Commento al Vangelo del 26 marzo 2017 – Damiano Antonio Rossi

Commento a cura di Damiano Antonio Rossi con la collaborazione delle Suore Adoratrici Perpetue del S.S. Sacramento di Vigevano.

La guarigione di un cieco nato (Gv 9,1-41)

L’episodio del capitolo 9 del IV Vangelo richiama le guarigioni di ciechi trasmesse dalla tradizione sinottica (Mt 20,29-34 = Mc 10,46-52 = Lc 18,35-43; vedi anche le tradizioni singole di Mt 9,27-31; 12,22; Mc 8,22-26) ed il cui scopo è quello evidente di dimostrare che con la venuta di Gesù sono stati inaugurati i tempi messianici.

Ai discepoli di Giovanni Battista, venuti per accertarsi che Egli fosse veramente Colui che era atteso da Israele da secoli, Gesù ha risposto citando il profeta Isaia: “I ciechi vedono…” (Mt 11,5 pp; cf. Is 29,18; 35,5; 42,7). Oltre all’ovvio significato di evidenziare l’avvenuta realizzazione dell’era messianica, l’evento prodigioso narrato in questa pericope giovannea assume un grande valore simbolico: il miracolato è figura del credente illuminato dalla fede. Nella Chiesa primitiva i neofiti, cioè quelli che avevano abbandonato le credenze pagane o che avevano aderito alla fede nel Signore Gesù, provenendo anche dall’ebraismo, venivano chiamati “illuminati” (cf. At 26,16-18; 1Ts 5,5; Ef 5,8-14; Eb 6,4; 1Pt 2,9) perché avevano ricevuto la luce della fede nel Figlio di Dio incarnato, morto e risorto per la salvezza degli uomini.

L’episodio narrato da Giovanni presenta analogie, ma anche sostanziali differenze, con il racconto di Mc 8,22-26. Nella pericope marciana, la guarigione del cieco non è istantanea, ma si compie con un procedimento in cui Gesù interviene in due riprese; inoltre, la guarigione è preceduta da un rimprovero che Gesù rivolge ai suoi discepoli perché stentano a credere in Lui (8,17) e, dopo il miracolo, essa è seguita dalla loro confessione di fede nel Maestro, riconosciuto come Messia. Nel racconto giovanneo, la simbolica dell’illuminazione assume tutto il suo rilievo perché il miracolato è cieco dalla nascita, situazione senza paralleli nella tradizione sinottica. Più che un atto di potenza (dýnamis), teso a realizzare l’annuncio profetico, il dono della vista al cieco nato è presentato come un segno (seméion) della presenza nel mondo di Colui che afferma di essere la “luce del mondo” (9,5). La simbolica della luce, però, funziona anche in senso opposto giacché i farisei, noti per esseri dotti e saggi, capaci di “vederci chiaro” nelle Sacre Scritture, posti di fronte al miracolo negano il “segno” e diventano “ciechi”, vale a dire incapaci d’avere fede.

Venendo nel mondo, la Luce illumina o abbaglia, secondo le disposizioni soggettive di ogni essere umano ed in tal modo l’evangelista spiega il mistero del rifiuto della Verità da parte di alcuni e la sua accettazione da parte di altri.

Il racconto è inquadrato da due parole di Gesù, riguardanti il significato della sua missione (9,3-5 e 9,39): la prima la definisce come opera di rivelazione, la seconda la collega al “giudizio”.

L’episodio della guarigione del cieco nato presenta diverse analogie con quello della guarigione del malato di Bethesda (Gv 5). La struttura del racconto è in entrambi i casi tripartita: l’episodio del miracolo è seguito da una controversia tra il protagonista ed i giudei e, poi, tra questi ultimi e Gesù prima che sia sviluppato il discorso di rivelazione. Entrambi i segni, il camminare ed il vedere, hanno il precipuo scopo di evidenziare la trasformazione della condizione umana operata da Gesù in modo del tutto gratuito e violando apertamente la sacralità dell’istituto del sabato (cf. 5,9 e 9,14), il che provoca l’aperta ostilità delle autorità giudaiche. A loro parere, chi agisce contrariamente alle norme stabilite dalla Legge che YHWH ha dato a Mosè, non può “venire” da Dio. Da un punto di vista squisitamente narrativo, è Gesù che prende l’iniziativa della guarigione miracolosa in entrambi i casi dopo aver “visto” e constatato la miseria dell’uomo e, dopo la stizzita reazione dei giudei di fronte all’evidenza del miracolo avvenuto, tanto da prendersela in modo piuttosto meschino e puerile con gli stessi miracolati, che nulla possono fare se non prendere atto della guarigione ricevuta in dono da quell’uomo misterioso e buono, Gesù incontra una seconda volta il miracolato per impegnarlo spiritualmente e psicologicamente, orientandolo verso una decisa scelta di fede. Se le somiglianze tra i due racconti sono evidenti, sono altrettanto notevoli le differenze. Nel capitolo 5 la simbolica della vita, suggerita dalla guarigione di un infermo, viene evidenziata solamente attraverso un discorso; nel capitolo 9 la simbolica della luce è già presente nel dialogo iniziale tra Gesù ed i suoi discepoli, per poi incarnarsi nel cieco nato che torna a vedere e ricomparendo nell’opposizione “vedere/non vedere” dei versetti finali (9,39-41). Il discorso successivo può incentrarsi su una nuova metafora, quella del pastore che raduna le pecore (c. 10).

La differenza più evidente tra i due racconti riguarda il comportamento dei due protagonisti. L’infermo di Bethesda conserva un basso profilo morale e, interpretando l’invito rivoltogli da Gesù a cambiare vita per evitare che gli capiti di peggio come una minaccia nemmeno tanto velata, si propone come un testimone piuttosto tiepido o titubante del gran dono ricevuto e del benefattore che lo ha guarito. Al contrario, l’ex-cieco diventa un vero testimone di Gesù di fronte agli sfrontati ed arroganti farisei, esibendo coraggio, senso dell’umorismo sorretto da una logica stringente e, dopo che Gesù gli si è rivelato come il Figlio dell’Uomo, proclama senza riserve la sua fede in Lui. Dal principio alla fine egli conserva un atteggiamento positivo e contribuisce attivamente alla propria guarigione obbedendo, prima di tutto, all’ordine di recarsi alla piscina di Sìloe con gli occhi coperti di fango, poi sostenendo senza tentennamenti la prova di un interrogatorio gravido di minacce e d’insulti da parte dei farisei e, quindi, accettando senza riserve il mistero che gli si è manifestato. L’impegno da parte dell’uomo si intreccia efficacemente con la sovrana efficacia della Luce, la quale dà senso e consistenza alla collaborazione della sua creatura.

La controversia sul sabato collega temporalmente l’episodio della guarigione del cieco nato all’epoca in cui Gesù svolse la sua missione, ma il racconto contiene un elemento narrativo anacronistico riconducibile all’epoca in cui l’evangelista compose o dettò il suo Vangelo, ossia verso la fine del primo secolo dell’era cristiana: si tratta della sentenza d’esclusione dalla sinagoga del miracolato (9,22) qualora si ostinasse a dichiarare che Gesù, Colui che lo ha guarito, è il Cristo (tipica formula del linguaggio ecclesiale riportata da Paolo in Rm 10,9). In realtà, la messa al bando dalla società giudaica fu decretata dai farisei verso l’anno 90 d.C. a Jamnia, in occasione di un raduno delle autorità religiose di ciò che rimaneva del popolo ebraico dopo il disastro della distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio (70 d.C.) e fu decisa per dare un taglio netto con gli “eretici” cristiani, colpevoli di diffondere la fede nientemeno che nel Figlio dell’Altissimo (una bestemmia davanti alla quale era considerato un gesto pio turarsi le orecchie), miseramente finito su una croce (altro scandalo inaudito) e, con palesi bugie che erano reiterate ormai da più di mezzo secolo, dichiarato nientemeno che “risorto”. Se prima di allora tra giudei ortodossi e giudei cristiani non era corso buon sangue e si erano alternati periodi di tregua ad altri di aperta ostilità, dal concilio di Jamnia in poi le due realtà religiose, scaturite da un’unica esperienza di fede nel Dio unico, si separarono definitivamente non senza scagliarsi reciproci anatemi con relativi improperi ed insulti, che sono riecheggiati per secoli e secoli nel corso della storia. Oggi gli studiosi si mostrano più riservati sulla reale portata del “concilio di Jamnia” e su chi sia realmente preso di mira nella famosa XII Benedizione contro gli eretici (birkât-ha-minîm), termine che non necessariamente designerebbe solo i cristiani; sul versante cristiano, poi, è solo dall’epoca del Concilio Vaticano II che non si prega più per i “perfidi” giudei, accusati del delitto di “deicidio”, durante la preghiera universale del Venerdì Santo, ma s’implora il perdono e la benedizione divina sia sui cristiani sia sui “fratelli ebrei”.

Leggendo la pericope del cieco nato, il lettore è invitato a prendere posizione nei confronti di Cristo identificandosi con i personaggi del racconto: o esprime la propria fede nel “Figlio di Dio”, come ha fatto il cieco guarito ed aperto alla Parola, o rifiuta di credere come hanno deciso i farisei, bloccati nel loro sapere acquisito.

9,1 Passando vide un uomo cieco dalla nascita 2 e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. 3 Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. 4 Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può operare. 5 Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo”.

L’episodio si colloca nel contesto della festa delle Tende e l’avvenimento accade in giorno di sabato (9,14). Uscendo dal Tempio, lo sguardo di Gesù si sofferma su un uomo la cui disgrazia totale è la cecità, che lo affligge dalla nascita. Tale sciagurata situazione, evidentemente già nota ai discepoli, non è un particolare casuale nella descrizione che ne fa l’evangelista: la radicalità della malattia ne sottolinea il valore simbolico e rende il miracolo ancor più eccezionale nella stima dei testimoni e dei lettori. La guarigione, operata da Gesù, è preparata da un dialogo tra i discepoli ed il loro Maestro, il cui scopo è quello di precisare il motivo del suo intervento.

Passando, vide un uomo cieco dalla nascita. Tra Dio e l’uomo esiste da sempre un rapporto interpersonale dinamico ed esistenziale; dalla nascita, cioè dal momento della sua primitiva esistenza sul pianeta Terra, l’essere umano è “cieco”, ossia limitato, provvisorio, fragile, soggetto al male fisico e spirituale e destinato alla dissoluzione fisica attraverso la morte. La consapevolezza di questa sua provvisorietà temporale e fragilità psico-fisica, rende l’uomo inquieto, insoddisfatto e sempre teso alla ricerca della piena realizzazione dei suoi sogni e dei suoi desideri, di cui la felicità perenne e senza incrinature e l’immortalità sono i confini estremi ed umanamente irrealizzabili, almeno nell’ambito dell’esistenza terrena fisicamente sperimentabile. Il potere, il successo, la salute, la notorietà e l’autostima sono le inevitabili proiezioni psicologiche del positivo bisogno interiore dell’uomo di sfuggire alla distruzione radicale del proprio essere. Dio non è indifferente alle aspirazioni più intime e profonde della sua creatura ed il suo interesse per l’uomo viene espresso da un verbo d’azione: Egli passa ed incontra gli esseri umani lungo i sentieri, spesso oscuri, tortuosi ed insidiosi della loro storia ma essi “non lo vedono” a causa della loro cecità, pur potendone avvertire la “Presenza” se solo riuscissero a “fare silenzio” dentro loro stessi (1Re 19,11-13), mettendosi in ascolto della sua Parola, che il più delle volte è solo sussurrata. È nei piani e nei desideri di Dio guarire l’uomo dalla sua cecità e salvarlo da una volontaria e sconsiderata auto-distruzione senza agire in modo arbitrario, bensì sollecitando la sua collaborazione (affermava s. Agostino che “Colui che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te”).

I discepoli sollevano il problema della presenza del male e della sofferenza nel mondo e sollecitano un chiarimento al loro rabbì. Secondo un’opinione ereditata dalla loro cultura, il benessere materiale, la salute e la lunga durata della vita, erano considerati la giusta retribuzione divina per coloro che si comportavano in modo onesto e pio; al contrario, Dio colpiva gli ingiusti e gli iniqui con la malattia e con ogni sorta di sciagura. Tale credenza era giustificata dalla convinzione che la vita nell’oltretomba fosse limitata ad un’esistenza indifferenziata, larvale, uguale per buoni e cattivi, vaganti come ombre nelle oscurità del “mondo sotterraneo” (detto sheòl). Per salvaguardare la giustizia divina, era quindi necessario che la retribuzione delle azioni umane, buone o cattive che fossero, avvenisse su questa terra e che si concretasse con la felicità per i giusti e con l’infelicità e la disgrazia per gli ingiusti. L’esperienza della vita d’ogni giorno, però, dimostrava che non sempre avveniva proprio così, sicché sembrava ovvio che una sventura individuale o collettiva dipendesse da qualche colpa o peccato anteriore, personale o familiare. Il male doveva scaturire necessariamente dal male, come il bene dal bene (cf. Es 20,5; Nm 14,18; Dt 5,9; Tb 3,3ss). L’esempio di Giobbe forniva una diversa chiave di lettura per spiegare l’esistenza del male chiaramente non collegabile ad una vita moralmente deviata, attribuendo ad un misterioso personaggio, il satàn (letteralmente, l’avversario o l’accusatore) l’iniziativa, permessa da Dio, di mettere alla prova la fedeltà dell’uomo alle leggi divine attraverso gli ostacoli della vita (cf Gb 1,11). Gli amici di Giobbe, al fine di giustificare le azioni di YHWH, avevano attribuito le sventure di questo giusto alla punizione di qualche colpa segreta, ma Giobbe continuava a respingere una simile concezione di Dio e, invece di cercare una spiegazione razionale alle sue sventure, aveva preferito immergersi silenziosamente nel mistero di Colui che è fedele e sa esserlo sino in fondo (Gb 42), tanto da premiare il suo servo fedele restituendogli, moltiplicato in modo spropositato, ogni bene di cui lo aveva privato. Anche se i profeti si erano opposti ad un mera interpretazione punitiva dell’esistenza della sofferenza (cf. Ger 31,29ss; Ez 18), evidentemente i discepoli si fanno interpreti dell’opinione corrente, secondo cui la responsabilità del peccato si trasmetteva dai padri ai figli. Secondo tale opinione, era inevitabile che non potesse esistere sofferenza senza colpevolezza (cf. Sal 89,33) ed anche i farisei sosterranno tra breve (9,34) tale punto di vista. Gesù fornisce un diverso approccio interpretativo del male che affligge ed angustia gli esseri umani, rifiutandosi di giudicare colpevoli sia le vittime della crudeltà di Pilato o del crollo della torre di Sìloe (Lc 13,1-5) che il povero ed incolpevole sventurato che gli sta di fronte, il cui unico torto, socialmente rilevante, è quello di essere nato cieco.

Né lui ha peccato né i suoi genitori. Gesù sta preparando i suoi discepoli, dal punto di vista psicologico e spirituale, ad accogliere ed accettare la dimensione redentrice del dolore, in vista della quale opera un passaggio fondamentale: il cieco nato si trova in questa situazione di sofferenza affinché in lui si manifestino le opere di Dio. Gesù non spiega l’origine della sofferenza innocente né afferma che quest’uomo è cieco per permettere a Dio di manifestare la sua potenza, ma prende atto della sua situazione di dolore, cui sta per porre fine manifestando così al mondo il modo di agire generoso e gratuito di Dio.

Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato. I migliori manoscritti antichi (come la versione detta vulgata oppure la vetus latina, la versione siriaca ed altre) riferiscono al solo Gesù il compito di agire in nome e per conto del Padre, mentre il codice B, il codice S ed altre testimonianze scritte autorevoli associano a quella di Gesù anche l’azione dei suoi discepoli e, per riflesso, delle comunità cristiane da loro fondate durante la loro esperienza missionaria. In tal modo, pure la comunità guidata dall’evangelista ed apostolo Giovanni si sente coinvolta nella trasmissione, nella ripresentazione e riattualizzazione dell’agire salvifico di Cristo, storicamente compiutosi durante la sua vita terrena (“finché è giorno”) e conclusosi con la sua morte (“poi viene la notte”). La breve durata storica della missione pubblica di Gesù, paragonabile ad una giornata di lavoro (cf. 5,17), rende urgente la sua azione salvifica, al punto da rendere secondaria l’importanza del sabato e da giustificarne la trasgressione volontaria. Fintanto che Gesù è presente fisicamente tra gli uomini, la luce di Dio, irradiata dal Figlio, brilla nel mondo in tutto il suo splendore e mostra in pieno la sua efficacia salvifica. Dichiarando di essere la “luce del mondo”, Gesù anticipa il senso del miracolo ed orienta l’attenzione verso ciò che è tenebra.

In questo preciso contesto narrativo, la tenebra non va identificata con il peccato inteso come scelta di volontaria e radicale opposizione a Dio ed alle sue leggi; infatti, l’uomo del racconto è cieco dalla nascita, ma la sua cecità non scaturisce da una situazione di peccato, sia pure imputabile ai suoi genitori (“né lui ha peccato, né i suoi genitori”). La tenebra, che è qui sottintesa e simboleggiata dalla cecità congenita di un uomo sfortunato, cui il destino ha riservato giorni amari e bui nel senso più letterale del termine, richiama l’esistenza di una tenebra originaria nella quale ogni uomo si trova prima di essere illuminato dalla rivelazione del Figlio. Già nel Prologo l’evangelista aveva definito il Lògos (= verbo, parola, progetto, discorso) di Dio come la luce che brilla nella tenebra (1,5), per cui, presentando il cieco nato, sembra proprio fare riferimento a questo genere di oscurità esistenziale, che può essere dissipata solo quando la Luce di Dio si incontra con l’uomo nel corso della sua storia personale e collettiva. Forse è questo il motivo per cui il cieco nato del racconto, pur essendo un mendicante bisognoso di aiuto, non formula alcuna preghiera, non potendo domandare ciò che ignora. Acquistando miracolosamente la vista per intervento di Gesù, Luce che illumina ogni uomo (1,4), egli non recupera un bene già posseduto e poi perso per colpa propria, ma rinasce ad una nuova esistenza e ad una vita di relazione mai immaginata. Per lui esistevano, prima del miracolo, rapporti umani mediati dai suoni, dagli odori e dal contatto fisico, sicché la sua vita sociale si svolgeva entro ambiti piuttosto limitati; grazie alla vista, invece, il suo orizzonte esistenziale si amplia a dismisura e si arricchisce d’elementi dialogico-relazionali col mondo circostante straordinariamente ricchi e complessi. Col dono della vista, il miracolato diventa un uomo nuovo, pronto a collaborare attivamente e consapevolmente al progetto di salvezza di Colui che lo ha “illuminato” nel profondo del cuore e della mente. Si tratta, in altre parole, di una vera e propria “rinascita dall’alto” (cf. 3,3).

Poco dopo, durante il dibattito che avverrà tra Gesù ed i farisei, la cecità riacquisterà il significato metaforico tipico dell’Antico Testamento e sarà associata alla perdita volontaria della vista come conseguenza del peccato di rifiuto di Cristo e del suo Vangelo di salvezza (cf. Is 6,9ss; Ger 5,21; Ez 12,2; Gv 9,39; 12,40).

Il protagonista del racconto è un uomo religioso, la cui vita è illuminata dalla Legge giudaica e che mai e poi mai si sognerebbe di accusare Dio di averlo fatto nascere gravemente menomato. Grazie alla sua fiducia nella Legge, egli riconoscerà che Gesù viene da Dio (9,30ss), di cui realizza le promesse in modo inatteso e con sovrabbondanza di grazia e di bontà.

6 Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco 7 e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.

La procedura seguita da Gesù per compiere il miracolo è alquanto sorprendente. La saliva era ritenuta un valido rimedio per le malattie degli occhi39, ma nel racconto giovanneo non è la saliva che opera direttamente la guarigione, bensì è il mezzo utilizzato da Gesù per fare un po’ di fango, con cui spalmare gli occhi del cieco. Secondo il parere dei più, l’uso del fango da parte di Gesù aveva come obiettivo l’infrazione dell’istituto umano del sabato, (39 Plinio, Nat 28,7; Tacito, Hist IV, 8l) come sarà denunciato dai farisei nel seguito del racconto, mentre, secondo altri, mettendo del fango sugli occhi di un cieco Gesù avrebbe simbolicamente aggravato la sua già grave infermità per rendere ancora più impegnativa la sua guarigione sul piano personale ed esistenziale. S. Ireneo, vescovo di Lione verso la fine del II secolo d. C., riteneva invece che il gesto di Gesù fosse da accostare all’atto con cui, secondo il testo della Genesi (2,7), Dio ha formato l’uomo e nella guarigione del cieco nato aveva individuato il perfetto compimento della primitiva creazione, da cui, a suo modo di vedere, aveva avuto origine l’essere perfetto identificabile col credente in Cristo.40 Il fango della nuova creazione si collegherebbe allora all’acqua del battesimo, di cui la saliva di Gesù o l’acqua della piscina di Sìloe sarebbero l’immagine. Le due fasi del miracolo fanno pensare ad altri riferimenti biblici: alcuni salmi, ispirandosi evidentemente all’esperienza del profeta Geremia (cf. Ger 38,6), presentano la situazione dell’uomo che affonda nel fango (pelòs) e rilevano che da tale imbarazzante situazione l’uomo non può salvarsi con le sole proprie forze, nonostante tutti gli sforzi compiuti per liberarsi dagli impacci della miseria morale e spirituale, in cui si trova consapevolmente invischiato (Sal 69,3.15; 40,3). Col suo gesto, Gesù intenderebbe ribadire che l’uomo è prigioniero delle tenebre del male; impartendo al cieco l’ordine di andare alla piscina di Sìloe, cioè l’Inviato che è Lui stesso, Gesù rende evidente la sua missione di liberazione dell’umanità da queste tenebre di carattere esistenziale. Solo a Sìloe il fango cade dagli occhi del cieco nato ed egli riceve in dono la vista; la cura dei malati con il fango, seguita da abluzioni, è testimoniata nel santuario pagano di Pergamo nella prima metà del II secolo d.C., quindi l’evangelista Giovanni avrebbe inteso, proponendo ai suoi lettori l’episodio della guarigione del cieco nato, contrapporre Gesù, il vero Salvatore, ad Asclepio, il dio medico. Quest’ipotesi avvalorerebbe la tesi di coloro che sostengono che il IV Vangelo sia stato scritto in Asia Minore, l’attuale Turchia.41 Sìloe è l’unico luogo menzionato nel racconto. L’ordine di Gesù richiama quello che il profeta Eliseo aveva impartito a Naaman il Siro, di andare ad immergersi sette volte nel fiume Giordano per guarire dalla lebbra (cf. 2Re 5); Naaman si era mostrato reticente, mentre il cieco nato obbedisce prontamente alla parola di Gesù, fidandosi “ciecamente” di Lui (è proprio il caso di dirlo!). La piscina di Sìloe si trovava a sud-ovest della città vecchia, proprio allo sbocco di un tunnel che re Ezechia aveva fatto costruire verso il 704 a.C. per portare le acque del torrente Gichon all’interno di Gerusalemme (cf. 1Re 1,33; 2Re 20,20; Ireneo, Adversus Haereses V, 15,2-3. H. Rengstorf, Grande Lessico del Nuovo Testamento X, 177-178. 2Cr 32,30; Sir 48,17). 42 Secondo il rito della festa delle Tende o Capanne, che aveva un significato messianico, una processione solenne si recava ad attingere acqua alla piscina di Sìloe, che era l’unico serbatoio idrico della città; in tal modo si onorava la dinastia davidica, di cui tale piscina era divenuta un simbolo, allorquando il profeta Isaia aveva rimproverato al popolo di disprezzare queste “acque che scorrono placidamente” (Is 8,6). Questi dati biblici servono all’evangelista quale collegamento storico tra Sìloe e l’Inviato, giustificando il compimento della tradizione ebraica nella persona di Cristo: il termine ebraico infinitivo qal ha, in primo luogo, un senso attivo ed indica la conduttura, il canale (che invia acqua) ma può essere letto anche al passivo col significato di “essere inviato”. Il narratore sintetizza l’evento prodigioso della guarigione del cieco nato con poche e sobrie parole: “quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva”. Persino la dinamica del miracolo passa quasi sotto silenzio pur essendo circoscritta da ben tre verbi d’azione, i quali ottemperano, da una parte, ad un ordine che non ammette né discussioni né tentennamenti e, dall’altra, ad un’esplicita volontà di obbedire: chi compie la volontà di Dio nell’ordinaria quotidianità della propria esistenza non deve necessariamente fare uso della grancassa ed attirare su di sé l’attenzione del prossimo ad ogni costo e, dal canto suo, Dio non interviene quasi mai nella storia dell’uomo con troppo clamore. L’agire di Dio è silenzioso, discreto e rispettoso della libera volontà dell’uomo.

8 Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: “Non è egli quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?”. 9 Alcuni dicevano: “ E’ lui”; altri dicevano: “No, ma gli assomiglia”. Ed egli diceva: “Sono io!”. 10 Allora gli chiesero: “Come dunque ti furono aperti gli occhi?”. 11 Egli rispose: “Quell’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: «Va’ a Sìloe e lavati!». Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista”. 12 Gli dissero: “Dov’è questo tale?”. Rispose: “Non lo so”.

La constatazione del miracolo avviene in un clima di evidente stupore, incredulità e costernazione da parte di persone estranee all’avvenimento e che, loro malgrado, sono costrette a prendere atto dell’avvenuto prodigio. Pare di sentire i commenti della gente, evidentemente abituata da qualche tempo a vedere quel cieco nato mentre chiedeva l’elemosina nelle piazze ed agli angoli delle strade della città, soprattutto durante i giorni di festa, quando c’erano tanti pellegrini che affluivano verso il Tempio di Salomone, molti dei quali ben disposti a fare l’elemosina ai tanti sventurati, veri o fasulli, situati nei punti strategici della città. È soprattutto la gente del posto che, incontrando il miracolato, non crede ai propri occhi e manifesta opinioni contrastanti. Il richiamo al passato (“era un mendicante… stava seduto a chiedere l’elemosina”) dà rilievo al cambiamento che è avvenuto in quell’uomo. “E’ lui… no, non è lui, però gli somiglia…”. Tocca al miracolato dare un taglio alle supposizioni con un deciso e perentorio “sono io”, grazie al quale egli conferma la propria identità quasi con soddisfatto orgoglio: sono proprio io il destinatario di una grazia così grande ed inaspettata, sono proprio io quello che avete compatito fino a pochi istanti fa, io che vi chiedevo qualche spicciolo d’elemosina e che stavo zitto quando sussurravate i vostri maliziosi commenti sulla mia disgrazia… ero cieco, mica sordo e nemmeno scemo! E adesso, eccomi qua! Ci vedo come voi, anzi, ci vedo meglio di tanti voi, grazie a Gesù. Già, ma Lui dov’è?

Il cieco guarito comincia a subire i primi inconvenienti della sua vita di miracolato: “Come ti furono aperti gli occhi?”. Il poveruomo capisce subito che non lo lasceranno stare in pace tanto facilmente, perché Gesù ha compiuto un’azione certamente giusta ma nel momento e nel modo sbagliati: ha guarito un uomo in giorno di sabato facendo del fango e mettendoglielo sugli occhi! Quella domanda gli è ripetuta fino alla nausea (9,10.15.16.19.21.26) quasi volessero farlo sentire in colpa per essere stato guarito da una grave menomazione, che si portava dietro dalla nascita! L’ex cieco si rende conto che le autorità religiose giudaiche gli imputano, quasi fosse un crimine, la responsabilità di essere un testimone diretto delle qualità taumaturgiche di un Uomo temuto ed odiato e comprende che chi sta dalla parte di Gesù rischia grosso. Ciononostante, egli non teme di schierarsi a favore di Gesù e di rendergli testimonianza, anche a costo di farsi emarginare dalla società ebraica (“lo cacciarono fuori”, 9,34) e di farsi insultare (9,28).

Per indicare il recupero della vista da parte del cieco nato, l’evangelista usa il verbo greco anablépo (9,11.15.18), che significa “alzare gli occhi verso qualcuno o qualcosa”, quasi a voler sottolineare una predisposizione del cieco ad avere fede in Gesù. Al termine del racconto, quando Gesù incontra nuovamente il cieco ormai guarito ma espulso dal consesso religioso ebraico e ricusato persino dai suoi genitori, l’evangelista esprime la fede piena e perfetta del miracolato nel Figlio dell’uomo, che lo ha guarito, usando il verbo orào (9,37), che significa “vedere con cognizione di causa, guardare in profondità andando oltre le apparenze, credere”. Per passare da una buona disponibilità a credere alla fede piena, l’ex cieco deve affrontare una dura prova: respinto dagli uomini, egli è pronto ad essere accolto dalle amorevoli braccia del Figlio di Dio.

Autocertificando la propria identità con l’espressione “sono io”, che l’evangelista mette sulla sola bocca di Gesù come formula di rivelazione della propria identità divina, il cieco guarito dalla sua infermità ed illuminato da Cristo confermerebbe ai presenti, che lo interrogano, di essere quasi un tutt’uno con colui che lo ha guarito e del quale, d’ora in poi, sarà il testimone più veritiero e credibile grazie alla vista recuperata in modo così prodigioso ed evidente a tutti. Dov’è questo tale?, incalzano i presenti. Non lo so, risponde il miracolato, ancora disorientato dall’accaduto. Egli conosce Gesù solo di nome e certamente, come avviene per tutti i non vedenti di questo mondo, la sua voce gli è rimasta impressa nella mente e sicuramente saprebbe riconoscerla fra mille e mille altre voci. Ancora “non sa” chi è Gesù, anche se ha già intuito, dal nome che porta (YEÒSHUA, Dio salva), di essere stato beneficato dal “Salvatore” (v. 11): quell’uomo, che si chiama Gesù… ha fatto… mi ha spalmato… mi ha detto. Il buonuomo ha indicato alla curiosità della gente il suo benefattore chiamandolo per nome e specificandone le azioni “salvifiche”, ma per la gente il taumaturgo rimane un perfetto sconosciuto: dov’è questo tale? In greco la domanda della gente, che brilla per ottusità e si distingue per l’anonimato, suona ancora più cruda e scostante: dov’è quello? La gente diffidente e senza volto di Gerusalemme (“i vicini e quelli che lo avevano visto prima…”) prende le distanze da un uomo che infrange la sacralità del sabato e nemmeno vuole conoscere il suo “nome”, la sua identità, ma vuole solo sapere dove si trova per denunciarlo alle autorità religiose. Chi viola il sabato merita di morire! L’ex cieco intuisce le intenzioni di coloro che lo interrogano e si esprime con un lapidario “non so”, che stride con la loquacità mostrata poco prima nel comunicare a tutti la gioia per una vista recuperata in modo così insperato. Il seguito del racconto dimostrerà che il miracolato non avrà alcun timore di “sapere” chi è e dove si trova Gesù, non avrà paura di manifestare la sua fede nel Figlio dell’uomo e saprà pagarne le conseguenze estreme: il dono della fede, cioè della “vista”, rende accettabile l’ostilità di chi rifiuta di credere e di “vedere” (9,40-41).

13 Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco: 14 era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. 15 Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Ed egli disse loro: “Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo”. 16 Allora alcuni dei farisei dicevano: “Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato”. Altri dicevano: “Come può un peccatore compiere tali prodigi?”. E c’era dissenso tra loro. 17 Allora dissero di nuovo al cieco: “Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”. Egli rispose: “E’ un profeta!”.

La prodigiosa guarigione di un cieco nato, anche se avvenuta in giorno di sabato, non è un evento comune e una volta costatato che, in effetti, l’evento si è verificato, ai più pare opportuno accompagnare il miracolato dai responsabili della sinagoga, gli unici autorizzati a pronunciarsi sulle implicazioni teologiche e religiose del miracolo. In effetti, i farisei che compongono in maggioranza anche il Sinedrio, il tribunale amministrativo e religioso della nazione giudaica, procedono con cautela e con metodo nei confronti dell’ex cieco, interrogandolo ben due volte (9,13-17.24-34) e convocando persino i suoi genitori. Davanti alla testimonianza resa dal miracolato, i farisei vanno in crisi e manifestano opinioni contrastanti. La loro difficoltà nel comprendere il miracolo ed il modo in cui è avvenuto è reale e comprensibile. Secondo la Legge (Dt 13,1-6), chi compie prodigi incitando il popolo a disprezzare la legge divina deve essere condannato; nel caso in questione, l’infrazione del sabato può squalificare il taumaturgo ed esporlo ai rigori della legge, che è stata palesemente violata. Ma chi sono questi onnipresenti “farisei”, che l’evangelista ripetutamente presenta come i nemici più accaniti di Gesù, fatte le debite eccezioni come Nicodemo?

I farisei, il cui nome significa letteralmente “separati, divisi”, erano in realtà dei laici che, sin dall’epoca dei Maccabei (166/37 a.C.) si erano opposti con tutte le loro forze alla diffusione della cultura greca (ellenizzazione) in Giudea da parte delle forze di occupazione straniere in collaborazione con diversi elementi di spicco della popolazione ebraica, accusati di collaborazionismo. Il loro scopo era di realizzare l’ideale di santità, che Dio aveva richiesto ad Israele, attraverso la scrupolosa osservanza della Legge, della quale erano esperti e profondi conoscitori e di cui erano ascoltati ed apprezzati insegnanti presso il popolo. Dai sadducei, loro acerrimi avversari sul piano religioso e politico, essi erano considerati come coloro che vivevano “separati” da tutto ciò che era legalmente impuro.

A differenza dei sadducei, i quali costituivano il partito politico religioso dell’aristocrazia sacerdotale, erano amanti della cultura e simpatizzanti del progresso culturale delle altre nazioni, disdegnavano il contatto con il popolo ed erano politicamente compromessi coi dominatori di turno, i farisei amavano invece stare con la gente comune, alla quale insegnavano i precetti della Legge e, forti della loro conoscenza della tradizione orale, davano utili consigli per rendere praticabili nella vita quotidiana le esigenze della Legge stessa. Sul piano strettamente religioso, farisei e sadducei erano agli antipodi. Estremamente fatalisti e sostanzialmente materialisti, i sadducei accettavano solo le norme legali e cultuali presenti nella Torâh, cioè la Legge scritta, rifiutavano la tradizione orale e respingevano le innovazioni farisaiche, affermavano che nulla dipende da Dio, negavano la futura resurrezione dei morti e l’esistenza degli angeli, applicavano rigorosamente la legge del taglione.

Dal canto loro, i farisei erano assai rispettosi dell’essere umano tanto che lo scrittore Giuseppe Flavio lodava la loro austerità e cortesia, sottolineava la loro benevolenza nel giudicare il prossimo e li elogiava per il loro abbandono alla divina provvidenza, ma erano degli esagerati osservanti della Legge e della tradizione, specie per quanto concerneva il riposo del sabato, la purezza legale e le decime. Essi erano così scrupolosi nell’osservanza formale delle norme legali, da rasentare la paranoia.

Gesù non aveva alcun pregiudizio nei loro confronti e con molti di loro aveva intrattenuto anche delle relazioni positive. Spesso era stato invitato alla loro tavola, con Nicodemo aveva avuto un rispettoso colloquio nel cuore della notte, da alcuni di loro era stato avvisato che Erode lo stava cercando certamente non per un amabile scambio d’opinioni (Lc 13,31). D’altra parte, Gesù non si era mai espresso in modo sfavorevole nei confronti di un uomo solo per la sua appartenenza pura e semplice a questo od a quel gruppo sociale o politico o religioso: per Gesù veniva, prima di tutto, l’uomo con le sue virtù e le sue debolezze. Ciò che Gesù mal digeriva di molti farisei era la loro arroganza, la vanità e l’ipocrisia. A molti di loro rinfacciava la mancanza di senso della giustizia, di misericordia, di coerenza e d’umanità, nonché l’incapacità di accogliere la novità del suo Annuncio. Or dunque, le persone semplici del popolo sono incapaci di dare una spiegazione al miracolo e si affidano al giudizio di coloro che sono considerati i massimi esperti in materia religiosa.

Solo a questo punto (9,14) Giovanni informa il lettore che il miracolo è avvenuto in giorno di sabato, dando così una spiegazione dell’aspra discussione che divampa fra gli stessi farisei, alcuni dei quali squalificano ipso facto l’operato di Gesù come prodotto del maligno (“… quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato”) mentre altri, più cauti, lasciano spazio almeno a qualche ombra di dubbio e d’incertezza circa la reale provenienza di Gesù (“… come può un peccatore compiere tali prodigi?”). Ai fini di un giudizio finale, che sia coerente con i principi legali contenuti nella Legge, i farisei si fanno spiegare per filo e per segno dal miracolato come ha fatto Gesù a guarirlo dalla sua cecità. È evidente che a nessuno di loro venga in mente di contestare il prodigio in sé; troppi testimoni conoscono il cieco nato e sono in grado di attestare l’avvenuta guarigione. Ciò che conta è delegittimare l’operato di Gesù trovando il modo di affermare, senza alcuna ombra di dubbio, che Egli non “viene da Dio” perché non si comporta come un “uomo di Dio”. Il fatto che Gesù abbia impastato del fango e lo abbia messo sulle palpebre del cieco aggrava la sua posizione dal punto di vista strettamente giuridico, perché l’azione dell’impasto era una delle attività specificamente vietate durante la festività del sabato, il che rendeva illegittimo anche il risultato, seppure prodigioso, di tale azione.

Le domande dei farisei all’uomo risanato sono presentate come un vero interrogatorio. Pare logico aspettarsi che il racconto del miracolato, incalzato dalle domande dei farisei, sia stato ben più particolareggiato di quanto non lasci intendere la lapidaria dichiarazione riportata dall’evangelista: “Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo”.

Questa dichiarazione è, comunque, più che sufficiente per capire come si sono svolti i fatti nella realtà. Prigionieri del loro atteggiamento legalistico, i farisei non sanno spiegarsi, ad ogni buon conto, come possa un peccatore compiere tali prodigi; questo vocabolo viene riportato al plurale dal testo greco, semèia, quasi a sottolineare il fatto che ai farisei erano pervenute notizie di diversi altri miracoli operati da Gesù, alcuni dei quali ancora in giorno di sabato (cf. 5,9)! La discussione fra i farisei avviene con toni accesi davanti agli occhi increduli del cieco guarito, il quale, direttamente interpellato da quell’eminente assemblea di esperti in cose riguardanti la santa Legge ed invitato ad esprimere un giudizio sull’Uomo che lo ha guarito, non esita ad affermare che Gesù è un profeta, cioè un uomo particolarmente vicino a Dio e dotato del particolare carisma di essere il portavoce dell’Altissimo. Il giudizio dell’uomo risanato è, ovviamente, subito scartato dai farisei, che considerano costui un povero ignorante della Legge, un am-ha-haretz, perciò cercano di delegittimare la sua testimonianza mettendo in dubbio che non sia mai stato veramente cieco e che non sia, piuttosto, un impostore. Occorre cambiare tattica e convocare i genitori dell’uomo guarito per un confronto, che si rivelerà drammatico ma non privo d’amaro umorismo.

18 Ma i giudei non vollero credere di lui che era stato cieco e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva recuperato la vista. 19 E li interrogarono: “È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?” 20 I genitori risposero: “Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco; 21 come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso”. 22 Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei giudei; infatti i giudei avevano già stabilito che se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. l’età, chiedetelo a lui!”. 23 Per questo i suoi genitori dissero: “Ha l’età, chiedetelo a lui!”.

 

Pur davanti all’evidenza dei fatti ed alla concordanza delle testimonianze pervenute dalla folla, i farisei non demordono e cercano una qualsiasi contraddizione od imprecisione nelle parole dei testimoni per smantellare ciò che considerano un castello di menzogne o, nella migliore delle ipotesi, il risultato di un’autosuggestione collettiva. Rompendo gli indugi, i farisei convocano i genitori del presunto cieco guarito per avere la certezza che il miracolato fosse proprio il loro figlio e, soprattutto, per avere la conferma che fosse un finto malato. Possiamo ben immaginarci le minacce, nemmeno tanto velate, ricevute dai due poveretti prima di essere messi a confronto con il cieco risanato: “Badate bene a quello che dite, altrimenti ne pagherete le conseguenze in un modo che neppure vi potete immaginare…”, oppure “se fate i furbi, lo scopriremo presto anche a costo di mettervi sotto tortura…” o amenità di questo genere. Chi non ama la verità, è disposto a tutto pur di non sentirsela dire o dimostrare.

In modo sorprendente, l’evangelista definisce “giudei” quelli che, fino a poco prima, ha qualificato come “farisei” (9,18). Molto probabilmente il narratore ha inteso sottolineare il carattere ufficiale della convocazione dei genitori del cieco nato e la loro successiva deposizione. Nel IV Vangelo, infatti, sono generalmente indicati come “giudei” i rappresentanti delle autorità religiose e politiche del mondo ebraico (cf. 1,19; 2,18.20; 5,10 ecc.), anche se molti di loro appartenevano al movimento farisaico. La decisione di espellere dalla sinagoga gli eventuali seguaci di Gesù partirà proprio dai “giudei” (9,22), le cui decisioni sono inappellabili in seno alla nazione ebraica.

È vostro questo figlio, che dite essere nato cieco? Il tono della domanda non deve essere stato molto amichevole né comprensivo, specie quando viene sottolineato ciò che finora i genitori “hanno detto” del figlio, cioè che è nato cieco. I giudei incalzano e non danno tregua: se è vero che è nato cieco, “come mai ora ci vede?”. Ai due poveretti non resta che rispondere alle prime due domande dicendo la verità e, alla terza domanda, mantenendosi sulla difensiva: “come poi ora ci veda non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi”. Dalla risposta si arguisce che i due sanno molto bene cosa è successo al loro disgraziato figliolo e sanno anche chi è il guaritore, che, se non altro, conoscono di fama, ma fanno finta di non saperlo per non avere guai. Ciò che fino a pochi istanti prima era loro parsa una grande grazia ricevuta dall’Altissimo, ora si sta trasformando in una pericolosa trappola ed essi si accorgono che, se non misurano le parole, rischiano di perdere tutto, forse anche la vita. I giudei si sono limitati a chiedere loro se sanno “come” sia guarito il figlio, ma essi tradiscono la loro ansia di mettersi al riparo da brutte sorprese ed anticipano la domanda successiva, nemmeno formulata dai giudei, affermando che non sanno “chi” ha aperto gli occhi a loro figlio. All’improvviso, essi intuiscono che c’è una via di fuga per mettersi in salvo e la imboccano senza pensarci due volte, anche a costo di consegnare nella mani di quei giudici severi ed intransigenti la sorte del figlio: “chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso”. Amareggiato, ma in tono comprensivo, l’evangelista spiega il motivo di un simile comportamento da vigliacchi dei due genitori: “avevano paura dei giudei”, che avevano minacciato di espellerli dalla sinagoga trasformandoli in poveracci senza patria e senza diritti, quasi degli “impuri” a vita!

Ha l’età. Evidentemente il cieco guarito da Gesù aveva più di tredici anni e un giorno, età fissata dalla Legge come termine minimo per essere considerati maggiorenni,43 dopo l’espletamento del rituale d’iniziazione detto bàr-mitzvàh. A proposito dell’espulsione dalla sinagoga di un membro del popolo eletto, ai tempi di Gesù questa misura punitiva aveva un valore temporaneo (massimo 30 giorni) e vi si ricorreva per correggere coloro che si erano resi responsabili di violazioni della Legge; ciò che è ventilato dall’evangelista, invece, è una vera e propria esclusione definitiva dalla sinagoga di quanti riconoscevano che Gesù è il Cristo e tale misura fu adottata al concilio di Jamnia (intorno al 90 d.C.) presieduto dal rabbì Gamaliele II. Va precisato che l’espulsione di un ebreo dalla comunione religiosa giudaica aveva gravi conseguenze personali e sociali. L’annotazione dell’evangelista circa questa drastica decisione, presa dalle autorità giudaiche nei confronti dei seguaci di Gesù (9,22), risentirebbe pertanto del clima di persecuzione attuato dai giudei a danno dei cristiani alla fine del I secolo d.C. ma, inserita in questo contesto narrativo, avrebbe lo scopo di sottolineare l’accesa ostilità attiva esistente già all’epoca di Gesù tra i giudei ed il Maestro di Galilea, da cui non erano esclusi i discepoli di quest’ultimo. In altre parole, Giovanni avrebbe proiettato nel passato una disposizione di scomunica ufficiale e definitiva recente (cf. 12,42; 16,2) e di cui, molto probabilmente, avevano sofferto alcuni dei suoi lettori. Non contenti delle risposte date dai genitori del cieco risanato, i giudei convocano una seconda volta quest’ultimo nella speranza di farlo cadere in contraddizione.

24 Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: “Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”. 25 Quegli rispose: “Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo”: 26 Allora gli dissero di nuovo: “Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?”. 27 Rispose loro: “Ve l’ho già detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?”. 28 Allora lo insultarono e gli dissero: “Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè! 29 Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia”.

L’interrogatorio dei testimoni da parte delle autorità giudiziarie d’Israele poteva sembrare pedante, noioso e ripetitivo ma aveva lo scopo di esaminare scrupolosamente tutte le circostanze dei fatti attribuiti all’imputato, per evitare un’ingiusta condanna dell’accusato stesso. Il miracolato aveva già risposto una prima volta alle domande rivoltegli dalla folla, poi una seconda volta ai giudei accorgendosi di aver sollevato dubbi e perplessità anche sulla sua situazione di cieco dalla nascita. La semplice evidenza di non essere stato creduto lo induce a non voler più rispondere una terza volta alle medesime domande rivoltegli da quegli stessi giudei, che hanno dimostrato di non credere alla sua sincerità. Il suo rifiuto a ripetere quanto già detto in occasione dei due interrogatori precedenti appare del tutto comprensibile: stanco di quella tiritera interminabile, il miracolato passa all’attacco ed accusa i giudei di non averlo ascoltato e creduto. Sordi alla testimonianza di Dio (cf. 8,43.47), i giudei non cambierebbero le loro opinioni neppure se ascoltassero per la terza o la quarta volta la deposizione dell’uomo guarito grazie alla potenza di Dio, che agisce e guarisce attraverso Gesù di Nazareth. A meno che, ironizza l’arguto uomo risanato, i suoi giudici vogliano ascoltare ancora una volta ciò che Gesù ha detto e fatto per diventare suoi convinti discepoli; non sarebbe una cosa scandalosa se pure loro dessero credito e testimonianza a quell’Uomo capace di compiere prodigi così grandi e, a loro volta, rendessero “gloria a Dio” (9,24) per essere stati beneficati dall’arrivo di un simile “profeta” (9,17), mandato da YHWH allo scopo di dimostrare che la sua benevolenza per Israele non era venuta a mancare! Il poveretto non s’immagina neppure lontanamente di aver calpestato un nido di vipere. A ciò che considerano un vero e proprio insulto alla loro intelligenza ed integrità religiosa e morale, i giudei reagiscono con violenza insultando a loro volta il miracolato ed accusandolo di essere proprio lui “discepolo” di quel violatore del sabato, del quale non hanno affatto stima alcuna. Considerare i giudei come potenziali “discepoli di Gesù” equivale ad insultarli e coprirli di vergogna inaudita: solo di Mosè essi sono i discepoli e gli eredi spirituali legittimi e, all’infuori degli scribi farisei, nessuno può a buon diritto aspirare ad essere od a ritenersi vero discepolo di Mosè! Quando i farisei contrappongono a Gesù il profeta e legislatore Mosè, “al quale Dio ha parlato”, i lettori di buona memoria non possono fare a meno di ricordare che Gesù ha citato Mosè proprio come suo testimone (cf. 5,46). Per questi giudei, Gesù è solamente un uomo dalle oscure origini ed essi sospettano che egli provenga dal “regno di satana”. Per la maggioranza di loro Gesù non può in alcun modo “venire da Dio” (9,16), anche se gli si attribuiscono poteri taumaturgici. Affermando di non sapere “ di dove sia”, i giudei intendono disprezzare Gesù ma, senza rendersene conto, ammettono di non comprendere la rivelazione di Dio (cf. 7,28; 8,14), di cui non sanno riconoscere le opere. Proprio i presuntuosi “discepoli di Mosè”, che si considerano i veri custodi della Legge, restano ottusamente incapaci di riconoscere il Rivelatore di Dio, del quale Mosè ha scritto e reso testimonianza parecchi secoli prima della sua venuta tra gli uomini.

30 Rispose loro quell’uomo: “Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. 31 Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. 32 Da che mondo è mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. 33 Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”. 34 Gli replicarono: “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?”. E lo cacciarono fuori.

Un uomo senza cultura tira le orecchie a quei sapientoni e trova stupefacente che essi non sappiano “di dove sia” Gesù e non siano in grado di giudicare l’operato di Dio. A lui, invece, che non sa né leggere né scrivere a causa della cecità congenita ma che, con tutta probabilità, ha frequentato la sinagoga ed ha saputo ascoltare la Parola di Dio proclamata e spiegata da quegli stessi “maestri” che gli stanno ora di fronte per interrogarlo, appare chiara ed evidente la spiegazione dei “segni” compiuti da Gesù. Chi opera prodigi così inauditi non può che “venire da Dio”, il quale ascolta ed esaudisce chi è timorato di Lui e compie la sua santissima volontà. In quel “noi sappiamo” (9,31), che contrappone la conoscenza e la sapienza di chi crede all’ignoranza di chi non crede, è racchiusa l’esperienza di fede dei cristiani della comunità dell’evangelista, i quali replicavano alle accuse dei giudei increduli del loro tempo con le medesime argomentazioni del cieco nato. Nel mondo giudaico circolavano voci insistenti circa le arti magiche praticate da Gesù e tali accuse erano riportate anche dai grandi Padri apologisti del II-III secolo d.C. come s. Giustino44 ed Origene45. A tali calunnie si poteva controbattere con le motivazioni addotte dall’uomo risanato, poiché nel giudaismo i miracoli erano ritenuti esaudimenti di preghiere. Un detto rabbinico coincide quasi alla lettera con il concetto espresso dal miracolato: “Sono esaudite le parole di ogni uomo nel quale c’è timore di Dio”. Nel caso del cieco nato, poi, si tratta di una guarigione miracolosa mai udita prima d’ora, perciò Gesù non avrebbe mai potuto effettuarla se non fosse stato “da Dio”. La risposta astiosa e velenosa dei giudei non si fa attendere: “Sei nato tutto nei peccati” (cf. Sal 51,7). I giudei non si riferiscono al generale irretimento nel peccato e nella colpa condiviso da tutto il genere umano (cf. Gen 8,21; Gb 14,4), bensì alla speciale costituzione peccatrice di quest’uomo, che è nato cieco. Essi intendono imputare la sua disgrazia ai peccati dei suoi genitori (9,2) e presentarlo all’attenzione del popolo come un uomo reietto da Dio. Come osa, poi, questo peccatore congenito insegnare a loro, che sono studiosi qualificati della Scrittura e scrupolosi osservanti della Legge? I giudei sono accusati dall’evangelista di una cecità e di un peccato più gravi di quelli attribuiti da loro al cieco nato: oltre a non aver compreso la Rivelazione di Dio e ad aver respinto il Rivelatore, essi sono colpevoli anche di presuntuosa arroganza e di vanità. La loro cecità è tipica degli uomini che si vantano della propria saggezza ed autorità, al punto di non temere di ricorrere alla forza ed alla violenza quando rimangono a corto di argomenti convincenti per opporsi a ciò che considerano errore. E lo cacciarono fuori. Il poveretto non viene buttato fuori semplicemente dal luogo in cui si è svolto l’interrogatorio, ma viene, in senso più proprio, “scomunicato”, cioè espulso dalla comunione di fede giudaica e privato dei suoi diritti personali e sociali. Per mettere a tacere un testimone scomodo della verità non c’è niente di meglio che fare terra bruciata intorno a lui e definire falsa la sua testimonianza.

35 Gesù seppe che lo avevano cacciato fuori e, incontratolo, gli disse: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?”. 36 Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. 37 Gli disse Gesù: “Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui”. 38 Ed egli disse: “Io credo, Signore!” e gli si prostrò innanzi. 39 Gesù allora disse: “Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi”. 40 Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: “Siamo forse ciechi anche noi?”. 41 Gesù rispose loro: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane.

Gesù viene a sapere della violenza gratuita subita dal poveretto che ha risanato e, non volendo perdere nessuno di coloro che il Padre porta a Lui (cf. 6,38), lo va a cercare e lo interpella direttamente per condurlo alla fede piena. Incontrato il cieco risanato, non gli chiede direttamente: “ credi in me?”, ma in modo ancora velato gli domanda se crede nel Figlio dell’uomo, sollecitando da lui una risposta del tutto personale e priva di tentennamenti, che scaturisca dal profondo del cuore.

Tu credi nel Figlio dell’uomo? Gesù sa fin troppo bene che gli “altri” non credono, ma sa anche che quest’uomo non ha ceduto alle lusinghe ed alle minacce di coloro che non credono (9,22) e che, anzi, ha subito senza ripensamento alcuno una palese ingiustizia da parte delle autorità preposte a guidare, con cuore integro ed onesto, le sorti religiose ed i principi morali del popolo eletto. Il miracolato aveva già compiuto di suo un grande cammino di fede, sorretto dalla formazione religiosa giudaica e da una formidabile fiducia nella Provvidenza divina ed ora è pronto a compiere il passo definitivo incontro a Cristo.

Chi è, Signore, perché io creda in lui? L’ultimo diaframma, che separa l’uomo dalla fede in Gesù e che lo rende ancora per poco “non vedente”, viene rimosso da Gesù in persona con una formula di auto-rivelazione: “Colui che parla con te, è proprio lui” (formula equivalente a: Sono io). A questo punto, la vista del cieco è pienamente recuperata, sia in senso fisico che metafisico; la professione di fede dell’uomo risanato viene espressa con parole (“Io credo”) e con gesti (“gli si prostrò innanzi”) di grande rilevanza simbolica: i veri cristiani sono coloro che accettano con la mente, col cuore e con la condotta di vita la loro dipendenza assoluta da Cristo, Signore della storia e Dio dell’universo, che siede alla destra del Padre (cf. Sal 110,1; Mt 22,44p; At 2,33-35; Eb 1,13; 10,12-13; 1Pt 3,22) e davanti al quale “ogni ginocchio si piega in cielo, sulla terra e sotto terra” (Fil 2,10). Il Messia tanto atteso da secoli è presente in carne ed ossa davanti a quegli occhi umani, che ora “sanno vedere” ben di là delle apparenze e dei tanti pregiudizi che ancora affliggono i tanti farisei della storia (inclusi numerosi cristiani, che sono tali solo per aver ricevuto il battesimo, ma si sono rifiutati più o meno consapevolmente ed intenzionalmente di crescere quotidianamente nella fede e di accogliere nella loro vita la gran novità del Vangelo di salvezza, annunciato da Gesù e da coloro che sono i suoi “inviati”).

L’uomo risanato si prostra ai piedi di Gesù per adorarlo, forse consapevole di trovarsi di fronte il Rivelatore di Dio in persona, il Messia, il Profeta tanto atteso. La prosternazione (proskúnesis) come gesto di adorazione sarà pienamente consapevole dopo la resurrezione di Gesù (cf. 20,27-29), allorquando il diffidente e cauto Tommaso capirà che Colui che gli si è mostrato con le ferite dei chiodi e del colpo di lancia non è un fantasma né un’allucinazione, ma nientemeno che il Figlio di Dio entrato definitivamente, con la resurrezione dai morti, nella gloria del Padre, dal quale era stato inviato tra gli uomini per rendere accessibile a costoro l’infinito amore di Dio per le sue creature. Anche se, con tutta probabilità, l’uomo risanato non comprende appieno il significato del titolo che Gesù si attribuisce (Figlio dell’uomo), tuttavia egli non esita a professare la sua fede in Lui e diventa, a pieno titolo, un vero e proprio “veggente”, uno che vede Dio a faccia a faccia: tu lo hai visto. L’evangelista usa il verbo orào per significare che la vista di quell’uomo è ormai orientata verso la fede nell’Inviato di Dio.

Il verbo “prosternarsi” o “prostrarsi” (in greco, proskunèin) potrebbe esprimere un semplice omaggio reso ad un uomo, ma l’evangelista ha certamente inteso suggerire qualcosa di più con quel gesto compiuto dal cieco guarito. Nel IV Vangelo, infatti, questo verbo è usato solo per indicare l’adorazione di Dio (4,20-24; 12,20); Gesù è il vero tempio (2,21) ed il luogo della vera adorazione del Padre (4,23). In Gesù è Dio stesso che si accosta agli uomini nella pienezza della sua gloria, della maestà, della potenza soccorritrice e della bontà salvifica (cf. 6,20.69; 14,9s; 20,28). Perciò il gesto dell’uomo, anche se non deve esprimere una formale adorazione di Gesù in quanto Dio, vuole però indicare che al portatore della salvezza inviato da Dio viene resa ed è dovuta la venerazione con cui è onorato ed adorato Dio stesso. In tal modo si manifesta la progressione dell’uomo dalla sua fede giudaica (9,31-33) a quella cristiana.

A colui che prima era stato “cieco” e che ora è divenuto “veggente”, Gesù rivolge una parola profonda, fondata su questo simbolismo. La venuta di Gesù sulla terra, dopo essere “disceso” dal cielo che di diritto gli appartiene in virtù della sua natura divina, ha il significato di un giudizio od azione giudiziaria (krìsis) ed Egli riveste i panni del giudice (cf. 5,22.27.30), senza che ciò sia in contraddizione con la sua missione salvifica (cf. 3,17; 8,15; 12,47). Per chi rifiuta l’Inviato di Dio, infatti, la sua colpevole incredulità diventa per ciò stesso un giudizio (cf. 3,18; 12,48). Tale giudizio dà luogo ad una divisione tra gli uomini, dei quali gli uni scelgono di essere illuminati dalla luce e compiere le opere di Dio, mentre gli altri preferiscono vivere nelle tenebre dell’incredulità e dedicarsi ad opere malvagie.

L’incisiva durezza del giudizio appare nel fatto che i ciechi vedono e coloro che ritengono di vedere bene diventano ciechi. Tale situazione paradossale è esemplificata dal cieco nato e dai farisei che lo hanno interrogato, insultato, deriso e scomunicato dalla comunità religiosa giudaica. Il primo è diventato veggente non solo con gli occhi del corpo ma anche col cuore pieno di fede, mentre i secondi sono rimasti accecati dal loro orgoglio e sono diventati incapaci di recepire le realtà spirituali e divine. Il vedere è virtù propria di chi crede, per cui il credente è abilitato ad accedere alla sfera della luce di Dio, mentre la cecità è il vizio tipico dell’incredulo, che si abbandona al potere malefico delle tenebre.

Io sono venuto in questo mondo per giudicare. Il giudizio non è solo frutto della scelta libera e volontaria degli uomini (cf. 3,19), che decidono se credere o no all’Inviato di Dio, ma è anche conseguenza della volontà e della determinazione divina, in forza della quale l’uomo è sollecitato a prendere una posizione favorevole o contraria al progetto salvifico di Dio. Non sono ammesse le posizioni neutrali di fronte alla mano che Dio ha teso agli uomini per strapparli dalla loro “cecità”. L’indifferenza è già, di per sé, un rifiuto e come tale essa viene giudicata da Dio.

Alcuni farisei, che si trovano nei pressi di Gesù e dell’uomo guarito dalla cecità, sentono le dure parole di condanna pronunciate dal Maestro e si sentono presi di mira. Poiché l’uso traslato dell’espressione “essere cieco” era già noto dall’antico Testamento (cf. Is 42,16.18 ss; 43,8) ed in seno al giudaismo (Sap 2,21; Filone d’Alessandria) col significato di cecità spirituale, essi hanno buoni motivi per ritenersi offesi, ma la risposta di Gesù alla loro domanda (“siamo forse ciechi anche noi?”) li imbarazza ancor di più.

Il Maestro solleva la questione della colpa ed inchioda i farisei alle loro responsabilità.

L’accecamento è nei piani di Dio e si attua con la venuta di Gesù, ma non va inteso come un decreto divino teso ad abolire la libera decisione degli uomini, che sono “ciechi” per loro colpa. Se i farisei sono ciechi e non riescono a vedere in Gesù l’inviato di Dio, devono incolpare solo se stessi e la propria presunzione, che li induce a non scrutare con retta intenzione il significato delle Scritture, di cui affermano di conoscere tutto.

In secondo luogo, la risposta di Gesù mira ad aprire gli occhi dei farisei sulla loro intima costituzione, non tanto rinfacciando loro di essere ciechi ma, con dialettica tipica dei rabbini, accusandoli di avere la “pretesa” di vedere. Essendo essi esperti di Sacra Scrittura e teologicamente molto ben preparati, dovrebbero capire che Gesù “viene da Dio” (9,29-33), ma se non vogliono intender ragioni la causa di tutto ciò risiede nel loro peccato di orgoglio.

In terzo luogo, Gesù spiega ciò che Egli intende per cecità: essa è un’interiore chiusura dell’uomo alla rivelazione di Dio ed è causata da presunzione e da errata valutazione di sé. La ricerca del proprio onore, che nel caso di questi farisei addirittura prende a pretesto l’onore di Dio (cf. 9,24; 16,2) è il vero motivo della loro chiusura alla rivelazione e della loro cecità (cf. 5,40-44; 8,49; 12,43). Il peccato dei farisei è molto ben illustrato dal comportamento che essi hanno tenuto nei confronti del cieco nato: rifiuto della sua testimonianza e odio nei suoi confronti, sfociato nell’espulsione dalla sinagoga, perché ha confessato e sostenuto la sua fiducia nel “profeta” di nome Gesù. A ciò si aggiunge il rifiuto, immotivato e senza alcuna comprensione, dell’Inviato di Dio e questo è il peccato per antonomasia nel IV Vangelo (cf. 8,21; 15,22.24; 16,9; 19,11). Dal momento che i farisei non si lasciano distogliere dalla loro presunzione neppure dal grande segno e dalla testimonianza diretta del miracolato, il loro “peccato” rimane grande ed imperdonabile. Gesù mette a nudo, così, l’incoerenza del comportamento umano: quando l’uomo si ripiega su se stesso e si nega all’esigenza di Dio, che pure insinua il dubbio nel suo cuore, s’irrigidisce nel suo atteggiamento quanto più duramente si trova a confronto con la richiesta di Dio e non riesce a liberarsi della sua ostinazione egocentrica.

Nel corso dei secoli, la vicenda del cieco nato ha suscitato numerose interpretazioni, due delle quali meritano un’attenzione particolare per la loro originalità. Per s. Ireneo di Lione il gesto di Gesù, che quasi modella gli occhi del cieco nato, gli appare come un portare a compimento il gesto di Dio che modella il corpo d’Adamo: “Quando si trovò di fronte il cieco dalla nascita, gli rese la vista non con parole, ma con un’azione e ciò non per caso, ma per mostrare (che fu) la mano di Dio che all’inizio creò l’uomo. Perciò, ai discepoli i quali chiedevano per quale motivo fosse cieco, se per colpa sua o per colpa dei suoi genitori, rispose: «Né costui né i genitori peccarono, ma ciò avvenne perché si manifestasse l’opera di Dio in lui» (Gv 9,3). Opera di Dio è la formazione dell’uomo, che egli compì con l’azione, come dice la Scrittura: «Il Signore prese del fango dalla terra e plasmò l’uomo» (Gen 2,7). Per questo il Signore (nel caso del cieco nato) sputò per terra, fece un po’ di fango e lo plasmò sugli occhi indicando come avvenne la prima creazione e rivelando, a coloro che sanno intendere, la mano di Dio con la quale fu plasmato l’uomo.

Ciò che il Verbo aveva omesso di fare nel seno della madre, compì poi pubblicamente, perché in lui fosse manifesta l’opera di Dio e noi non andassimo più a cercare altra mano che abbia plasmato l’uomo e altro Padre, poiché ora sappiamo che la stessa mano di Dio che ci plasmò al principio e che ci plasma ancora nel seno della madre, negli ultimi tempi venne a ricercare noi che eravamo perduti e recuperò la pecorella perduta, se la pose sulle spalle e la riportò tutto felice con le altre alla vita”.

Con molta intelligenza, s. Ireneo proietta sul testo la luce dell’Antico Testamento, che ha il suo compimento nel Nuovo, poiché il gesto di Gesù è strettamente collegato al gesto creatore primordiale, dal quale è scaturito l’uomo. Quanto, poi, al lavaggio nella piscina di Sìloe, esso permette al cieco nato di riconoscere Colui che lo ha modellato fin dal seno materno (momento della creazione) e di poter incontrare il Signore che gli ha donato la vista, ossia la fede (momento della salvezza). Per s. Ireneo c’è quindi una continuità teologica e storica tra i due eventi, quello della creazione e quello della salvezza, che fanno parte di un unico progetto provvidenziale ideato da Dio fin dall’eternità, di cui Cristo Gesù è il fondamento unico ed irripetibile, essendo l’unico vero Mediatore tra Dio Padre e l’uomo.

In modo diverso da s. Ireneo, ma con intuizione altrettanto originale, s. Agostino focalizza la propria attenzione sul segno dell’acqua e sull’invio del cieco alla piscina di Sìloe:

Era stato spalmato (con quel fango), ma ancora non vedeva. Egli (Cristo) lo mandò alla piscina, denominata Sìloe. L’evangelista stesso ha creduto opportuno spiegare il nome di questa piscina e dice: « Ciò che significa: “Inviato”». (Il cieco) lavò dunque i suoi occhi in questa piscina, che significa “Inviato”, egli fu battezzato in Cristo. (Il Cristo) l’ha battezzato in qualche modo in se stesso… Avete udito un grande mistero…”.

Agostino, pertanto, si sofferma su due dati importanti del racconto giovanneo: l’azione di lavarsi ed il nome di Cristo che porta la piscina. Da questi due elementi narrativi assai rilevanti dal punto di vista teologico, egli deduce il significato sacramentale del racconto. Anche se non tutti gli esegeti condividono la lettura sacramentale in chiave battesimale del testo, tuttavia va sottolineato come il dialogo tra Gesù ed il cieco nato sia stato inserito nella liturgia catecumenale (mercoledì della 3ª settimana di Quaresima), dove giunge fino alla professione di fede; nelle catacombe, poi, l’episodio viene raffigurato per esprimere la fede dei cristiani nel valore del battesimo.

Al di là di ogni valutazione teologica ed esegetica del racconto testé esaminato, rimane una spontanea simpatia per la figura del cieco nato, nel quale può e deve riconoscersi ogni cristiano seriamente intenzionato a non lasciarsi sfuggire l’occasione propizia di incontrare Cristo e di farsi illuminare da Lui. Se si legge attentamente la pericope, ci si accorge che l’incontro tra Gesù ed il cieco nato non è stato casuale e che esso è avvenuto grazie ad una libera iniziativa di Cristo, che “vede” il cieco mentre passa per via. Il cieco “non vede” ancora il Salvatore che gli si sta facendo incontro, ma è tuttavia un uomo “in attesa” di essere salvato, anche se non chiede nemmeno di essere guarito, non avendo la piena consapevolezza del proprio bisogno di “vedere” e di allargare i confini della propria conoscenza interiore. Ciononostante, costui sa essere pronto e non si fa cogliere alla sprovvista davanti alla novità di un cambiamento radicale della propria esistenza; in fondo, egli ha percepito l’inadeguatezza del proprio modo di rapportarsi con l’esterno ed ha saputo ascoltare la profonda insoddisfazione scaturita dal proprio intimo più profondo. Il cieco “sente” il proprio limite e non si abbandona alla disperazione, ma reagisce prontamente all’aiuto inatteso che gli viene da quella “Voce”. Questa sua disponibilità ad “ascoltare”, unitamente ad una fiducia “cieca” in Colui che gli sta parlando, fanno di quest’uomo un esempio da imitare a tutto tondo. Il coraggio dimostrato nel sostenere accuse, insulti, minacce e violenze è frutto di una accoglienza totale e piena della Parola di Dio divenuta Luce sfolgorante per i suoi occhi oscurati dalle tenebre dell’ignoranza e del peccato esistenziale, che lo accomunano a tutti gli uomini che si affacciano alla vita su questa terra tribolata ed inquieta. Tutti gli uomini sono “ciechi” a causa del peccato originale ereditato dai progenitori e sono prigionieri delle tenebre del male, della presunzione e dell’ignoranza. Per tutti, però, arriva il momento di incontrarsi con Colui che, Lui solo, può donare la “vista” a patto di accettare la sua Parola di salvezza. Non sempre sono disposti a lasciarsi guarire, cioè salvare, i più intelligenti ed i più furbi tra gli uomini, forse perché si fidano troppo della propria intelligenza e furbizia e presumono di potersi salvare da soli senza bisogno di affidarsi ad un Salvatore, che è sempre pronto a tendere la mano ma non impone mai d’autorità il proprio aiuto. Si può essere come il cieco nato, umile e semplice di cuore ma pronto a collaborare attivamente e con totale fiducioso abbandono con il Signore-che-salva (GESÙ), oppure come i farisei, arroganti e presuntuosi, prigionieri del proprio arido sapere ed incapaci di un minimo sentimento di gratitudine nei confronti di quel Dio, che credono di servire e di amare solo perché si attengono scrupolosamente a delle norme, in nome delle quali sono pronti anche ad uccidere chi non la pensa come loro.

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