Card. Gianfranco Ravasi – Giuseppe, un padre giusto e umile

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Lunedì prossimo cadrà la solennità di san Giuseppe, il padre legale di Gesù, lo sposo di Maria, di professione téktôn ( Matteo 13,55), cioè falegname o carpentiere, di ascendenze nobili essendo della linea genealogica davidica, originario probabilmente di Betlemme ma residente a Nazaret. Figura modesta e silenziosa (nei Vangeli non è riferita nessuna sua parola), egli riveste un rilievo particolare solo nel racconto della nascita e dell’infanzia di Gesù secondo Matteo. Il cuore della narrazione è nell’annunciazione-vocazione che Giuseppe riceve da Dio attraverso un angelo (Matteo 1,18-25).

I Vangeli apocrifi si sbizzarriscono nel colmare liberamente i vuoti di una biografia scarna. L’antico Protovangelo di Giacomo (II sec.) e la successiva Storia di Giuseppe il falegname (IV sec.) lo ritraggono come un vedovo anziano con figli avuti dal precedente matrimonio, considerati da alcuni come «i fratelli e le sorelle di Gesù» presenti nei Vangeli canonici. Morirà prima della sua seconda moglie, Maria, che egli confessa di aver amato teneramente, assistito da quel figlio Gesù che egli aveva salvato dalle mire omicide del re Erode, facendolo migrare con sé in Egitto come rifugiato.

Ma la nostra attenzione si fissa solo sui dati dei Vangeli canonici e, quindi, sulla sua chiamata a essere il Redemptoris custos, come lo definirà la tradizione e come s’intitolerà l’esortazione apostolica a lui dedicata da papa san Giovanni Paolo II nel 1989. La serenità del suo fidanzamento con Maria – che nel diritto matrimoniale ebraico era il primo atto dell’evento nuziale stesso – è infranta dalla scoperta dello stato interessante della sua ragazza, allora forse poco più che dodicenne, «prima che andassero a vivere insieme».

Il suo tormento interiore giunge alla decisione di «ripudiarla» (era già iniziato il matrimonio con lei), ma senza un atto ufficiale clamoroso, bensì «in segreto». Matteo per questo suo atto lo definisce «giusto», sia perché non vuole avallare una paternità ignota con il suo nome, sia perché evita di consegnare la sua promessa sposa alla procedura aspra della Legge biblica che poteva comprendere la lapidazione dell’adultera (Deuteronomio 22,20-21).

L’angelo, latore del messaggio divino, lo destina invece a una missione: quel figlio reca in sé la presenza suprema di Dio che ha fecondato Maria attraverso il suo Spirito. Perciò la vocazione di Giuseppe sarà quella di perfezionare il matrimonio con Maria così da poter essere il padre ufficiale del futuro nato e, in questa veste, imporgli quel nome, Gesù, che avrà anche un valore simbolico, “Il Signore salva”. Ed egli accetterà di svolgere questo compito alto e umile al tempo stesso, ritirandosi quando il bambino raggiungerà con i dodici anni la maggior età.

Come sappiamo, in quella data, nel tempio di Gerusalemme, Maria si farà eco del suo sposo rivolgendosi al loro ragazzo così: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati ti cercavamo». Ma Gesù replicherà affermando la sua autonomia di figlio di un altro padre: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?», frase che può essere anche tradotta: «Devo stare nella casa del Padre mio». La strana, difficile eppur gloriosa paternità di Giuseppe lo rende patrono di quei genitori che – in forma molto diversa – vivono situazioni familiari impegnative, sofferte e inattese, e le vivono consapevoli che quella è la loro vocazione.

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