

Tu mormori per quello che il Signore dice? per i misteri che superano la nostra intelligenza e chiedono l’adesione della fede? Per le scelte che Dio domanda alla tua vita? Per le croci che incontri sul tuo cammino di tutti i giorni?

Se è vero, come è vero, che la fede è un dono e che l’ascolto della voce del Padre è “opera di Dio” (Gv 6,28), prega anche tu, come il padre del giovane epilettico indemoniato: “Credo; aiuta la mia incredulità!” (Mc 9,24)

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