Commento al Vangelo del 7 maggio 2017 – Damiano Antonio Rossi

Commento a cura di Damiano Antonio Rossi con la collaborazione delle Suore Adoratrici Perpetue del S.S. Sacramento di Vigevano.

Gesù buon Pastore (Gv 10, 1-21)

Nel Libro di Enoc, un testo apocrifo composto in epoca anteriore al 164 a.C., la seconda visione quivi descritta racconta la storia del popolo ebreo sotto il velo delle vicissitudini di un gregge di montoni alle prese con dei lupi. Uno dei temi ricorrenti è che i montoni sono ciechi ma, per intervento del Padrone, essi cominciano a vedere; il testo congiunge, quindi, il tema della cecità a quello del gregge condotto dal vero pastore.48 L’associazione tra l’immagine della luce e quella del buon pastore non è, come si può ben vedere, nuova nel panorama letterario religioso di Israele e ciò è abbastanza comprensibile se si tiene conto del fatto che l’evangelista conosceva bene il retroterra culturale e religioso del suo popolo. È ovvio, pertanto, l’aggancio tematico tra la guarigione del cieco nato per opera di Colui che si manifesta come Luce che illumina il mondo ed il discorso di auto-rilevazione di chi si propone, autorevolmente, come l’unica vera Guida di tutti gli uomini. La metafora del pastore, che protegge e conduce al pascolo il proprio gregge, difendendolo dai lupi, esprimeva bene il rapporto tra il sovrano, umano o divino, ed i suoi sudditi e tale immagine era frequentemente usata negli scritti dell’antico Vicino Oriente.49 Limitandoci ai testi dell’Antico e del Nuovo Testamento, la metafora del pastore alla guida del proprio gregge veniva spesso utilizzata dagli autori ispirati del testo sacro per esprimere lo stretto legame esistente tra il popolo di Israele e YHWH (cf. Gen 49,24; Ger 13,17; 23,1.3; Ez 34,31; Sal 74,1; 79,13; 80,2; Mi 7,14), la cui premura nei confronti dei suoi fedeli adoratori non era mai venuta meno, sia durante l’esodo dall’Egitto (Sal 78,52s; 77,21; 95,7; Am 3,12), sia in occasione delle pur tristi vicende storiche successive.

Nella fedeltà di Dio a favore del suo popolo, i sacri autori della Bibbia ravvisavano un progetto di salvezza proiettato in un futuro lontano ma certo (Is 49,95). Persino la relazione personale del pio israelita con il suo Dio era sovente espressa dall’immagine del buon pastore (Sal 23), che garantisce sicurezza e pascoli sempre verdeggianti alle sue pecore, nonostante le aggressioni che provengono dall’esterno del gregge (cf. Is 40,11; Sir 18,13). Nel corso della storia Dio ha, di volta in volta, affidato il suo popolo ad alcuni suoi servi, fedeli esecutori della sua suprema volontà, affinché il popolo da Lui prescelto fra molti popoli della terra non rimanesse privo di guida “come un gregge senza pastore” (Nm 27,17; 1Re 22,17; Ger 50,6; Mt 9,36; Mc 6,34). In questo senso erano considerati “pastori”

Mosè, Giosuè, i Giudici e persino il re persiano Ciro il Grande (Sal 77,21; Nm 27,17; 2Sam 7,7s; Sal 78,79s; Is 44,28). Nel testo sacro non mancano le invettive contro i pastori infedeli, che sfruttano le pecore e lasciano andare in rovina il gregge per calcolo o per tornaconto personale; contro questi cattivi pastori si infiamma la collera divina, dalla quale essi saranno spazzati via dalla faccia della terra con grande ira e furore (Ger 22,22; cfr. 2,8; 10,21; Zac 11,15-17). La triste esperienza dell’abuso di potere, di cui si sono resi colpevoli i capi religiosi e politici del popolo di Israele nel corso della sua storia tribolata e ricca di contraddizioni, ha suscitato l’attesa che il Signore stesso stia per tornare ad occuparsi di persona delle pecore del suo gregge, poiché esse appartengono a Lui solo (Ger 22,2-3). L’intervento di Dio, contenuto come promessa nelle parole del profeta (“Voi avete lasciato… che le mie pecore si sbandassero! Ma io stesso radunerò il resto delle mie pecore!”), si concreta nell’annuncio messianico di un misterioso pastore che Dio susciterà, secondo i desideri del suo cuore, come un nuovo Davide. Grazie al Messia-

Pastore, il popolo di Israele “sarà salvato ed abiterà nella sicurezza” (Ger 23,5s). Il testo profetico di Ez 34 sintetizza, nel suo linguaggio pastorale, il tema della salvezza di Israele sotto la guida sicura e rassicurante di YHWH, il Pastore supremo che giudica e salva, o condanna, non solo le pecore del suo gregge ma anche gli stessi pastori, inviati come suoi rappresentanti per prendersi cura del suo gregge. Sembra evidente che l’evangelista abbia radicato il suo testo nel terreno biblico (cf. anche Mt 2,6; 9,36; 25,32; 26,31; Mc 6,34; Lc 15,4-6; At 20,28; Ef 4,11; Eb 13,20; 1Pt 5,2.4; Ap 2,27; 7,17; 12,5; 19,15), ma la sua opera rimane originale poiché il Pastore di cui parla è unico (non si fa cenno ad altri pastori cui siano rivolti dei rimproveri) e si tratta di un Pastore che dona la vita per le sue pecore, fatto del tutto inverosimile o assai poco verosimile nell’abituale comportamento degli uomini, che pensano a salvare se stessi ed a lasciare le pecore al loro destino di fronte ad un grave pericolo. Il discorso si articola in due parti tra loro disuguali, separate da un’annotazione dell’evangelista sull’incomprensione degli ascoltatori (10,6). La prima parte (10,1-5) presenta un quadro pastorale nello stile impersonale (egli, il pastore), mentre la seconda parte applica a Gesù e sviluppa in stile personale (io) due temi ripresi dal quadro iniziale (10,7-10; 11-18). La pericope si conclude con un’osservazione dell’evangelista circa la divisione provocata nell’uditorio dalle parole di Gesù (10, 19-21).

49Cf. l’Inno a Shamash in Testi sumerici ed accadici, UTET, Torino1987, pp. 385-386. L’autore dell’inno si rivolge al dio sole definendolo luce che illumina la terra, giudice dei cieli e pastore di tutte le creature.

10,1 “In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro ed un brigante. 2 Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore. 3 Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. 4 E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. 5 Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”. 6 Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro.

Per esprimere il conflitto aspro e molto polemico esistente fra Lui ed i farisei, Gesù ricorre ad una paroimìa (corrispondente all’ebraico mashàl), vale a dire una similitudine espressa per enigmi, un quadro simbolico desunto da una normale scena di vita pastorale, di cui però gli astanti non comprendono il significato (10,6). All’epoca di Gesù esistevano due tipi di “ovile” (aulé): lo stabbio eretto all’aperto, fuori del villaggio ed utilizzato durante il periodo del pascolo e l’ovile vero e proprio, una sorta di “cortile” che si trovava in posizione adiacente ad una casa ed era protetto da un muro di cinta. In questo secondo tipo di ovile, o cortile stabile, venivano spesso custodite le pecore di piccoli greggi appartenenti a padroni diversi, i quali stipendiavano un guardiano fisso che vigilava sulle greggi durante il periodo di riposo dei pastori. Nel suo breve racconto, Gesù farebbe riferimento proprio ad una struttura di questo genere. Di primo mattino, ogni pastore si presentava all’ingresso dell’ovile (la “porta”) e, dopo l’avvenuto riconoscimento della sua identità, veniva fatto entrare dal guardiano all’interno del cortile, dove non aveva alcuna difficoltà a riconoscere le proprie pecore ed a radunarle chiamandole anche per nome. Una volta radunato il proprio gregge, il pastore lo conduceva al pascolo mettendosi alla testa delle pecore, che lo seguivano senza troppe difficoltà poiché ne “conoscevano la voce” (10,4).

L’ambientazione pastorale del breve racconto dà modo a Gesù di alludere alle intenzioni malvagie dei suoi oppositori farisei, da Lui definiti ladri, briganti, estranei e, per contrasto, gli offre l’occasione per porre Se stesso al centro di questo ideale accerchiamento ostile presentandosi e rivelandosi come il Pastore in reciproco rapporto di conoscenza con le “sue” pecore. Chi è estraneo al gregge, non sempre è ben intenzionato nei confronti delle pecore! Il duplice “amen” (tradotto con l’espressione “in verità, in verità”), con cui Gesù introduce la similitudine o racconto simbolico, ha lo scopo di rafforzare lo stridente contrasto tra la figura positiva e centrale del pastore e quella negativa dei nemici del gregge, di cui sono definite le dinamiche conflittuali attraverso azioni tra loro opposte: il pastore “entra” per la porta, mentre i ladri e briganti “salgono” da un’altra parte del recinto; le pecore “seguono” il vero pastore perché ne “conoscono” la voce, ma “fuggono” dall’estraneo di cui “non conoscono” la voce. Al contempo, il duplice “amen” iniziale anticipa e rafforza il valore di quello successivo (10,7), che introduce una duplice formula di auto-rivelazione divina: “Io sono la porta… Io sono il buon pastore” (10,7.11). Il vero pastore si presenta alla porta dell’ovile, che sta a simboleggiare il diritto e la legittimità del pastore, avallati l’uno e l’altra dalla presenza del portinaio. Entrato nel recinto dell’ovile, il vero pastore si fa riconoscere dalle sue pecore chiamandole per nome “una per una” poiché con ciascuna di esse ha stabilito un rapporto personale di reciproca conoscenza e fiducia, al punto che le pecore seguono spontaneamente lui solo, di cui riconoscono la voce anche senza vederlo. Nella cultura semitica, il “nome” era l’equivalente dell’essere e, secondo la prospettiva biblica, il legame tra il nome e la persona che lo portava era assai stretto e dinamico. Sia il nome in sé che l’imposizione del nome ad una persona implicavano un rapporto di relazione interpersonale pressoché unica ed irripetibile ed era impensabile intrattenere un vero rapporto dialettico con un essere umano di cui non si conosceva il nome. Chiamare per nome il proprio interlocutore aveva il significato di affermare il peculiare diritto ad un rapporto personale esclusivo, quasi possessivo ed è per questo motivo che gli ebrei evitavano di chiamare per nome il loro Dio, consapevoli di non poterlo “possedere” né di poter avere con Lui un rapporto di superiorità. Il sacro Nome proprio di Dio, YHWH, poteva essere pronunziato dal sommo sacerdote soltanto una volta l’anno, nel giorno dello yôm kippùr (o giorno dell’espiazione) ed a Lui ci si poteva rivolgere, direttamente od indirettamente, usando nomi alternativi, generici (El, Elohim, Adonài, Shaddàj) oppure definendolo semplicemente “il Nome” (Hashshèm). La bestemmia contro Dio era sanzionata con l’immediata pena di morte! Il pastore, che chiama per nome ogni sua pecora (usanza attestata ancora oggi tra i pastori palestinesi), afferma dunque il proprio diritto ad un rapporto personale, privilegiato ed unico con ciascuna di esse e, al contempo, sancisce la loro appartenenza a lui soltanto. Appare ovvio ritenere che l’evangelista abbia inteso sottolineare lo stretto vincolo che lega Gesù a tutti coloro che credono in Lui (cf. anche Is 43,1) e ne “ascoltano la voce”, distinguendosi da coloro che “non sanno” riconoscere la sua parola e si tengono in disparte da un progetto di salvezza offerto a tutti.

Una volta radunate le proprie (tà ìdia) pecore, il pastore le fa uscire dal recinto e le conduce fuori, verso nuovi pascoli, camminando davanti a loro e prendendosi la responsabilità di guidarle per sentieri sicuri; fiduciose, le pecore lo seguono perché lo riconoscono come colui che si prende veramente cura di loro (“conoscono la sua voce”).

Nel discorso figurato, ciò che importa all’evangelista è che le pecore seguano obbedienti il loro pastore, non un altro. Esse conoscono la voce del loro pastore (cf. Sal 95,7) e stabiliscono con lui un rapporto di reciproca confidenza: al richiamo del pastore corrisponde l’ascolto delle pecore. Le espressioni “seguire” (che esprime la sequela nella fede) e “conoscere la sua voce” (che significa conoscere il Rivelatore e comprendere la sua rivelazione) sono familiari ai lettori credenti del Vangelo, i quali sanno bene a chi si riferisce l’evangelista quando contrappone alla “voce” del vero pastore quella minacciosa degli “estranei”. Poco prima (10,1) l’autore aveva definito “ladri e briganti” coloro che entrano nell’ovile scavalcando il recinto senza passare dalla porta, ora li chiama “estranei”; ma chi sono questi loschi figuri, che sembrano minacciare l’esistenza stessa delle pecore? Gesù si è presentato al popolo d’Israele (il gregge di Dio, secondo la definizione del Sal 99,3-4) per suscitare la sua fede nei propri confronti, poiché Egli è l’Inviato di Dio e, per condurre a termine tale missione, è entrato nel Tempio (l’ovile) al fine di ammaestrarlo. La maggior parte del popolo ebraico ha rifiutato di credere in Gesù (il vero pastore), non ha saputo riconoscere la sua voce e non lo ha seguito, ma quanti hanno creduto in Lui si sono posti alla sua sequela ed Egli li ha condotti verso il Padre, facendoli uscire da un ambiente divenuto ormai ostile ed oppressivo, dominato da ladri e briganti (i giudei, ossia i capi religiosi di Israele) che non hanno a cuore le sorti del popolo, ma tramano per condurlo alla rovina. L’immagine del pastore che cammina alla testa delle sue pecore è applicabile, nell’ottica dell’Antico Testamento, anche al popolo di Israele che viene condotto da Dio fuori dall’Egitto (Es 3,10; 6,26; 14,19; Dt 1,33; 4,37; 5,6; Sal 78 [77],52; Is 63,11.14).

Coloro che hanno creduto in Gesù e lo hanno seguito, hanno creato un netto distacco esistenziale con quanti si sono rifiutati di credere (“non seguono l’estraneo… ma fuggono da lui… perché non riconoscono la sua voce”) e tale distacco è reciproco. Come il vero pastore è unito alle sue pecore inseparabilmente, così altri uomini, estranei o lontani dalle pecore, sono separati da esse in modo definitivo e radicale. La similitudine può essere trasferita da un contesto storico-esistenziale ben preciso, caratterizzato dal rifiuto di Gesù da parte dei suoi contemporanei, ad un contesto escatologico nel quale il rifiuto della fede in Gesù da parte degli uomini assume i contorni di un dramma che si consumerà solo alla fine dei tempi, allorquando il giudizio finale sancirà la definitiva separazione delle pecore (i salvati) dai capri (i dannati). Risulta facile equiparare i “ladri e briganti” ai tanti falsi messia che, nel corso della storia remota e recente, hanno tentato e tentano di spacciarsi per “veri” pastori del popolo di Dio. La storia della Chiesa, in particolare, così come la storia dell’uomo in generale, è piena zeppa di millantatori che, in buona o cattiva fede, hanno cercato di proporre se stessi come gli unici e veri interpreti del Vangelo e della morale evangelica o come i nuovi ed autentici “salvatori” del mondo trascinando con sé alla rovina tanti cristiani sprovveduti e creduloni alla ricerca della soluzione più facile ai propri problemi di carattere esistenziale, siano essi di ordine materiale, etico o religioso in senso stretto. Viene spontaneo pensare che molti di coloro che sono stati sviati dalla retta fede ed indotti a seguire i “falsi” pastori, non si siano nemmeno impegnati più di tanto a “riconoscere” la voce del pastore “vero” e che per calcolo o comodità abbiano preferito assecondare la voce più suadente ed ingannatrice di chi promette e garantisce scorciatoie più convenienti per raggiungere la felicità. Essi non capirono. La rivelazione di Gesù cozza contro un’incredulità radicale, che sembra insuperabile e senza rimedio. Il resto del discorso di auto-rivelazione non farà che confermare l’oggettivo rifiuto di accogliere il Rivelatore da parte dei destinatari della salvezza.

7 Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. 8 Tutti coloro che sono venuti prima di me sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9 Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10 Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.

Gesù riprende nuovamente il discorso, cercando di chiarire agli astanti perplessi ed increduli il significato della similitudine appena esposta. Il duplice “amen” introduttivo serve a ribadire l’importanza di quanto Gesù sta per affermare paragonando se stesso alla porta dell’ovile, attraverso la quale può transitare legittimamente solo il vero pastore delle pecore per condurle fuori del recinto verso pascoli sempre più ricchi ed appetibili o per riportarle dentro l’ovile, al sicuro dai lupi rapaci, dopo averle condotte al pascolo. La “porta” dell’ovile, cui si paragona Gesù, va assunta come simbolo della legittimità di colui che entra e come prova del diritto del pastore ad accostarsi alle proprie pecore. Poiché Gesù è la “porta” d’accesso dell’ovile, interdetta ai ladri ed ai briganti, ne consegue che Egli è anche il vero e legittimo proprietario delle pecore, il loro unico pastore. Poiché il pastore entra dalla porta, egli è indiscutibilmente il pastore delle pecore mentre gli altri sono solo dei malintenzionati che cercano di scavalcare il recinto solo “per rubare, uccidere, distruggere”. Nel momento in cui Gesù, vero pastore, è immesso nella funzione di “porta”, si infrange contro di lui qualsiasi illegittima pretesa di rivelazione, di guida e di salvezza.

C’è un unico accesso alle pecore ed è “occupato” da Gesù; c’è un solo portatore di salvezza, una sola via che conduce al Padre: Gesù, la “porta”, il buon pastore (cf. 14,4-6). In quanto unica ed assoluta via alla salvezza, Gesù è la porta attraverso la quale le pecore possono uscire ed entrare nell’ovile in piena sicurezza (10,9); in quanto è l’unico rivelatore, capace di smascherare le cattive intenzioni di ladri e briganti, Egli è l’unica porta per accedere alle pecore con rette intenzioni. Con questa immagine, Gesù si contrappone senza mezzi termini ai tanti falsi messia, che pullulano sulla terra in ogni epoca della storia umana spacciandosi per salvatori dell’umanità. La scelta della porta, come simbolo del portatore della vera ed unica salvezza, potrebbe stare in rapporto con l’interpretazione in chiave messianica del Sal 118,20: “E’ questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti” (cf. anche Gv 12,13; Mc 12,10; Mt 23,39). In tal caso, l’evangelista avrebbe inteso sottolineare, caso mai ve ne fosse ancora bisogno, l’unicità di Gesù Cristo come mediatore e portatore di salvezza in contrapposizione stridente con qualsivoglia altro pseudo-messia. L’assolutezza della pretesa di Gesù esclude, pertanto, tutti i concorrenti: ma chi sono quelli venuti prima di Lui ed etichettati come ladri e briganti? Probabilmente l’evangelista aveva nel mirino i farisei, che guidavano il giudaismo a lui contemporaneo e che si opponevano con tutte le loro forze alla fede in Gesù (cf. Mt 23,1-36; Lc 11,39-52; Mc 6,34). Per loro fortuna, le pecore (cioè i credenti in Cristo) non “hanno ascoltato” le false promesse di salvezza formulate dai nemici di Gesù.

Io sono la porta. Gesù ribadisce questa formula di auto-rivelazione, ripetendola una seconda volta dopo il duplice “amen” di apertura, per rafforzare la sua funzione salvifica esclusiva: “se uno entra attraverso di me, sarà salvo”. La salvezza, acquisita mediante la fede in Cristo, viene resa da una sequenza di azioni (entrare, uscire, trovare pascolo) tipicamente semitica e di derivazione vetero-testamentaria (cf. Dt 28,6; 31,2; 1Sam 29,6; 2Sam 3,25); i termini contrari (entrare, uscire), infatti, esprimono in ebraico il concetto di totalità (cf. Dt 6,7) che, in questo caso, ha come fine il raggiungimento della pienezza di vita (trovare pascolo). Pascolando, le pecore si mantengono in vita ed i pingui pascoli sono un’immagine dell’assistenza divina (Sal 23,2), che viene applicata sia alla salvezza di Israele (Ez 34, 12-15) che alla benedizione escatologica (Is 49,9ss). L’evangelista riprende, così, un’immagine antica per far comprendere ai suoi lettori che la vita divina viene comunicata ai credenti attraverso Gesù (10,10).

Per descrivere l’azione malefica dei ladri, dei predoni e degli estranei, l’autore precisa le tipiche azioni del ladro assassino, che “ruba, uccide, distrugge”. Al contrario di costui, Gesù (porta e pastore delle pecore) mantiene in vita le pecore, anzi, vuole accrescere la loro vita oltre misura. La rovina, causata dal ladro assassino e distruttore, è la morte eterna, ossia la perdita della vera vita che solo i credenti possono ricevere grazie a Gesù (Gv 3,16.36; 5,40; 6,33.35.48.51; 14,6; 20,31; Ap 7,17; Mt 25,29; Lc 6,38). L’eccezionale pienezza di vita che viene da Dio è, in altri passi, illustrata con le immagini della sorgente zampillante (4,14; 7,38) o del pane che estingue per sempre la fame (6,35.50.58) ed è qualificata dalla dimensione atemporale dell’eternità. La vita eterna, di cui parla l’evangelista per bocca di Gesù, non è tanto, o non solo, la vita post-mortale presso Dio distinta dalla vita presente, ma è la vita indistruttibile che sopravvive alla morte del corpo, è la vita escatologica che partecipa, con pienezza e sovrabbondanza, della vita stessa di Dio.

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