Commento al Vangelo del 7 maggio 2017 – mons. Vincenzo Paglia

19514745932_eaeae50df7_o“Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!” (At 2,14).

Queste parole risuonano decise anche oggi, alle nostre orecchie. Pietro non scarica le accuse su qualcuno o su qualche gruppo in particolare; non accusa solo i giudei (talora queste parole sono state usate in modo distorto a sostegno dell’avversione verso gli ebrei); l’apostolo accusa tutti, cominciando da sé, e poi gli altri, anche i romani e coloro che erano presenti a Gerusalemme.

Nessuno si è opposto all’ingiustizia che si stava perpetrando contro quel giusto. Tutti sono stati corresponsabili, chi per paura, chi per indifferenza, chi per tradimento, chi per distrazione. E, alla fine, per lo stesso motivo: salvare se stessi e restare nella propria tranquillità. L’unico che non ha salvato se stesso è stato Gesù, per questo Dio è intervenuto e lo ha strappato dalla morte. La resurrezione è tutta di Dio. Nostra è invece la responsabilità per la morte di quel giusto; nostra è anche la responsabilità per la morte di tanti giusti ancora nei nostri giorni. Ecco perché – notano gli Atti – gli ascoltatori di Pietro al sentire il Vangelo della resurrezione “si sentirono trafiggere il cuore”.

Anche ai loro occhi apparve infatti l’enorme distanza tra l’indifferenza del loro comportamento e l’intervento appassionato di Dio che libera dalla morte Gesù. Prima di quegli ascoltatori, Pietro stesso si era sentito trafiggere il cuore nel petto quando udì il canto del gallo che gli ricordò il tradimento. Ugualmente i due tristi discepoli di Emmaus si sentirono “ardere il cuore nel petto” mentre quello straniero, aggiuntosi nel cammino, spiegava loro le Scritture. Il Vangelo tocca il cuore e lo “riscalda”, ma non quando ci sentiamo buoni, sensibili, religiosi, bensì quando avvertiamo la nostra distanza da Dio, l’unico buono, quando sentiamo il bisogno di aiuto per non soccombere nella nostra debolezza.

In un mondo in cui si è fatto più raro il senso della grandezza di Dio e più frequente invece il senso della buona considerazione di se stessi, l’ascolto del Vangelo ci fa scoprire il nostro vero volto. Ed è proprio la coscienza della debolezza e della cattiveria che ci spinge a chiedere: “Cosa dobbiamo fare?”. Non è una domanda formale; è la disponibilità a cambiare il cuore. Quegli ascoltatori non dicono: “Cosa debbono fare gli altri”, bensì cosa ciascuno di loro deve fare.

La risposta è nel Vangelo: seguire Gesù, il pastore buono. Il Vangelo parla di un recinto per le pecore. C’è chi vi entra per vie traverse: costui si insinua come un ladro e un brigante nella notte della paura e della debolezza, per portarsi via il cuore dei discepoli, per fiaccare la loro vita. Può trattarsi di un discorso, di una persona, di un’abitudine o di una qualsiasi altra cosa che però rapina il cuore dei discepoli. C’è invece chi entra nel recinto per la porta: è il pastore delle pecore, il “guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce”.

Nelle prime apparizioni Gesù ha trovato le porte del cuore dei discepoli chiuse per la paura e l’incredulità. Ora la porta si apre, il pastore entra e chiama le sue pecore una per una: è la parola del Risorto che chiama per nome Maria mentre sta piangendo davanti al sepolcro; è la parola che chiama Tommaso perché non sia più incredulo ma credente; è la parola che chiede a Pietro, “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?”, per tre volte. È una voce diretta che chiede una risposta altrettanto diretta.

Non è una voce estranea. È la voce dell’amico. Essa non conduce in un altro recinto, magari più bello e confortevole; toglie invece ogni recinzione, ogni barriera per porre davanti ai nostri occhi l’orizzonte illimitato dell’amore. Dice Paolo: voi siete liberi da tutto per essere schiavi di una cosa sola, dell’amore. Verso tale amore Gesù ci conduce. Egli cammina innanzi a noi e ci porta verso questo pascolo verde: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Chi lo segue sarà salvo, troverà pascolo e “non soffrirà mai la fame… non soffrirà mai la sete” (Gv 6,35).

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IV Domenica del Tempo di Pasqua

Gv 10, 1-10
Dal Vangelo secondo Giovanni

1«In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. 2Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. 3Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. 4E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. 5Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». 6Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. 7Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. 8Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 07 – 13 Maggio 2017
  • Tempo di PasquaVII, Colore – Bianco
  • Lezionario: Ciclo A | Salterio: sett. 4

Fonte: LaSacraBibbia.net

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