Commento al Vangelo del 27 Dicembre 2020 – P. Osorio Citora Afonso

La narrazione inizia e si conclude con delle azioni compiute da Giuseppe e Maria: portano il bambino a Gerusalemme e, con lui, fanno ritorno a casa, non a Betlemme, ma in Galilea, nella loro città d’origine: Nazareth.

Atteso che celebriamo la festa della sacra famiglia di Nazareth, intendo soffermarmi sulle azioni compiute dai genitori concludendo con l’aggiunta lucana: “Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”.

Luca che molte volte è preciso nel dare il nome alle cose e alle persone, infatti “aveva fatto delle ricerche accurate su ogni circostanza per scriverne un resoconto ordinato” (Lc 1,3), con nostra sorpresa, in questo brano, vengono omessi i nomi dei principali personaggi: solo una volta dice “a Maria, sua madre,”, altre volte l’evangelista mette il solo verbo: “portarono il bambino a Gerusalemme “e “fecero ritorno”; oppure adopera “genitori” oppure “madre e padre di Gesù”.

Prima riflessione Luca lo fa affinché ciascuno di noi possa identificarsi come “genitore”, “madre” o “padre” anche nel caso di una maternità e paternità spirituale. Nella mia precedente meditazione accennavo che Maria dà alla luce un figlio che è anche avere cura dell’altro, oltre che far nascere una nuova vita, una nuova relazione. È in questa relazione – madre e figlio – che Maria prende amorevole cura del figlio avvolgendolo e deponendolo in una mangiatoia. Siamo dunque genitori, padre e madre quando diamo vita a una nuova relazione e allora nello stesso modo possiamo immedesimarci con le azioni dei genitori di Gesù.

La prima azione che i genitori compiono e che ricopre un valore sociale e religioso notevole per l’epoca, è “portare il bambino” a Gerusalemme, ove si trova il tempio. I genitori fanno la presentazione al Signore, secondo quanto prescriveva la legge di Mosè, che voleva che il primogenito fosse offerto a Dio. Gesù, da grande, vi si recherà spesso. Portando il bambino a Gerusalemme, i genitori introducono il figlio nel contesto sociale e religioso, ricevono il bambino, come un dono dal Signore ed essendo riconoscenti, portano questo dono – bambino – al Signore per presentarlo, per consacrarlo, come a dire da te lo abbiamo ricevuto e a te lo consacriamo.

Dobbiamo poi riflettere sul fatto che il bambino Gesù è portato al tempio, davanti a Dio, perché non è semplicemente il figlio di Giuseppe e Maria: «i figli non sono nostri» (Kalil Gibran), appartengono a Dio, al mondo, al futuro, alla loro vocazione e ai loro sogni, sono la freschezza di una profezia “biologica” (Ermes Ronchi). Questo gesto della madre e del padre di Gesù di affidamento al Signore della propria famiglia, è mettere Dio al centro della vita di famiglia e della coppia. La famiglia sente il bisogno di Dio, della sua presenza.

Con la presentazione al Signore, il bambino inizia la sua comunione d’amore con il Padre che è nel cielo. Lo dirà più tardi ai genitori che questa comunione è per sempre ed indispensabile per tutta la sua vita: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? Oppure devo essere nella casa del Padre mio. Gesù è consapevole che deve stare, deve rimanere presso il Padre, nel suo cuore. È una necessità per lui. Come lo è stato per i genitori quando, da piccolo lo portarono al Tempio. Questa celebrazione deve ricordare anche a tutti noi che la vita appartiene a Dio e che dobbiamo riconoscere che la nostra vita è un dono che abbiamo ricevuto da Lui.

Secondo evento centrale, nel tempio, il bambino si ritrova tra le braccia di due anziani, Simeone ed Anna, israeliti fedeli al Signore, sono simbolo del passato, della grazia, della sapienza, della profezia che hanno saputo attendere il Messia del Signore. È un incontro tra generazioni: nonni, genitori e bambino. Simeone, è uomo giusto e pio, che aspetta la consolazione d’Israele, mentre Anna, profetessa, non si allontana mai dal tempio, serve Dio notte e giorno con digiuni e preghiere: lo Spirito Santo è su di loro. Sono due modelli di vita che sanno che questo bambino non appartiene più soltanto al popolo d’ Israele. Sono due persone che frequentano il tempio perché sono consapevoli che il mondo non può colmare i loro desideri e vivono della sapienza secondo la quale solo Dio rimane quando tutto passa e sparisce. Già da bambino, Gesù si incontra con questa grazia e sapienza. In conclusione, infatti, Luca dirà che “Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”.

Davanti alla grazia e sapienza di Simeone ed Anna, i genitori di Gesù si stupiscono, si meravigliano; ricevono un altro annunzio sul bambino, si lasciano evangelizzare di nuovo. Benché sapessero del progetto di Dio annunziato dall’Angelo, Maria e Giuseppe non si comportano come quelli che sanno tutto, ma si meravigliano e sono felicissimi.

Infine, i genitori “fecero ritorno” alla vita normale e famigliare affinché il bambino potesse crescere e si fortificasse, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

Siamo invitati ad immedesimarci ed imparare da questi gesti dei genitori: andare al tempio, stupirsi della grazia e della sapienza e ritornare con il bambino nel contesto famigliare. Solo portando il bambino al tempio, i genitori possono stupirsi e meravigliarsi.

Il discepolo missionario è colui che si lascia stupire e meravigliare dal Vangelo. Infatti, “lo stupore è davvero la strada per cogliere i segni del sublime, cioè di quel Mistero che costituisce la radice e il fondamento di tutte le cose”. Tuttavia “se tale sguardo non è coltivato, si diventa ciechi davanti all’esistenza: chiusi in se stessi, si resta attratti dall’effimero e si smette di interrogare la realtà”. 


Per gentile concessione del sito consolata.org

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