Card. Gianfranco Ravasi – La nostra risposta alla chiamata di Dio

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«Ecco: sto alla porta e busso. Se uno ascolta la mia voce e mi spalanca la porta, io entrerò da lui, cenerò con lui e lui con me». Di questo versetto dell’Apocalisse (3,20) un commentatore di quel libro biblico, Pierre Prigent, ha scritto: «Ecco un passo che non si ha voglia di spiegare con i pesanti strumenti dell’analisi storica e letteraria tanto il suo messaggio sembra chiaro e di purissima bellezza». C’è una raffiŒgurazione inglese che presenta Gesù con una lanterna in mano mentre, di notte, sta bussando alla porta di una casa e resta in attesa di una risposta.

Il pensiero può correre a un parallelo antico testamentario, nel Cantico dei Cantici, quando la donna a letto ode la voce del suo amato che è alla porta e smuove il chiavistello chiuso per entrare. Ma per pigrizia non si leva dal giaciglio ove riposa. Più tardi si alza, apre la porta, ma è avvolta solo dalla tenebra della notte, dal silenzio e dal gelo: «Ho aperto al mio amato, ma ormai il mio amato era sparito, scomparso. La mia anima venne meno…» (5,6). Questa coppia di scene bibliche di grande fascino ci sembrano una parabola della vocazione, il tema che stiamo sviluppando in questo anno in cui il Sinodo dei vescovi discuterà sui giovani e sul loro «discernimento vocazionale».

Sappiamo che ogni vocazione a qualsiasi stato di vita comprende un duplice movimento. C’è, da un lato, la chiamata di Dio: è il suo bussare quando forse siamo chiusi nel nostro egoismo o nella nostra solitudine o nelle distrazioni e rumori. D’altro lato, c’è la nostra risposta libera che può essere pronta e festosa, felice di spalancare la porta della propria vita, ma può essere anche indifferente o tardiva. Entrambi i movimenti sono necessari, se egli non bussasse, noi resteremmo chiusi nei nostri spazi, dietro le porte blindate della nostra vicenda umana. Se noi non aprissimo, egli passerebbe oltre e perderemmo l’occasione di dare un senso pieno alla nostra esistenza.

Nella vocazione s’incontrano e s’intrecciano, dunque, due realtà fondamentali nella fede, celebrate da san Paolo nelle sue lettere: grazia divina e libertà umana. Certo, è Dio che si mette per primo alla nostra ricerca sulle strade della storia, come si scopre in tutte le pagine della Bibbia. Paolo, l’apostolo, citando Isaia, si stupisce lui stesso di un fatto sorprendente: «Io – dice il Signore – mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli che non si rivolgevano a me» (Romani 10,20). E proprio lui ne sapeva qualcosa con quanto gli era accaduto sulla via di Damasco.

Abbiamo proposto questa rifl›essione nella settimana di Pasqua. Non solo perché «la sera di quello stesso giorno» il Risorto s’era presentato nel Cenacolo ai suoi discepoli a porte chiuse dando loro la vocazione di perdonare i peccati, come faranno nei secoli i suoi sacerdoti (Giovanni 20,19-23). Ma anche per evocare una suggestiva tradizione giudaica in linea con i due testi dell’Apocalisse e del Cantico. Durante la cena pasquale si deve tenere socchiuso l’uscio di casa perché, se il Messia venisse in quella sera, sarebbe ospite alla mensa. Ma se il Messia non avesse ancora deciso di venire nel mondo, per le strade c’è sempre un povero che potrebbe essere invogliato dalla luce che Œfiltra dalla porta a entrare. E per quella famiglia ebrea sarebbe come accogliere il Messia. Cristo, infatti, dirà: «Tutto quello che fate a uno di questi piccoli, l’avete fatto a me» (Matteo 25,45).

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