Commento al Vangelo del 29 aprile 2018 – Giustina della Comunità Kairos

Dall’evento pasquale sono sgorgati aspetti diversi della vita spirituale ed ecclesiale. Il vangelo di oggi pone l’accento sulla comunione che il credente vive con il Signore e sul come custodire e conservare tale comunione. Inserito nel più ampio contesto dei discorsi di addio (cc 13-17), il capitolo 15 del vangelo di Giovanni attraverso l’immagine della vite e dei tralci concentra l’attenzione sul legame vitale che unisce i discepoli a Cristo e al Padre. I temi ricorrenti e pressanti lungo tutto il brano sono quelli del “rimanere in” e del “portare frutto”. Che significa rimanere in Cristo? Quale relazione lega i discepoli a Gesù e al Padre? E quali sono i frutti che il Padre attende?

La metafora della vigna serve a far comprendere la situazione particolare della comunità cristiana post- pasquale durante l’assenza di Gesù.

Per un ebreo credente la vite è una pianta familiare. È un tema ricorrente nell’esperienza biblica e caro a Israele. La vigna, bene più prezioso per il contadino israelita, è spesso menzionata nell’AT sia in senso proprio che figurativo. È un’immagine eloquente di benessere e prosperità. Sfuggito al diluvio, Noè inaugura l’inizio di una nuova era piantando una vigna (Gn 9,20).

L’uso più diffuso che la tradizione biblica fa della vigna è soprattutto di considerarla una metafora del rapporto fra il popolo di Israele e il Dio dell’alleanza. La vigna rappresenta il popolo eletto, che deve la sua esistenza al Dio dell’alleanza che l’ha salvato dall’Egitto e l’ha piantato in uno spazio nuovo dove ha potuto prosperare “come vite rigogliosa che dava frutto abbondante” (Os 10,1). La vigna di Israele avrebbe dovuto manifestare la gloria di Dio, avrebbe dovuto fruttificare con i frutti della giustizia, derivanti dalla fedeltà a Dio e dalla pratica della legge, ma niente di tutto ciò si è realizzato e i profeti non hanno potuto far altro che costatare il fallimento della vigna (Is 5,1-7; Ger 12,10-11; Ez 19,12). Stridente è il contrasto fra l’amore di Dio per la sua vigna e l’incapacità di Israele di corrispondergli. Da una parte c’è la cura di Dio, assidua e paziente, e dall’altra un’ostinata sterilità.

Giovanni riprende l’immagine della vite, familiare agli ascoltatori, ma va al di là dello sfondo biblico facendo uno spostamento ardito: non è più Israele la vigna di Dio, ma il Figlio. Gesù stesso s’identifica e si auto-rivela come la vite di cui parlavano i profeti. Egli è la vite vera e Dio è il vignaiolo, colui che la coltiva. Piantato da Dio e oggetto del suo amore è Lui la vera vite del Padre, è Lui il nuovo Israele. Il Figlio realizza nella propria persona ciò che la metafora biblica voleva significare. È la vera vite, l’unica in grado di manifestare pienamente la gloria di Dio e di produrre finalmente i frutti sperati. In Gesù il dono di Dio e la risposta dell’uomo si congiungono e trovano il loro compimento.

Da qui l’invito e il richiamo pressante ai discepoli a rimanere in Lui. Come i tralci devono rimanere attaccati alla vite per nutrirsi e crescere, così i discepoli devono rimanere in Cristo per portare frutto. Devono mantenere un legame essenziale e vitale con Gesù. Al di fuori di questo legame non c’è possibilità di vita, il tralcio muore e si secca. Per sua struttura naturale la vite è un tutt’uno vivente le cui parti sono interdipendenti e inseparabili. La relazione del tralcio con la vite è una relazione personale. Così è anche il legame dei credenti con il Figlio. Il verbo “rimanere” (ménein) non indica uno status passivo, ma un evento dinamico che misura la maturità del rapporto di fede e di amore del credente con il suo Signore. Solo se si rimane nel Cristo, la relazione col Signore può farsi storia e non limitarsi all’esperienza di un momento. Il fine è portare frutto per glorificare il Padre.

Il Padre, il vignaiolo, opera la potatura dei tralci e toglie via quelli che non portano frutto. Il vignaiolo taglia e pota e le sue attività condizionano la fecondità della pianta. Lo scopo della potatura è il frutto che deve essere sempre più abbondante. Gesù assicura ai discepoli che sono già stati potati, innestati nella vite e quindi pronti a portare frutto, grazie alla Parola che hanno ricevuto da Lui. La potatura, opera del Padre, è legata all’ascolto della Parola del Figlio, poiché il Padre è all’origine di ogni sua parola. È la Parola che pota e prepara il tralcio. Ma il portare frutto dipende anche dal tralcio. Rimanere in Cristo dipende dai discepoli. Nell’immagine dei tralci i discepoli non sono solo beneficiari passivi della linfa vitale che scorre dalla vite, ma diventano partecipi e co-autori nella produzione del frutto. Il discepolo è inserito in una relazione vitale e personale nella quale l’effettiva realizzazione del progetto di Dio richiede la sua collaborazione, il consenso personale, mai compiuto una volta per tutte, in un atteggiamento di conversione permanente. Si tratta per il discepolo di accogliere in sé l’attività di Gesù e di permettere lo scorrere di quell’amore trinitario il solo capace di suscitare vita. Il rischio, sempre possibile, è quello di interrompere questo legame vitale staccandosi dalla radice.

Portare frutto e diventare veri discepoli, cioè uomini capaci di manifestare pienamente al mondo l’amore di Dio, è l’unico modo per glorificare il Padre.

Fonte: Comunità Kairos (Palermo)

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