Commento al Vangelo di domenica 26 Agosto 2018 – don Marino Gobbin

UNA SCELTA DI SERVIZIO

La parola “servire”, secondo molti, dovrebbe essere cancellata dal vocabolario. L’uomo del nostro tempo rivendica la propria totale e assoluta autonomia come una conquista irrinunciabile. L’arrogante “non ti servirò”, che in Geremia (2,20) la città eletta, Gerusalemme, getta in faccia al suo sposo e Signore, è il motto programmatico di moltissimi. Ma conviene vedere se alle parole corrispondono i fatti. A Gerusalemme, che rifiutava di servire il Signore, questi rinfaccia la vergogna d’essersi “prostituita sopra ogni colle elevato e sotto ogni albero verde”, nei culti naturalisti dei Baal cananei, le divinità della fecondità.

Se la conclamata autonomia fosse quale la intendeva Paolo: “Tutto mi è lecito, ma non mi renderò schiavo di cosa alcuna” (1 Cor 6,12), dovremmo guardare con rispetto a questi ribelli. Ma sono essi veramente liberi e autonomi? Si ribellano a Dio e si prostituiscono a chi li paga meglio, a chi assicura loro un successo nella carriera non esitando a cambiar casacca quando sperano d’averne un guadagno. Si ribellano a Dio e si fanno schiavi degli istinti del sesso senza rispetto per la dignità propria e altrui. Sono, per dirla con Paolo “sotto la schiavitù del peccato”, ma “liberi nei riguardi della giustizia” (Rm 6,20). Peggio quando si comportano in tal modo coloro che dichiarano di servire il vero Dio professandosi cristiani ma smentiscono con la pratica la fede professata a parole (un esame di coscienza sul comportamento nella vita familiare, nella professione, nell’impegno politico…).

“Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d’Egitto, dalla condizione servile… Perché egli è il nostro Dio”. Se questo valeva per il popolo ebreo appena uscito dall’Egitto e giunto nella terra promessa, quanto più deve valere per noi, che conosciamo le opere compiute dal Signore nei secoli che seguirono a questa tappa, abbiamo ascoltato le voci dei profeti, abbiamo contemplato la pedagogia d’infinita sapienza e amore con cui guidò il suo popolo fino alla venuta di Cristo Salvatore! Quanto più vale per noi, dopo che “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).

Dobbiamo servire il Signore, perché egli solo ha “parole di vita eterna”. Quello che gli uomini possono dire e dare, se prescindono da Dio, non sarà mai la verità integra e totale, non sarà mai la “vita” a cui aspiriamo, nella piena espansione del nostro essere, aperta verso quella “vita eterna” a cui siamo chiamati. Se non serviamo al Signore, se non andiamo con lui, “da chi andremo?”. Dobbiamo servire il Signore perché siamo, ci assicura s. Paolo, la Chiesa, il suo corpo di cui egli è Capo, che egli è venuto a salvare, comunicando a ciascuno la salvezza e la grazia mediante il battesimo, ricevuto nella fede suscitata dalla parola di Dio. Siamo la Chiesa che Cristo ha amato fino a dare se stesso per lei morendo sulla croce.

“Serviamo a Cristo”, ammonisce s. Agostino, “se serviamo a coloro a cui Cristo ha servito”. Così Paolo: “Siamo i vostri servitori per amore di Gesù” (2 Cor 4,5). Mentre si proclama “servo di Cristo Gesù” (Rm 1,1) egli dichiara di essere il servo di tutti: “Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero” (1 Cor 9,19). Questo, spiega ancora l’apostolo, in forza d’un amore autentico e operoso: “mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri” (Gal 5,13).

Basta che ognuno guardi intorno a sé, vicino e lontano. Vedrà quante occasioni si presentano di “servire” i fratelli. Non come chi si degna di lasciar cadere qualche briciola della sua lauta mensa, ma come impegno doveroso che sorge da quel precetto dell’amore che Gesù propone quale segno di riconoscimento per i suoi discepoli: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).

Perché? “Questo linguaggio è duro: chi può intenderlo?”. Quei molti “discepoli” (qui distinti dai “dodici”) che parlano così si riferiscono probabilmente a tutto l’insieme delle cose dette da Gesù nella sinagoga di Cafarnao. Gesù che discende dal cielo, la sua carne data come cibo e il suo sangue come bevanda, la promessa della risurrezione. Chi mai aveva udito qualcosa di simile?

La parola di Dio trascende infinitamente l’intelligenza umana, è paradosso, è mistero. Non credettero e se n’andarono. Ma Pietro fa la decisa professione di fede: “Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. Così, da venti secoli, Gesù continua ad essere “segno di contraddizione” secondo la parola di Simeone a Maria (Lc 2,34).

Interrompendo la stesura di questo appunto, leggo sul giornale la notizia di un delitto efferato: è stato ucciso un magistrato colpevole solo di compiere il proprio dovere perseguendo i criminali che attentano con ogni mezzo alla sicurezza e alla libertà del paese e delle persone. Metto in confronto con questo fatto ciò che avviene nel cenobio di Camaldoli. Tre novizi – due venuti dalle esperienze più audaci in cui alcuni giovani d’oggi han trovato una tragica fine – fanno la professione monastica impegnandosi a fare della loro vita una preghiera e un sacrificio di lode al Signore nell’apertura a tutti i fratelli, disponibili e lieti di accompagnarli nella ricerca di Dio. Hanno detto, come Giosuè ai suoi: “Vogliamo servire il Signore”. Hanno detto, come il popolo d’Israele: “Anche noi vogliamo servire il Signore”. Hanno detto, con Pietro: “Abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo di Dio”. Hanno creduto, come Paolo, all’amore di Cristo, fino al sacrificio di sé, per la Chiesa e per l’umanità.

Gli assassini del magistrato hanno rifiutato l’amore, che è Dio, che è Cristo; hanno scelto l’odio, la violenza, la morte del fratello. “Questo linguaggio è duro”. Cosa fare per intenderlo, per venire a Gesù nella fede e nell’amore? “Vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio”. Preghiamo, dunque. Nella liturgia eucaristica loderemo e ringrazieremo il Padre e gli chiederemo luce di fede, forza di amore, per venire a Gesù.

Fonte

Tratto da “Omelie per un anno 1 e 2 – Anno A” – a cura di M. Gobbin – LDC

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XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno B

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Gv 6, 60-69
Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?».
Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono».
Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui.
Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 26 Agosto – 01 Settembre 2018
  • Tempo Ordinario XXI
  • Colore Verde
  • Lezionario: Ciclo B
  • Anno: II
  • Salterio: sett. 1

Fonte: LaSacraBibbia.net

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