Commento al Vangelo di domenica 24 Maggio 2020 – Comunità di Pulsano

Domenica «dell’Ascensione del Signore»

L’insieme delle letture invita ad andare al di là dell’avvenimento dell’Ascensione descritto in termini spazio-temporali: la «elevazione» al cielo del Signore risorto, i «quaranta giorni» dopo la Pasqua, sono solo un modo per indicare la conclusione di una fase della storia della salvezza e l’inizio di un’altra. L’evangelista Luca ci ha lasciato due racconti dell’Ascensione, che presentano lo stesso avvenimento in una luce diversa:

  1. nell’evangelo il racconto costituisce quasi una dossologia: il finale glorioso della vita pubblica di Gesù;
  2. negli Atti l’Ascensione è vista come il punto di partenza dell’espansione missionaria della Chiesa (questa è pure la prospettiva degli altri due sinottici: Mt 28 e Mc 16).

La Chiesa è chiamata a continuare la missione e la predicazione di Gesù e riceve il compito di annunciare il Regno e rendere testimonianza al Signore. Per questo gli angeli, dopo l’Ascensione del Risorto, invitano gli apostoli a non attardarsi a guardare il cielo: l’avvenimento a cui hanno assistito non coinvolge solamente loro; al contrario, da esso prende il via un dinamismo universale, «salvifico» e «missionario» che sarà animato dallo Spirito Santo (cf prima lettura, v. 5). Per la forza di questo Spirito, il Cristo glorificato e costituito Signore universale (cf seconda lettura vv. 20-21), capo del Corpo-Chiesa e del Corpo-umanità (vv. 22-23), attira a sé tutte le sue membra perché accedano, con lui e per lui, alla vita presso il Padre.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso At 1,11

«Uomini di Galilea,

perché fissate nel cielo lo sguardo?

Come l’avete visto salire al cielo,

così il Signore ritornerà». Alleluia.

 

L’icona dell’Ascensione, che rappresenta il Risorto sollevato dalla Nube dello Spirito Santo e portato sullo scudo della vittoria da due angeli, è la medesima icona della Venuta ultima. Contemplare lui asceso, significa attenderlo che venga. È la contemplazione della Chiesa, semplicemente, fino alla Venuta. II mistero dell’ascensione è un aspetto integrante del mistero pasquale. Il Gesù, che ci salva pienamente nel disegno del Padre, non è il Gesù del natale e della croce, ma è il Gesù risorto e glorificato costituito Messia, Signore nell’esercizio pieno del suo sacerdozio, nuovo Adamo fatto Spirito che dà la vita (cf. 1 Cor. 15,45). In questo senso s. Paolo afferma che, se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede (1 Cor. 15,14). Il mistero dell’ascensione costituisce pertanto l’inaugurazione della regalità universale e cosmica del Signore e della sua potenza nel mondo. Gesù glorificato, investito nella sua umanità dalla potenza della pienezza dello Spirito santo, non ci ha abbandonati nella povertà della nostra condizione umana, ma ci ha preceduti nella casa del Padre, senza cessare di rimanere presente in diversi modi nella sua Chiesa e nel mondo per darci la serena fiducia che saremo uniti con Lui nella stessa gloria:

Prefazio dell’Ascensione del Signore I

Mediatore tra Dio e gli uomini,

giudice del mondo e Signore dell’universo,

non si è separato dalla nostra condizione umana,

ma ci ha preceduti nella dimora eterna,

per darci la serena fiducia

che dove è lui, capo e primogenito,

saremo anche noi, sue membra, uniti nella stessa gloria.

Presso il Padre Gesù esercita la sua mediazione insostituibile per noi: «Egli per il fatto che rimane lo stesso in eterno, ha pure un sacerdozio che non termina mai; quindi ha il potere di salvare in modo assoluto coloro che si accostano a Dio per mezzo di lui che è sempre vivo per intercedere a loro favore» (Eb. 7,24-25). Il mistero dell’ascensione è, quindi, strettamente connesso con il mistero della Chiesa e con il mistero di ogni celebrazione liturgica. Nel Cristo glorificato la nostra umanità è innalzata fino a Dio. Egli ci ha preceduti nella dimora eterna, per darci la serena fiducia che dove è lui, saremo anche noi, sue membra, nella stessa gloria:

Colletta

Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre,

per il mistero che celebra in questa liturgia di lode,

poiché nel tuo Figlio asceso al cielo

la nostra umanità è innalzata accanto a te,

e noi, membra del suo corpo,

viviamo nella speranza di raggiungere Cristo,

nostro capo, nella gloria.

Egli è Dio…

Il mistero dell’ascensione del Signore è perciò mistero di speranza: un giorno raggiungeremo il nostro capo nella gloria. Chiediamo dunque al Padre, in nome di Cristo, di suscitare in noi il desiderio della patria eterna e che il nostro spirito si innalzi alla gioia del cielo (Orazione sulle offerte e dopo la comunione):

Sulle Offerte

Accogli, Signore, il sacrificio che ti offriamo nella mirabile ascensione del tuo Figlio, e per questo santo scambio di doni fa’ che il nostro spirito si innalzi alla gioia del cielo. Per Cristo nostro Signore.

Dopo la Comunione

Dio onnipotente e misericordioso, che alla tua Chiesa pellegrina sulla terra fai gustare i divini misteri, suscita in noi il desiderio della patria eterna, dove hai innalzato l’uomo accanto a te nella gloria. Per Cristo nostro Signore.

Questo atteggiamento di speranza nel mondo futuro, nel quale saremo partecipi della gloria del Signore Gesù, non ci distoglie da un preciso impegno nel mondo attuale, per offrire ai fratelli i segni del regno che già si realizza nel tempo. Il concilio Vaticano II insegna che «con la sua risurrezione costituito signore, egli, il Cristo, cui è stato dato ogni potere in cielo e in terra (cf. At 2,36; Mt 28, 18), tuttora opera nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito, non solo suscitando il desiderio del mondo futuro, ma per ciò stesso anche ispirando, purificando e fortificando quei generosi propositi con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra» (GS 38/1437).

Così è orientata la proclamazione evangelica:

Canto all’Evangelo Mt 28,19.20

Alleluia, alleluia.

Andate e fate discepoli tutti i popoli, dice il Signore.

Ecco, io sono con voi tutti i giorni,

fino alla fine del mondo.

Alleluia.

L’Ascensione comprende di necessità l’invio dei discepoli in missione alle nazioni pagane, con la promessa formale della Presenza del Signore, indefettibilmente. L’Ascensione è una tipica “selezione per accentuazione”. Il Mistero unico e indivisibile del Figlio di Dio incarnato morto risorto assunto alla gloria e sempre presente alla sua Chiesa, che si celebra per intero in ogni momento ed aspetto della Liturgia — che sono i divini Misteri, i Misteri sacramentali, le Ore sante, l’Anno liturgico —, è stato esplorato ed in un certo senso parcellizzato per farne risaltare ogni splendore. È ovvio, l’Anamnesi della preghiera eucaristica lo riassume con instancabile regolarità, mostrando che “la Festa” è la Resurrezione domenicale, “le Feste” ulteriori sono “le Parti” che si richiamano e vogliono esprimere sempre “il Tutto”. Per sé va segnalato che il N.T. non separa mai nelle visuali, e dunque tanto meno nei testi, gli aspetti dell’Evento centrale: Resurrezione, Ascensione, intronizzazione alla Destra, glorificazione del Signore avvengono all’istante della Resurrezione, che è il passaggio dell’Umanità del Crocifisso all’eone eterno, alla sfera divina, alla Gloria dello Spirito Santo. Che in diretta conseguenza sarà donato agli uomini. Aspetto fondamentale dell’Ascensione è la Regalità del Risorto, e l’inizio dell’esercizio del suo Sacerdozio eterno presso il Padre. La Chiesa apostolica aveva la forte coscienza che l’Ascensione era un evento necessario, indispensabile, condizionante ogni altra forma di vita della Comunità. Bisogna prendere coscienza di quanto aveva promesso il Signore stesso, con insistenza. La sua glorificazione era la condizione necessaria per ricevere i Fiumi dell’Acqua della Vita (Gv 7,37-38, specialmente v. 39). In specie nella Cena (cf due ultime Domeniche) l’annuncio dell’“andata al Padre” si fa insistente. Anzitutto Gesù annuncia la glorificazione sua e del Padre (Gv 13,31), e alla domanda impaurita di Pietro sul “dove” vada, risponde che per ora nessuno può seguirlo, poi anche Pietro Lo seguirà (Gv 13,36). Quando promette le “dimore” presso il Padre, che deve andare a preparare per farvi risiedere con lui i discepoli, i quali “conoscono la via” (Gv 14,1-4), Tommaso gli obietta che non sanno “dove” vada (v. 5), e Gesù gli risponde che Egli stesso è “la Via e la Verità e la Vita” (v. 6). Infine rivela ai discepoli sempre attoniti, che deve andare, altrimenti non potrà inviare ad essi il Paraclito (16,7). Anche dopo la Resurrezione, ad Emmaus, ribadisce che “era necessario” (verbo déi, si doveva secondo il Disegno divino) che il Cristo soffrisse ma poi “entrasse nella sua Gloria” (Lc 24,26). Quella Gloria con cui sarebbe tornato alla fine dei tempi, e Gloria del Padre (Lc 9,26).

L’Ascensione non è un fatto accessorio, non è un “lusso” che il Signore si permette. È una condizione. Come la Croce. Dalla Croce, dalla glorificazione nell’Ascensione come conseguenza della Resurrezione, discenderà con infinita supereffluenza lo Spirito del Padre sugli uomini. E per gli uomini, la recezione dello Spirito Santo è l’unica condizione della salvezza, come proclamerà Pietro la mattina di Pentecoste terminando il suo primo discorso kerigmatico: At 2,38-39.

La Chiesa antica, conosceva varie soluzioni celebrative dell’«Assunzione», o «Ascensione» del Signore: o il giorno stesso della Resurrezione, secondo Gv 20,17 e 19-23; oppure 40 giorni dopo[1], secondo At 1,1-11, ma pur sempre dentro il numero simbolico dei 50 giorni.

Questo mistero, lo abbiamo detto molte volte, è celebrato dalla liturgia in un’intima connessione con la Pasqua, sotto un duplice aspetto:

  1. in quanto glorificazione di Cristo:
  2. in quanto inizio della glorificazione della Chiesa, corpo di Cristo (Coll.).

La glorificazione di Cristo vuol dire che è salito al cielo colui che discese dal cielo (cfr Gv 3,13; 6,62).

Il mistero dell’Ascensione risulta così già compreso in quello dell’incarnazione.

Occorre che Dio stesso venga nello spazio dell’uomo, entri nella sua storia, perché l’uomo possa giungere a Dio. Il libro della sapienza descrive così la sorte del giusto morto in giovane età: «Divenuto caro a Dio, fu amato da lui e, perché viveva fra peccatori, fu trasferito perché la malizia non ne mutasse i sentimenti»(Sap 4,10-11). Solo la preghiera abitualmente consente di colmare l’invalicabile divario (cfr Tobia 12,12); analogamente si dirà delle buone opere del centurione Cornelio (At 10,4b). Davanti a noi, allora si profila oggi non una scena “astronautica” ma una rivelazione teologica: Gesù porta la sua e la nostra umanità nella gloria eterna del Padre, facendo balenare davanti ai nostri occhi con la sua ascensione quel destino di gloria a cui siamo chiamati e a cui è giunta anche la sua madre Maria con la sua “assunzione” al cielo.

Cristo divide con la Chiesa, suo corpo e sua pienezza (cf II lett), la ricchezza della sua gloria; avviene un nuovo scambio, un «ammirabile commercio», per usare l’espressione di san Leone Magno, simile a quello che avvenne nell’incarnazione, fra la divinità e l’umanità nella persona di Gesù, ora glorioso. L’uomo ha dato a Dio la sua carne, e Dio dà all’uomo la sua gloria divina:

…per questo santo scambio di doni, fà che il nostro spirito

si innalzi alla gloria del cielo (Sulle off.).

Il riferimento ai sinottici ci evidenzia come solo Marco e Luca accennino all’ascensione (Mc 16,15-20; Lc 24,46-53); Matteo (come pure Marco 16,15-20) mette in maggior rilievo l’invio degli apostoli al mondo intero, mentre Luca (il cui testo è parallelo ad At 1,1-11) parla della promessa dello Spirito Santo.

Questa volta, come pure per la Pentecoste, concentriamo la nostra attenzione non sull’evangelo ma sul libro degli Atti, oggi si legge infatti At 1,1-11, che termina con l’evento dell’Ascensione, anzi è l’unico testo, tra tanti che ne parlano, che lo descriva esplicitamente.

Gli Atti degli Apostoli rappresentano la seconda parte di un testo in due volumi che gli studiosi hanno denominato Luca-Atti. E stato scritto dallo stesso autore dell’Evangelo secondo Luca – forse, ma non è sicuro, da quel Luca compagno di Paolo (Col 4,14) – con il quale ha in comune il modo di vedere le cose e molti degli stessi temi. Il primo capitolo degli Atti nell’opera lucana ha la funzione di transizione: segna il passaggio dall’Evangelo agli Atti, dal tempo di Gesù al tempo della Chiesa. Se dopo la lettura del terzo Evangelo si passasse subito a quella degli Atti degli apostoli, l’unità dell’opera lucana balzerebbe subito agli occhi. Il canone neotestamentario, inserendo l’Evangelo di Giovanni tra l’Evangelo di Luca e gli Atti degli apostoli induce il lettore acritico a pensare che il terzo Evangelo sia un’opera completamente distinta dagli Atti degli apostoli. In realtà come abbiamo detto si tratta di due volumi di un’unica opera, che porta la firma di uno stesso autore. Del resto basta la semplice lettura dell’ultimo capitolo del terzo Evangelo e del primo capitolo degli Atti per rendersi conto dell’unità del progetto letterario lucano. Molti elementi del c. 24 dell’Evangelo (Lc 24,44-49) restano sospesi, in attesa di una soluzione che troviamo soltanto alla fine del primo capitolo degli Atti. Si tratta quindi di due elementi (Lc 24; At 1,1-26) di raccordo letterario tra la fine del primo volume e l’inizio del secondo.

Non staremo qui a fare un’introduzione analitica al libro degli Atti (la rimandiamo ad altra occasione), la nostra attenzione è rivolta alla pericope liturgica. Luca con gli Atti vuole dunque completare il suo Evangelo, formando un dittico: la storia del Signore non è completa senza la storia della Chiesa, le due storie sono unica narrazione speculare, dove si identificano facilmente gli eventi principali che segnano la Vita di Cristo e la vita della Chiesa:

  • l’annuncio;
  • la nascita dallo Spirito Santo;
  • il battesimo;
  • la predicazione dell’Evangelo;
  • la preparazione al Regno dei cieli;
  • i miracoli, le resurrezioni;
  • l’accettazione e il rifiuto;
  • l’avversione e il processo di condanna;
  • la messa a morte;
  • ma anche la resurrezione, con la vita che prosegue secondo il Disegno divino.

Il Prologo dell’Evangelo (Lc 1,1-4) ha un parallelo (At 1,1), che rimanda alla narrazione su Cristo nel primo scritto, come «operò e parlò». Quindi i lettori se vogliono comprendere la Chiesa debbono appunto conoscere bene Cristo Signore. Con i discepoli personalmente scelti, che aveva visitato dopo la Resurrezione (Lc 24,36-49), il Signore Risorto si trattiene ad insegnare mediante lo Spirito Santo, che dunque sta già in azione (At 1,2). In At 1,3 Luca riassume proprio il testo di Lc 24,36-49: il Signore dopo la Passione si era mostrato ai discepoli, aveva dato prova della sua realtà vera di Risorto. Poi per 40 giorni aveva insegnato ad essi quanto riguarda il Regno.

In At 1,4 è ripreso Lc 24,48-49. Il Signore mangiava con i discepoli. Fatto così importante, che Pietro lo presenta come il segno per essere Apostolo e testimone della Resurrezione (At 10,41). E prescriveva poi di stare insieme in Gerusalemme in attesa della Promessa del Padre, il Dono dello Spirito Santo. I discepoli infatti non erano tra i battezzati di Giovanni il Battista, bensì ricevono il battesimo escatologico, «nello Spirito Santo» (At 1,5). I vv. 6-7 mostrano quanto l’assenza provvisoria dello Spirito Santo incida sulla fede dei discepoli, che ancora si illudono dietro l’inaugurazione del regno umano. Pazientemente, il Signore li riporta al Dono dello Spirito Santo, che da Gerusalemme per gironi sempre più ampi, fino ai confini del mondo, li costituirà testimoni del Risorto (v. 8). Qui avviene l’Ascensione: la Nube della divina gloria si riprende il Figlio dell’uomo glorificato e Lo trasporta verso l “Alto”, la sfera della Trascendenza, sottraendolo ai loro sguardi (v. 9). Come alla tomba, alle Donne fedeli, al momento della Resurrezione (Lc 24,4), due Uomini si presentano in vesti bianche sfolgoranti, segno della vittoria. Essi avvertono che «questo Gesù», l’Uomo reale, tornerà nel medesimo aspetto e nel medesimo modo con cui Lo vedono ascendere al cielo (At 1,11). L’evento dell’Ascensione è identico a quello della Venuta ultima, e l’icona del Risorto è quella medesima che si contempla alla venuta e in eterno. Di fatto, l’icona del Pantokrátôr con il Libro aperto, che troneggia nel catino dell’abside delle chiese antiche, è anche l’icona della Parusia e dell’eternità.

Il testo degli Atti

Luca-Atti è più comprensibile quando lo si legge come una narrazione attentamente ben costruita, della quale il filo della sua storia è esso stesso il veicolo del suo significato. Ma quale versione del racconto dovrebbe essere letta? Il libro degli Atti presenta un problema particolare e acuto che si incontra dappertutto nel Nuovo Testamento, ossia la conoscenza del testo greco che è la base di qualsiasi esegesi. Come per tutti gli scritti neotestamentari, il testo critico di Atti è stato ricavato dalle testimonianze fornite da tanti manoscritti antichi, nel caso specifico nel libro degli Atti sono inclusi anche alcuni frammenti di papiri del III secolo. Normalmente questi manoscritti rivelano una vasta gamma di varianti minori entro una sostanziale concordanza. È pertanto possibile, di solito, costruire un testo critico con un metodo eclettico di aggiudicazione tra lezioni diverse, usando le normali regole di critica testuale: in linea generale si deve preferire la lezione che deriva dai manoscritti più antichi e più attendibili, ossia quelli «più brevi» (gli scribi tendono a espandere il testo), e quelli «più difficili» (vale a dire quelli che meno probabilmente rappresentano un «miglioramento» da parte di uno scriba ben intenzionato).

Esaminiamo il brano

1- «Nel mio primo libro»: Il termine logos, letteralmente, significa «parola», ma è applicato ai discorsi, alle prediche, ai colloqui o, come in questo caso, alle composizioni letterarie (cf ad esempio, Platone, Parmenide). Luca usa l’aggettivo «primo» (prótos) anziché quello che ci si poteva aspettare, ossia «precedente/prima» ma si tenga presente che nel greco ellenistico le differenze tra tali costrutti non sono mai rigidamente rispettate. L’aggettivo greco prótos significa normalmente il primo di una lunga serie o almeno di una serie di più di due. Per questo alcuni commentatori hanno pensato che il libro degli Atti non sarebbe la seconda e ultima parte dell’opera lucana, ma che ad esso doveva seguire un terzo volume che Luca poi non ha scritto, oppure che, pur avendo scritto, a noi non è pervenuto.

«Teòfilo»: nel prologo dell’evangelo Luca parla di un «illustre Teofilo» (Lc 1,3), ma non siamo in grado di determinare con maggiore precisione chi sia questo illustre personaggio al quale l’evangelista ha dedicato la sua opera. Tra le tante ipotesi non è esclusa la possibilità che questo «amico di Dio» sia da identificarsi con qualsiasi lettore del libro. Sebbene il vocativo appaia più tardi nei costrutti greci la traduzione sposta il vocativo «o Teòfilo» in una posizione tale da consentire un costrutto più naturale. Teofilo è il lettore voluto da Luca, forse ideale o un sostenitore già educato «nelle cose che si sono compiute tra di noi», ma che secondo Luca aveva bisogno di una certa sicurezza e Luca cerca di dargli proprio quella sicurezza grazie al modo ordinato con cui scrive il suo racconto (cf Lc 1,1-4).

«fece e insegnò dal principio»: L’usanza di Gesù di insegnare risalta in tutto l’Evangelo (Lc 2,46; 4,15.31; 5,3.17; 6,6; 13,10.22; 19,47; 20,1.21; 21,37; 23,5), così come quella degli apostoli si trova in tutto il testo degli Atti (4,2.18; 5,21.25.28.42; 11,26; 15,35; 18,11; 20,20; 21,28; 28,31).

2 «al giorno in cui …fu assunto in cielo»: La traduzione semplifica un costrutto greco complesso. L’ascensione di Gesù (analempsis), già accennata in Lc 9,51, all’inizio del viaggio a Gerusalemme, nonché in 9,31, è descritta come l’exodos che il Signore doveva compiere. La sua importanza è segnalata dalla duplice esposizione, in Lc 24,51 e in At 1,9-11; l’ascensione è la cerniera che tiene uniti i due volumi di Luca-Atti. In At 1,22 troviamo la distinzione tra il ministero di Gesù e quello dei suoi testimoni. L’impiego del verbo analambánō ricorda il racconto dell’ascensione di Elia (nella versione dei LXX, 2 Re 2,9-11).

«dopo aver dato istruzioni agli apostoli»: La traduzione rende estremamente formale il verbo entéllomai, che potrebbe essere tradotto anche «comandò/ordinò» (cf Lc 4,10 e At 13,47). Come già spiegato, la sintassi greca è difficile, la traduzione ricava una proposizione indipendente da un participio circostanziale entalámenos, il cui tempo indica un’azione che precede l’ascensione di Gesù. La «scelta» (o elezione, eklegomai) dei Dodici avviene ancora prima, ossia prima del discorso della montagna (Lc 6,13). Nel contesto questo dare istruzioni si riferisce alla profezia di Gesù riguardante i suoi testimoni (Lc 24,46-49, ripetuta in At 1,8). Il testo occidentale (rappresentata principalmente dal Codice D) chiarisce il mandato, «e ordinò loro di predicare l’evangelo».

«nello Spirito Santo»: In greco la frase è collocata in modo sgraziato tra «istruzioni agli apostoli» e «che si era scelti» tale da non modificare chiaramente nessuno dei due costrutti. Il racconto lucano non implica esplicitamente la presenza dello Spirito Santo sia nella scelta degli apostoli sia nel loro incarico, sebbene per Luca tutto il ministero di Gesù sia diretto dallo Spirito Santo (Lc 4,1.14.18.36; 10,21).

3 «con molte prove»: Il termine tekmḗrion non è attestato in altre parti del Nuovo Testamento, ma si incontra nei trattati di retorica greca come forma di prova. Aristotele parla di un’interpretazione popolare di tale termine nel senso di «provato e concluso»; si veda l’impiego di detto termine in Sap 5,11; 19,13. L’interesse di Luca per il termine «prova» si accorda con il suo proposito di fornire «sicurezza» al lettore (Lc 1,4). Si osservi l’enfasi posta sulla prova fisica in Lc 3,22 (il battesimo) e 24,38-40 (la risurrezione). Riteniamo che tali «prove» debbano trovarsi nei dibattiti retorici condotti dagli apostoli (At 9,29; 17,1-3; 18,4.19; 19,8; 28,23).

«apparendo loro per quaranta giorni»: In senso più letterale «per tutti i quaranta giorni». Il periodo di quaranta giorni, durante il quale si ebbero le apparizioni, rappresenta un chiaro contributo alle tradizioni della risurrezione. Alcuni evangeli apocrifi dilatano ancor di più questo periodo di speciale rivelazione agli apostoli; cf, ad esempio, l’Epistula Apostolorum, l’Apocrifo di Giacomo (550 giorni) e in particolare la Pistis Sophia 1: «Dopo che Gesù risorse dai morti passò undici anni parlando con i suoi discepoli». Per Luca, il numero quaranta sembrerebbe associato alle figure di Mose ed Elia (Es 34,28; Dt 8,2; 1 Re 19,8; LXX Sal 90,10).

«parlando del regno di Dio»: In tutto l’evangelo, Gesù proclama il regno di Dio (Lc 4,43; 6,20; 7,28; 9,2.11.60.62; 10,9.11; 11,2.20; 12,31-32; 13,18.20.28-29; 14,15; 16,16; 17,20-21; 18,16-17.24-25.29; 19,11; 21,31; 22,16.18.29-30; 23,42). Gli apostoli continueranno l’annuncio (At 8,12; 14,22; 19,8; 20,25; 28,23.31).

4 «Mentre si trovava a tavola con essi»: Una traduzione esatta di synalízomai è piuttosto difficile, sebbene il significato generale sia abbastanza chiaro. La traduzione prende il costrutto «condividendo insieme il sale» (alas) nel senso più ampio di «condividere un pasto», forma che appare suffragata dai riferimenti in Lc 24,36-48 e in At 10,41. L’espressione orientale indica in senso più ampio la parentela, la reciproca ospitalità ed amicizia indivisibile.

«di non allontanarsi da Gerusalemme»: Il discorso indiretto in greco «ordinò loro di non allontanarsi» si trasforma, a questo punto piuttosto che nella frase successiva, in discorso diretto allo scopo di evitare sia un passaggio sgraziato sia il bisogno di aggiungere una proposizione chiarificatrice come «egli disse». Il tema di questa disposizione ricorda il versetto «ma voi restate in città» in Lc 24,39, e questo è un esempio del modo in cui Luca pone Gerusalemme al centro della sua storia.

«che voi avete udito da me»: In questo costrutto il greco passa in modo così sgraziato al discorso diretto che il Codice D, per facilitare il passaggio, aggiunge una frase in più, ossia «dalla mia bocca». La «promessa del Padre» ripete esattamente Lc 24,49 e si riferisce allo Spirito Santo che, secondo l’autore, è l’adempimento della promessa fatta da Dio ad Abramo (At 3,25-26).

5 «sarete battezzati in Spirito Santo»: Questa affermazione ben dosata esalta il contrasto che si trova negli evangeli come profezia di Giovanni il Battista. Sia Lc 3,16 che Mt 3,11 aggiungono «e fuoco» alle parole di Giovanni in Mc 1,8, «ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo». Luca, nel suo racconto della Pentecoste (2,1-4), mette subito insieme questi simboli e inoltre fa pronunciare a Pietro, in At 11,16, lo stesso assunto come «parola di Dio».

«sarete battezzati»: il soggetto implicito è Dio. C’è nel v. 5 un contrasto tra i due battezzatori (Giovanni Battista l’uno, Dio l’altro) e i due battesimi (quello di Giovanni con l’acqua; quello di Dio nello Spirito santo). L’effusione dello Spirito santo a pentecoste è detta metaforicamente «battesimo nello Spirito santo». Dopo la parola Spirito santo il codice D, alcune versioni e i padri della chiesa Ilario e Agostino aggiungono «che state per ricevere»; dopo la parola giorni, lo stesso codice D, Agostino e altri aggiungono «fino a pentecoste». Queste due note esplicative chiariscono ulteriormente quanto era già chiaramente implicito nella lezione originale del testo.

6 «venutisi a trovare insieme»: La necessità del battesimo dello Spirito Santo per fare dei discepoli uomini nuovi è spiegata adesso. Essi si erano radunati intorno al Signore, Lo vedevano risorto, ma ancora non avevano compreso nulla di Lui. Infatti Lo interrogano se si realizzerà la lunga attesa d’Israele, la ricostituzione redentrice del regno terreno e glorioso; era questa la massima aspirazione di molte masse del popolo ebraico al tempo di Gesù.

«ricostruirai il regno di Israele»: la domanda tradisce l’attesa di una imminente restaurazione politica che il Messia avrebbe dovuto portare a vantaggio del popolo di Israele. Luca si serve di una definizione generale per rispondere agli interroganti, «coloro venutisi a trovare insieme», forse perché ha in mente un gruppo più grande degli apostoli (cf At 1,13-14). Il verbo «ricostruire» (apokathistánō) è usato da Luca con tale significato solo in questo versetto (cf Lc 6,10). Pare che la domanda sia connessa alla tradizione riguardante «la restaurazione di tutte le cose» che ci si aspettava da Elia e s’inquadra nella descrizione lucana di Gesù entro lo schema del «profeta come Mose». In tal modo, nella versione dei LXX, MI 3,23 usa questo verbo quando racconta che Elia «ricostituirà» (apokatastesei) il cuore di un padre verso il figlio e il cuore di un uomo verso il suo prossimo – passaggio cui allude Lc 1,17. La versione dei LXX di Sir 48,10, a sua volta, parla di Elia che volge il cuore di un padre verso il figlio e «ricostituisce» (katastésai) le tribù di Giacobbe. Cf la prova di questa tradizione in Mc 9,12 e in Mt 17,11.

7 «Non spetta a voi… che il Padre ha riservato alla sua scelta»: Il rapporto tra il verbo greco tithemi (letteralmente «collocare, porre») e la frase al dativo «alla sua stessa autorità [exousia]» potrebbe dar luogo a una traduzione come si ha nella versione Riveduta, ossia «che il Padre stabilì per la sua stessa autorità». Il significato in entrambi i casi è quasi identico, con l’accento posto sulla loro inaccessibilità alla conoscenza dei piani di Dio. Come nel caso di Paolo in Rm 11,25-36, per Luca il destino di Israele è un «mistero» che sfugge facilmente all’analisi dell’uomo.

La risposta del Signore è drastica: solo il Padre dispone con potere esclusivo, divino, dei tempi avversi, e dei tempi favorevoli (chrónoi e kairói), che nessuno conosce. Questo i discepoli già avevano udito dal Signore prima della Passione, quando Egli espose il “discorso escatologico” (cf Mt 24,36; Mc 13,32), e con termini duri, invitando a vigilare sempre. Il Disegno del Padre verte su altre direzioni, per cui i discepoli riceveranno la “Potenza del sopravveniente Spirito Santo” su essi.

La risposta di Gesù implica una ridefinizione del «regno» e pertanto del modo di capire che Gesù è il Messia. Il regno di Dio non è un territorio o un reame politico. È la legge di Dio nei cuori umani. Inizia con l’opera profetica di Gesù, non solo con esorcismi e guarigioni, ma soprattutto con la «guarigione del popolo»: la chiamata dei reietti nel Regno. E siccome Gesù è investito dei poteri di Re-Messia, egli può concedere lo Spirito Santo ai suoi successori apostolici attraverso il cui governo la sua legge verrà esercitata sulle genti (At 2,33-36). Pertanto, per Luca, il «regno di Israele» significa la restaurazione di Israele come popolo di Dio. Per lui, ciò vuol dire che esso riceverà lo Spirito Santo, riconoscerà gli apostoli come guide del popolo e beneficerà delle benedizioni messianiche di amicizia e armonia spirituale (At 2,41-47; 4,32-37). La restaurazione del regno di Israele avverrà attraverso la testimonianza degli apostoli quando essi avranno ricevuto la «forza dallo Spirito Santo» (1,8). In nessun modo, quindi, Luca respinge l’idea del ripristino della legge di Dio per Israele, o la sostituisce semplicemente con una nozione più universale del «regno di Dio». Esprime, invece, la definizione della legge di Dio come la legge per un popolo ubbidiente e collega in forma dialettica la ricostituzione di questo popolo in seno a Israele alla missione universale «agli estremi confini della terra»: L’una precede l’altra, la seconda si edifica sulla prima. Luca con la lezione del suo racconto invita il lettore a scoprire il mistero dei «tempi e dei momenti».

8 «avrete forza dallo Spirito Santo»: In Lc 24,48 la profezia è formata dalla frase «finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». L’immagine spaziale dello Spirito «che scende» (la provenienza, l’Alto, indica il Padre) corrisponde a quella di Gesù «che sale al cielo», e ricorda i racconti evangelici dell’annunciazione a Maria (Lc 1,35) e del battesimo di Gesù (3,22).

Lo Spirito Santo, dei discepoli, per ora ancora sconcertati, farà dei testimoni intrepidi del Signore con un raggio sempre crescente: dapprima in Gerusalemme, poi nella Giudea e in Samaria, finalmente senza limiti sulla terra, fino ai suoi estremi confini (v. 8). Si realizza così anche la profezia sul Servo che porterà il Nome divino a tutta la terra (Is 49,6) per essere la Luce delle nazioni. Paolo da parte sua in Col 1,23 dà resoconto, almeno per il momento in cui scrive (c. anno 59 d.C.), di avere realizzata con la Grazia questa missione, ricevuta dal suo Signore dopo Damasco, e che gli costerà molte sofferenze (cf. At 9,15-16).

«e mi sarete testimoni»: La profezia riprende chiaramente il versetto di Lc 24,48: «Di questo voi siete testimoni». La categoria di «testimoni» è una delle più esaurienti per indicare i seguaci di Gesù (At 1,22; 2,32; 3,15; 5,32; 7,58; 10,39.41; 13,31; 22,15.22; 26,16). Per quanto riguarda il verificarsi della profezia, cf i versetti in 6,3; 13,22; 14,3; 23,11.

«fino agli estremi confini della terra»: Come è stato fatto notare nell’Introduzione, la sequenza geografica fornisce grosso modo un profilo del testo: inizia con il ministero in Gerusalemme (cf «cominciando da Gerusalemme», Lc 24,47) nei capitoli 1-7, seguito dalla diffusione della buona novella in Giudea e Samaria nei capitoli 8-12, e poi alla missione fino a Roma, capitoli 13-28. Il significato esatto di eschatou tés gés («fine/estremità della terra») è basato sul contesto. Nella versione dei LXX l’espressione «fine/estremità della terra» ricorre frequentemente, e non ha tanto il senso di una specifica località geografica quanto quella di ampiezza universale (cf ad esempio, Dt 28,49; 1 Mac 3,9; Sal 134,6-7; Is 8,9; 14,21-22; 48,20; 49,6; 62,11; Ger 10,12; 16,19). Pertanto il fatto che qui tale espressione significhi qualcosa come Roma, piuttosto che, ad esempio, «la fine della terra [di Israele]», dipende solo da come s’intende il piano generale della narrazione, anche se nei Salmi di Salomone 8,15 il nemico romano è chiamato «qualcuno che viene dalla fine/estremità della terra».

9 «fu elevato in alto»: Piuttosto che il verbo analambano Luca preferisce il verbo epaírō nell’aoristo passivo. Il fatto che questa sia l’unica volta che egli usa il verbo in questo senso (cf Lc 6,20; 11,27; At 2,14; 22,20) non fa altro che ricordarci quanto sia elastica la dizione di Luca; in Lc 24,50 l’autore usa dihistemi e enaphero per descrivere l’ascensione. Qui egli si serve anche di analambano (At 1,2.11) e poreuomai (1,10.11). La costante è localizzata nella frase «in cielo» (eis ton ouranon) come si trova in Lc 24,51; At 1,10.11.

«e una nube lo sottrasse al loro sguardo»: Il verbo analambano è tradotto letteralmente con «portare su», sì che la nube diventa il veicolo dell’ascesa come lo è per i «due testimoni» in Ap 11,12. Si trova una nuvola anche nell’ascensione di Enoc in 2 Enoc 3,1 (mentre in 1 Enoc 39,3 è un turbine d’aria), nella morte di Mose narrata da Giuseppe in Antichità giudaiche 4,326 e in modo ancor più dettagliato nella descrizione dell’ascensione di Gesù riportata nell’Epistula Apostolorum 51. C’è anche un’altra traduzione del termine hypolambanó secondo cui la nuvola «lo accoglierebbe» sottraendolo così alla loro vista.

«fu sottratto»: Il verbo epaírō indica qui, con un aoristo passivo che evita di nominare il Nome divino, l’azione del Padre, che mediante lo Spirito Santo assume a sé l’Umanità del Figlio suo, che allora passa nella sfera divina per l’eternità. Luca si esprime qui con la teologia simbolica, descrivendo questa “sottrazione” tramite la “Nube” che è come il veicolo sul quale il Risorto è assunto al cielo. Ora, già nell’A.T., la Nube indica il segno sensibile e visibile della Gloria divina che assiste il popolo giorno e notte durante l’esodo (cf. Es 13,21-22), proteggendolo dagli ardori del sole e mostrandosi come Fuoco di notte contro i rigori del gelo. Questa Nube riempie anche il santuario nel deserto (Es 40,34-38; Num 9,15-23), come il tempio a Gerusalemme (1 Re 8,10-11). Però la Nube della Gloria, simbolo dello Spirito di Dio, si ritrova anche in Dan 7,13-14. Essa porta all’Antico di giorni, ossia all’Eterno, la figura misteriosa, divina ed umana, del Figlio dell’uomo, al fine che dall’Antico di giorni riceva ogni potere e gloria e regno su tutti i popoli della terra, per la loro salvezza. Ora, precisamente la condanna a morte di Gesù da parte del sinedrio fu causata dalla sua affermazione — in risposta alla domanda: “Tu, sei il Cristo, il Figlio del Benedetto?” posta dal sommo sacerdote (Mc 14,61) —, insieme netta e definitiva: “Io sono. E voi vedrete ‘il Figlio dell’uomo intronizzato alla Destra della Potenza (= Dio) e veniente con le nubi del cielo’” (Mc 14,62), che è una lunga citazione di Dan 7,13. Così la Nube rivela che il Figlio dell’uomo riassume in sé anche la figura del Christós, il Re Messia, a cui il Signore aveva concesso la filiazione divina con solenne promessa (2 Re (= 2 Sam) 7,13-16, cantata dal Salmista: Sal 88,27-30). Mentre il sommo sacerdote ritiene che tale filiazione divina sia metaforica, concessa dal Signore al Re messianico che è un semplice uomo, Gesù afferma la sua filiazione divina eterna, come ben comprende lo stesso sommo sacerdote, che si strappa le vesti e grida la sua condanna a morte (Mc 14,63-64). Ed ecco finalmente la Nube in azione. Si tratta per ora di innalzare alla Gloria divina l’Umanità del Risorto (At 1,9). Ma la medesima Nube Lo riporterà all’ultimo dei giorni, per il Giudizio (cf. Mc 13,26, e par.).

10 «due uomini in bianche vesti»: Questa descrizione ricorda i «due uomini in vesti sfolgoranti» – che a sua volta riporta alla descrizione di Mose ed Elia, nella trasfigurazione -visti dalle donne presso la tomba di Gesù (Lc 24,4), che parlano con il Signore dell’exodos che stava per compiere in Gerusalemme (Lc 9,30). L’allusione pare più probabile dato che sia Mose che Elia sono figure alle quali la tradizione ha riconosciuto un’«ascesa al cielo» (cf Dt 34,6; 2 Re 2,11-12; Filone, Vita di Mose 2,291).

11 «Uomini di Galilea»: La traduzione mantiene qui «uomini» poiché il greco ha ándres, come si ha anche in 1,10. In effetti, il vocativo di anér è usato spesso negli Atti per le conversazioni in pubblico (1,16; 2,14.22.29.37; 3,12; 5,35; 7,2; 13,15-16, ecc.). L’origine galilea dei primi cristiani è stata ripetutamente sottolineata nell’ultima parte dell’evangelo (Lc 22,59; 23,5.49.55). La dichiarazione fatta dai due uomini ricorda molto quella rivolta alle donne presso il sepolcro vuoto. Di fronte a così grande ed incomprensibile avvenimento, è ovvio che gli attoniti discepoli “restano fissi al cielo” mentre il Signore sale (At 1,10a). Si presentano ad essi due Giovani, i medesimi che al sepolcro si erano manifestati alle Donne fedeli, come resoconta Luca (Lc 24,5), mentre quelle per lo stupore del sepolcro vuoto guardavano a terra. I due Giovani portano vesti bianche, come alla Resurrezione, in segno di vittoria; si ricorda qui che era ferma fede della Chiesa Madre di lingua aramaica, che i due fossero Cristo e lo Spirito Santo. La veste bianca si ritroverà come la divisa liturgica nella Liturgia eterna cosmica celeste (cf. Ap 4-5). Essa indica allora anche il trapasso alla sfera eterna, che adesso si vuole manifestare (v. 10).

«perchè state a guardare il cielo»: Le parole dei due Giovani sono fondamentali per la cristologia, e fondano la teologia della santa icona di Cristo. Essi affermano che non serve stare ancora a guardare il vuoto nei cieli (v. 11a), e avvertono che “questo Gesù assunto via da voi nei cieli”, che è l’Uomo vero, il Risorto vero, “verrà nel modo in cui Lo vedeste procedere verso il cielo” (v. 11b). Perciò, l’icona di Cristo è per sempre una ed unica: l’Uomo Risorto, il medesimo che sarà contemplato nei cieli in eterno. Le altre icone sono secondarie e derivate da questa; certo il Signore si deve rappresentare anche negli episodi della sua Vita pubblica, fino alla Croce, tuttavia “dopo — a causa — a partire dalla Resurrezione” la visione di Lui sarà per sempre una: del Risorto. È l’icona che in genere si chiama del Pantokrátôr, a cui si possono aggiungere nomi come Zôodótês, Donante la Vita divina, ed altri.

«Questo Gesù»: Gesù scompare definitivamente dalle pagine del libro degli Atti. Il suo nome è citato ottantasei volte, circa, nel Vangelo, mentre appena sessantotto volte nel libro degli Atti. L’espressione «questo Gesù» (houtos ho Iésous) ricorre in 2,32.36 e ricorda le parole «questo Mose» in 7,35.

«tornerà un giorno allo stesso modo»: Il testo greco dice letteralmente «verrà così, nel modo in cui voi l’avete visto andare». L’analogia parrebbe essere la nuvola che, nella visione di Daniele – riportata nel Nuovo Testamento (Dn 7,13) – diventa il veicolo per l’attesa del futuro ritorno di Gesù come Figlio dell’uomo (Mt 24,30; 26,44; Mc 13,26; 14,62; Ap 14,14; Lc 21,27). Luca ripete quattro volte la frase «in cielo» (eis ton ouranon) nei vv. 10-11. Il Codice D omette la terza ripetizione, ma essa probabilmente dovrebbe essere compresa nell’accento posto all’inizio da Luca (cf At 7,55-56).

“Il racconto dell’ascensione di Gesù, narrato da Luca, è unico nel Nuovo Testamento, ma non nella letteratura ellenistica. Il poeta romano Ovidio, nelle Metamorfosi 14,805-851, narra l’ascensione di Romolo al cielo: il fondatore della città continua a legiferare persino quando ascende al cielo degli dei (cf anche Ovidio, Fasti 2,481-509). Nella tradizione giudaica, l’ascensione di Elia in un carro di fuoco e in un turbine di vento (2 Re 2,11) è veramente favolosa e stabilisce un precedente per la narrazione di altre ascese al cielo, come quella di Enoc che sale al cielo in un turbine di vento (2 Enoc 39,3). Nel volume Antichità giudaiche, Giuseppe pare preoccupato nel raccontare in termini naturalistici la scomparsa di Mose «in una nube», sì da evitare la suggestione di un ritorno alla divinità. Ma Filone narra l’ascensione di Mose in maniera analoga a quella di Ovidio per Romolo: Mose continua a profetizzare anche quando ascende (Vita di Mose 2,291). Lavorando sulla versione di Luca e su altre tradizioni, l’ascensione di Gesù appare ancor più particolareggiata nei racconti riportati in certi scritti cristiani apocrifi come l’Apocrifo di Giacomo 14-16, l’Epistula Apostolorum 51 e II martirio e l’ascensione di Isaia 11,22-33.

Il modo specifico in cui Luca narra l’ascensione può essere rapidamente spiegato:

  1. Prima di tutto, per Luca si tratta chiaramente dell’investitura di Gesù a re e pertanto a Messia. Mediante quest’ascesa, Luca ci permette di concepire il Gesù risorto, non come un cadavere risuscitato o un fantasma, ma come un essere vivente in potenza (LXX Sal 109,1; At 2,34-36; 7,55).
  2. Secondo, per Luca la rimozione fisica di Gesù è la condizione per il dono dello Spirito Santo. Mose deve andarsene affinché Giosuè possa operare con il suo spirito profetico (Dt 34,9); Elia deve partire affinché Eliseo possa ottenere una doppia parte del suo spirito profetico (2 Re 2,9). Finché Gesù rimase fisicamente presente, egli lo fu solo per quelli che incontrava direttamente; mediante lo Spirito egli diviene potentemente presente a molti attraverso i suoi successori profetici.

Queste osservazioni possono aiutarci a capire altri due aspetti del racconto piuttosto sobrio dell’ascensione vera e propria. Nella tradizione biblica il simbolismo della nube è connesso non solo al Figlio dell’uomo (cf note), ma ancor di più alle figure profetiche di Mose (Es 19,16) e di Elia (1 Re 18,44). Questo collegamento ci porta a considerare più attentamente l’azione dei discepoli e il messaggio rivolto a loro dai due uomini. Indubbiamente i due fatti vanno presi insieme. Molto forte è l’analogia tra questi due uomini in vesti sfolgoranti e quelli accanto a Gesù durante la trasfigurazione (Lc 9,30), come pure i due uomini che parlano alle donne presso il sepolcro vuoto (Le 24,4-5). Pertanto il messaggio dei due uomini (forse Elia e Mose) ha la stessa duplice funzione del messaggio rivolto alle donne che si trovavano al sepolcro. Cercando Gesù nel sepolcro, le donne attestano che Gesù non c’è, è risorto. Ma poi viene loro detto di «ricordare» che questa è la profezia di Gesù che si è realizzata (Lc 24,6-8). Il racconto della tomba vuota ci riporta al ministero di Gesù e, a sua volta, il racconto dell’ascensione ci conduce al ministero dei suoi successori. I due uomini, pertanto, confermano adesso che Gesù è stato assunto al cielo e che i discepoli ne sono stati i testimoni, ma non devono restare là a guardare, poiché la potenza di Gesù sarà con loro esattamente con la discesa dello Spirito Santo che stanno per ricevere. Ora devono rientrare a Gerusalemme, per ricevere la potenza dall’alto e adempiere la loro testimonianza profetica.”(Luke T. Johnson, Atti degli Apostoli)

Antifona alla Comunione Mt 28.20

«Ecco, io sono con voi tutti i giorni

sino alla fine del mondo». Alleluia.

«Oggi qui» per i fedeli la Presenza del Risorto, formalmente promessa «per tutti i giorni», si realizza nel dono perenne dello Spirito Santo, che a essi giunge dall’ascolto della Parola, dalla partecipazione ai divini Misteri, dall’essere membra della Chiesa, la Sposa del Signore Risorto e Asceso nella gloria. Questi sono i maggiori «Segni che accompagnano» i discepoli del Signore lungo la loro via alla patria, nell’attesa della Venuta per l’ascensione di tutti insieme a Lui.

[1] La solennità dell’Ascensione, come risulta dai testi sacri, è finalizzata alla gloria del Signore ed al dono dello Spirito alla sua Chiesa. Questa comprensione ha dato due tipi di celebrazione: quello più antico, che celebrava insieme Ascensione e Pentecoste al 50° giorno (ancora e sempre di Domenica); quello meno antico (metà del IV sec. ad Antiochia) che fissava l’Ascensione da celebrare nel numero simbolico di 40 dopo la Resurrezione, il giovedì della VI settimana di Pasqua. Da pochi anni, dopo gli accordi intercorsi tra la Santa Sede e il Governo italiano nel 1977, è stata assegnata alla VII Dom. di Pasqua.

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano

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