Ermes Ronchi – Gerusalemme: la verità della comunione e la falsità che divide (Gv 17, 13-26)

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Introduco questo momento di meditazione con una poesia di fra Davide Montagna:

“Saper verificare ad ogni incontro,
con il cuore attento e trepide mani,
se il minuscolo vostro coccio di riconoscimento
combacia in bellezza con altri ancora.
Che il destino fragile degli amici dell’Unico
si riscopra in disegno di armoniose coincidenze”.

https://youtu.be/RwShZmNgLJw

Scoprire se il mio minuscolo coccio di riconoscimento combacia in bellezza con altri. Il nostro coccio di riconoscimento è Cristo, il nostro simbolo. Simbolo in origine è un sistema di riconoscimento: qualcosa veniva spezzato, un bastone di legno, un coccio, un anello, i due pezzi affidati a due persone diverse, che poi si sarebbero riconosciute, quando accostando i loro pezzi li vedevano combaciare. Insieme i nostri piccoli cocci oscuri costruiscono il corpo luminoso di Cristo. La religione è qualcosa che ri-lega, come dice la parola, che ti lega agli altri e poi ti lega alla terra intera e poi a Dio. La religione ti connette, è la connessione della tua vita con infinite vite. Un uomo isolato non sopravvive, non si umanizza. Solitario, il nostro cuore si ammala; isolato, muore.

La religione ti lega, ma poi ti slega, cioè ti fa libero. All’avvicinarsi del Vangelo si deve sentire aria di libertà; non la fissità dei codici, ma il vento che apre le porte. Leggi il Vangelo, respiri a pieni polmoni la libertà. La libertà ha un segreto: il segreto è quel pezzo di Dio che è in te e che i veri maestri dello spirito ti invitano a scoprire e ad adorare. Se sei fedele a questo pezzo di Dio, sei libero dalla schiavitù degli altri e dalle cose, dalle convenzioni abusate, dai codici senz’anima, dal pensiero dominante, dai giudizi degli altri su di te. Per te contano solo gli occhi del tuo Signore, conta un piccolo pezzo di Lui in te.

La fede crea legami e libertà. E Cristo ha riconciliato tutti, ha unificato tutti nella sua morte. Lo Spirito ci ha resi unici. All’unità della croce risponde la molteplicità della Pentecoste. Quando lo Spirito si divide e si posa sul singolo apostolo, ogni fiamma illumina una diversità, sposa una vocazione, ispira un progetto. Così la Chiesa domanda a noi l’adesione della fede e l’inventiva dello Spirito. La fede porta due doni: il legame e la libertà; l’unità e l’inventiva.

Noi, “amici dell’Unico”, diceva la poesia, noi sentiamo di avere un destino fragile, separati siamo poca cosa, siamo persi, come un coccio minuscolo, ma uniti ci scopriamo parte di un destino grande in armoniose coincidenze, perché ad ognuno è affidato un frammento di Cristo, una sillaba del Verbo, una lettera del tetradramma di fuoco. Ognuno di noi, diceva padre Turoldo, “è un proprio momento di Dio”, perché l’uomo ha Dio nel sangue.

Dice Paolo: “Noi portiamo un tesoro dentro vasi di argilla”. Si può spezzare il vaso, ma non per questo il tesoro si svaluta, e la mia verità, la mia verità è di essere fragile, un minuscolo coccio di un vaso che più volte si è rotto. Ma essere fragile non è un ostacolo, ma una opportunità, non un impedimento alla comunione, ma una chance. La fragilità è l’origine in me della voglia di legame, della voglia di comprensione e di amore; per la fragilità l’uomo cerca aiuto, cerca sostegno e appoggiando una fragilità sull’altra si sorregge il mondo, come due semiarchi di pietra o di mattoni. L’immagine è presa da Leonardo da Vinci. Dice: “Un semiarco da solo è instabile, non regge; ma appoggiandosi ad un altro semiarco crea la più solida tra le forme architettoniche, l’arco”. Questi archi solidissimi da cui siamo circondati. Sono fatti appoggiando una fragilità sull’altra. Così noi sosteniamo il mondo.

La fragilità non spinge a vincere, non crede alla forza, sa che è soltanto simulazione, una maschera per nascondere la paura; e sa che la ricerca di potere è solo un’atrofia del vivere. La fragilità è la visione di un mondo che non si divide più in vincitori e vinti, dove il vincitore è il più forte, il più violento, il più crudele spesso; la fragilità insegue il sogno di un mondo dove il vincitore è colui che dà e riceve amore. Su questo si pesa la beatitudine della vita: dare e ricevere amore. I sentimenti di comunione sono l’essenza di ciò che la fragilità genera nell’uomo: io sono tanto fragile da pensare sempre all’amore.

Allora leggo il Vangelo e cerco un Dio della fragilità, un Dio non da adorare nell’alto dei cieli, ma che rida e giochi con i suo figli nei caldi giochi del mare dell’estate; il mio Dio è Gesù che conosce la passione e la paura, il dolore del rifiuto, la gioia dell’abbraccio, il brivido per la carezza dei capelli intrisi di nardo della sua amica. Un Dio che mi concede il diritto di essere debole, di essere canna incrinata, fragile come un uomo e non duro come un eroe; e non mi condanna se sono lucignolo fumigante, ma prende questo mio filo di fumo, presagio che il fuoco è ancora possibile e vicino, e lo lavora e lo protegge, fino a che fa sgorgare di nuovo la fiamma. Non finisce di rompere questo vaso incrinato che io sono, ma lo fascia come fosse un cuore ferito, e accetto allora la mia fragilità, la accetto come metà di un arco, come metà di molti archi tesi a sorreggere la terra.

Un pezzetto di Cristo in noi è il nostro tesoro, il segno di riconoscimento delle nostre fragilità che diventano forza. Allora qual è la verità della comunione? Questa: che la comunione è la verità della vita. La comunione è una domanda che sale dalle profondità della materia che grida nella stessa fisiologia dei nostri corpi, che canta nel desiderio, nell’eros, che in origine è una forza pura e buona; più ancora: è la parabola più universale del sogno di Dio, di cui è intrisa l’intera creazione. Il sogno universale di Dio è la comunione. Inizia nell’Eden: “Non è bene che l’uomo sia solo”. E qui vediamo che la solitudine è il primo male del cosmo, anteriore ancora, più originale ancora del peccato originale. Il primo sogno di Dio è la comunione, vittoria sulla solitudine dei due che diventano una carne sola, dei molti che diventano un corpo solo, un solo spirito, come dice così bene la II Preghiera eucaristica.

La nascita di questa parola, comunione, avviene nell’Eden; la riscoperta di questa grande parola avviene con Gesù. In principio a tutto è il legame. Dio non è in se stesso solitudine, ma comunione; il suo infinito oceano di vita vibra di un movimento continuo di relazione. Allora il dogma della Trinità non è un complesso mentale dove cerco di far coincidere l’uno e il tre. Ma dice questo: in principio a tutto c’è il legame. E ci ricorda che un Dio da solo sarebbe triste, senza felicità. E allora anche la felicità dell’uomo, la felicità di questa vita ha sempre a che fare con i nostri legami. La felicità non può mai essere solitaria. Questa è la verità della comunione.

E vorrei indicare, suggerire 5 regole della comunione.

Il primo atteggiamento per rinsaldare il legame è la fede, la fiducia. Non c’è vita umana senza fede. Come sarebbe possibile vivere senza fidarsi di qualcuno? Noi ci umanizziamo attraverso relazioni di fiducia, a partire dai genitori, a partire dalla madre. Come è possibile tracciare una storia d’amore senza avere fiducia nel proprio partner? Come è possibile persino uscire di casa, salire su di un autobus, guidare la propria auto senza la fiducia che tutti seguiranno le regole, da quelle del codice stradale a quelle del vivere civile, e che gli altri a loro volta si fideranno di te. In tutta la vita noi uomini per vivere dobbiamo avere fede, fiducia, credere a qualcuno. Il cammino che ci umanizza è sempre un cammino con gli altri e non si può fare senza gli altri, tantomeno contro l’altro. Il cammino della comunione, delle relazioni più personali e intime, fino a quelle sociali e pubbliche è possibile soltanto nella fiducia. E allora se va in crisi l’atto umano di credere, se va in crisi l’umanità della fede, va in crisi la comunione.

Il secondo degli atteggiamenti con cui si raggiunge la comunione è lo sguardo. Conquistare lo sguardo di Dio: per sei volte all’inizio Dio guarda e dice la Bibbia che per sei volte grida: “Che bello!”. Non uno sguardo giudicante o superficiale: lo sguardo di Dio sulle creature è uno sguardo meravigliato. A questa divina meraviglia anche noi possiamo attingere, a questo sguardo stupito di Dio su tutte le creature, tutto è benedetto.

E poi conquistare lo sguardo di Gesù. Il grande teologo Johann Baptist Metz fa osservare una cosa straordinaria. Dice: “Nel Vangelo il primo sguardo di Gesù non si posa mai sul peccato degli uomini che incontra, il suo primo sguardo si posa sempre sulla povertà degli uomini, per soccorrerla. La comunione non ha bisogno di giudici, ma di samaritani”. Guardare, allora, fino a sapere trovare in ogni volto, anche il più rovinato, abusato, appesantito, la breccia verso l’abisso della persona, verso il tesoro dietro la tenda d’argilla. Ogni creatura, ognuno di noi è una luce custodita dentro un guscio di fango. Aprire in noi l’occhio del cuore, che partecipa allo sguardo di Gesù che si posa per prima cosa sul dolore.

E il terzo atteggiamento è l’ascolto. “Shemà Israel, ascolta Israele”: è l’inizio della legge, la prima preghiera del pio israelita. Il nostro primo servizio da rendere agli uomini è lo stesso che a Dio: l’ascolto. Chi non sa ascoltare il fratello, la sorella, presto non sarà neppure capace di ascoltare Dio, perché anche con Dio sarà sempre lui a parlare come il fariseo nel tempio: “Io faccio, io digiuno, io…” Chi non ha tempo da dedicare all’ascolto, non ha tempo per il mistero. Noi ci crediamo sempre in dovere di offrire qualcosa all’altro, di dargli consigli, idee, buone parole, ma semplicemente ascoltare può essere un servizio molto più grande che parlare. Chi non sa ascoltare parlerà senza veramente toccare il cuore dell’altro.

E come si ascolta? Si può ascoltare in modo impaziente, o distratto, come chi aspetta solo di poter prendere lui la parola, perché è convinto di avere cose più intelligenti da dire. Dio invece è il grande uditore. Dobbiamo ascoltare con l’orecchio di Dio, perché ci sia dato di parlare con la bocca di Dio. E l’ascolto libera l’altro dalla paura segreta, dalla paura paralizzante che a nessuno importi niente della sua vita e dei suoi dolori. Quando io ascolto, io dico all’altro: “Tu sei interessante, la tua vita è interessante, sono contento di stare con te, tu vali”.

C’è nella Bibbia una preghiera che incanta il Signore. Nella notte prima di salire al trono, Salomone, il giovane Salomone, domanda: “Donami un cuore che sappia ascoltare,un cuore docile”. E Dio si sorprende, Dio si meraviglia, resta incantato e dice: “Non hai chiesto né lunga vita, né ricchezza, né la morte dei tuoi nemici. Ed ecco io tutto questo ti do, insieme ad un cuore che ascolta”. Questo è il tesoro, dono immenso, da chiedere sempre per ascoltare Dio e il grido dei poveri, per ascoltare cielo e terra, angeli e parabole, per ascoltare la bellezza del cosmo, la musica delle costellazioni.

E il quarto atteggiamento che crea comunione lo chiamo così: la via della periferia. I primi soggetti della comunione sono necessariamente gli esclusi. E vedete: Gesù entra nel mondo dalla periferia, non dal centro, da Nazareth non dal tempio di Gerusalemme. Entra nel mondo dal punto basso, là dove la vita è più minacciata e fragile. Infatti, con sorpresa notiamo che nel Vangelo il Signore parla più spesso di poveri che di peccatori, si interessa della povertà, più che del peccato. Basta fare solo un’indagine quantitativa delle ricorrenze della parola “peccato o povero. Non è moralista il Vangelo; siamo noi che l’abbiamo ridotto a moralismo. E Gesù a Nazareth nella sinagoga, annunciando i quattro perché della sua venuta fra noi dice: “Sono venuto per annunciare la lieta notizia ai poveri, per proclamare la libertà ai prigionieri, per dare la vista ai ciechi, per mandare in libertà gli oppressi”. Questi sono i quattro perché di Gesù. Adamo è diventato povero, cieco, prigioniero, oppresso e non parla di peccato. Ed è per questo che Dio diventa Adamo: il suo scopo è portare un passo in più, un gradino in più, una speranza in più ai poveri e radunare coloro che vivono nella periferia del mondo, i poveri Lazzari alle porte dei palazzi dei ricchi epuloni, suo scopo è che la storia non generi più poveri, ciechi, oppressi, prigionieri. Il suo obiettivo è un uomo, una donna dalla vita piena, liberi, veggenti, luminosi, amanti.

Lo vediamo nella figura di S. Maria: lei è la donna della periferia; viene dalla Palestina, piccola regione periferica dell’immenso Impero romano. Viene dalla Galilea, una regione ai margini della Palestina, quasi Siria, quasi Libano, quasi pagana. Viene da Nazareth, sconosciuto paese, mai nominato nella Bibbia. È donna, quando i diritti delle donne sono inesistenti. È una giovane ragazza, in un tempo in cui il potere è quasi tutto in mano agli anziani. Probabilmente analfabeta, in una religione della parola scritta. E allora tutti possono riconoscersi in lei, perché nessuno ha meno di lei. È la sorella che è andata avanti e io posso percorrere la sua strada.

Allora ripartiamo ciascuno dalle nostre periferie, dai nostri esclusi, da quella porzione di umanità che noi o altri, poco importa, abbiamo emarginato, da coloro che io non riesco a includere nel paesaggio della mia accoglienza. Dio ci attende là dove noi non vorremmo mai essere. Il segreto della speranza è che Dio entra nel mondo non dal punto alto, ma dal punto basso. E la prospettiva del punto basso, cioè la causa dei poveri, degli ultimi deve essere quella di chi intende costruire comunione autentica.

E il quinto atteggiamento della comunione è il perdono. Grande atto di coraggio, che è come una de-creazione, che significa: il male crea divisione, il perdono de-crea ciò che il male ha creato. Infatti, perché Dio perdona? Qual è il motivo profondo nel piano di Dio per perdonare? Noi diciamo perché è buono, misericordioso, magnanimo, perché non si ricorda del male, ma questo è ben poca cosa. Dio non perdona come uno smemorato, ma come un liberatore. Il Vangelo ci mostra che Dio perdona perché vede che l’uomo non coincide con il suo male. Io non sono i miei peccati. L’uomo con le sue potenzialità di bene, combacia con la sua luce, non con le sue ombre, non con la zizzania, ma con il buon grano del suo campo. Ecco il peccato non rivela mai la verità dell’uomo, il male non è rivelatore, mai!, né della mia identità, né dell’identità di mio fratello; solo il bene, quel pezzetto di Dio in me rivela chi io sono davvero. E Dio perdona, allora, perché vede noi più profondamente, perché ci vede oltre, più in là, nel futuro. Dice alla peccatrice: “Vai e d’ora in avanti non peccare più!”. E vuol dire che il bene è possibile domani, vale di più del peccato presente oggi; il bene possibile conta di più del male reale. Gesù non guarda mai al passato, apre il futuro, guarda il tesoro, non il vaso di argilla. A questo atteggiamento divino dobbiamo attingere, per creare comunione vera ogni volta che sia stata spezzata.

Allora, ecco, la conclusione è questa: nel Vangelo guida di questa notte Gesù dice una frase impressionante: “Sappiano, Padre, che li hai amati, come hai amato me”. Fermiamoci un momento: Dio ama me come ha amato Cristo, con quella stessa intensità, con quella stessa passione, con la medesima speranza e trepidazione, con in più tutte le infinite delusioni che io gli riservo. Ma la rivelazione di Gesù è questa: tu nel cuore del Padre vali quanto Cristo, nel cuore del Padre ognuno è figlio prediletto, Dio preferisce ciascuno, Dio ama me, come ha amato Cristo. Allora, attraverso questo amore anch’io entro nella Trinità. È impressionante: c’è un’equivalenza tra me e Cristo per l’amore del Padre. Lo dico con un bel verso di padre Turoldo:

“Io non sono ancora e mai il Cristo, ma io sono questa infinita possibilità”.

Lo sono, per il Padre e Gesù aggiunge: “Rimanete nel mio amore”. Questa è la preghiera decisiva. Rimanete, restate nell’amore, non è da conquistare la comunione, è già data, dentro si diffonde, ci siamo immersi. La verità è che noi siamo immersi in un mare d’amore e non ce ne accorgiamo. Allora rimani, non fuggire dall’amore, non fuggire nella pastorale, nelle attività, negli impegni, nei telefonini… non fuggire dall’amore, fatti trovare dall’amore. Tutti noi, per diventare pacificati dentro, abbiamo bisogno di essere amati. Se voi trovate delle persone che non sono pacificate, che non sono in pace, è perché non si sentono amate. Solo l’amato può diventare un pacificato. E l’inquietudine che vediamo, l’inquietudine fino alla rivolta è sempre una invocazione di amore. I ribelli sono degli invocanti: invocano di essere riconosciuti, amati, guardati bene. Ecco perché Dio in Gesù è lo sguardo buono, su quelli che noi consideriamo cattivi. Questo è lo scandalo: lo sguardo buono su chi lo uccide, anche se ci può sembrare ingiusto. Gesù dice al Padre: “Scusali, perdonali, non sanno quello che fanno”. E di che cosa hanno bisogno questi? Della pena di morte? No, di un supplemento di amore, e “Io do loro la mia vita”.

La preghiera decisiva: “Rimanete nel mio amore”. Stare fermi, al centro di se stessi, in silenzio e scoprire così l’essenza del cammino spirituale che è crescere, passare dall’essere con Dio all’essere “in” Dio ed esplodere la grande preghiera di Gesù, una piccolissima preposizione, la preposizione “in”: tu in me, io in te, ed essi in noi e il tuo amore in loro ed essi in me. “In”, due lettere soltanto, sigillo della vera comunione. Il cammino spirituale è passare, lo dico in latino perché è più sonoro, dall’ “ad-esse” all’ “in-esse”, dall’essere vicino a Dio di tanto in tanto all’essere in Dio sempre. Non accanto, non vicino, ma dentro, innestati, legati come il raggio al sole, come la scintilla al braciere, come il tralcio alla vite, la creatura in Dio e Dio nella creatura, con lo stesso amore con cui ha amato Cristo. Nonostante tutte le forze che ci trascinano via, ma via non c’è nulla. Questo è il legame di tutti i nostri legami: rimanere, perché siamo già dentro Dio. Dice Paolo: “In lui siamo, in lui ci muoviamo, in lui respiriamo”. Allora, respirare è respirarlo, amare è amarlo. E quando noi chiediamo al Signore: “Donami un cuore puro”, quando gli diciamo nei salmi “Donaci un cuore nuovo”, noi stiamo invocando di potere avere un giorno il cuore di Dio. Un giorno ci sarà dato in dono il cuore stesso di Dio. È straordinario: noi che abbiamo tanto faticato per imparare ad amare, un giorno ameremo con il cuore stesso di Dio, se rimaniamo nel suo amore, se ci restiamo con tutto il cuore.

Notte della città – Sabato 4 settembre 2010

Meditazione di Ermes Ronchi, servo di Maria