Il comune “sì” che unisce la famiglia – SANTA FAMIGLIA DI GESÙ, MARIA E GIUSEPPE (ANNO A) – Lectio divina
Il racconto della fuga in Egitto si colloca subito dopo la manifestazione del Messia ai Magi. Matteo costruisce volutamente un contrasto: alla luce dell’adorazione segue l’ombra della persecuzione. Il Figlio di Dio, riconosciuto dalle genti, è rifiutato dal potere politico e religioso. Questa dinamica non è nuova nella Scrittura: la storia della salvezza avanza sempre tra promessa e resistenza, tra rivelazione e rifiuto.
L’angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe, come già era avvenuto in precedenza. Il sogno richiama immediatamente la grande tradizione giuseppina dell’Antico Testamento. Anche il Giuseppe figlio di Giacobbe riceveva in sogno indicazioni sul suo destino, e anche lui fu condotto in Egitto non per scelta, ma per una storia di minaccia e di violenza fraterna (Gen 37). Là dove gli uomini avevano pensato il male, Dio preparava una via di salvezza. Matteo suggerisce che la storia si ripete, ma ora in modo definitivo: un altro Giuseppe entra in Egitto per custodire la vita dalla quale dipenderà la salvezza di tutti.
Il comando dell’angelo è stringato e urgente: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto». La forma imperativa richiama le grandi chiamate bibliche, a partire da Abramo: “Vattene dalla tua terra” (Gen 12,1). La fede biblica non è mai statica, ma implica uno spostamento, una perdita di sicurezza. Giuseppe, come Abramo, obbedisce senza conoscere i tempi e le modalità del ritorno. L’unica certezza è la Parola.
L’Egitto entra così nel Vangelo come luogo paradossale. È la terra della schiavitù narrata nell’Esodo, ma anche il luogo dove Israele sopravvive alla carestia grazie a Giuseppe (Gen 42–47). Matteo recupera questa ambivalenza: l’Egitto può essere luogo di oppressione o di rifugio, a seconda che vi si rimanga per paura o vi si entri per obbedienza. Qui Gesù non subisce l’Egitto, ma lo attraversa. Come osserva Origene, “Cristo scende in Egitto perché nessun luogo resti escluso dalla sua salvezza” (Omelie su Matteo).
La citazione profetica «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Os 11,1) è decisiva. In Osea essa si riferisce a Israele, il figlio amato che Dio ha fatto uscire dalla schiavitù. Matteo applica questo testo a Gesù, rivelando una profonda rilettura cristologica della Scrittura: Gesù non solo ripercorre la storia di Israele, ma la ricapitola in sé. Ciò che era stato detto del popolo ora si compie nel Figlio. L’Esodo diventa così una profezia vivente, non solo un evento passato.
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Alla morte di Erode, la narrazione richiama ancora l’Esodo. Come il faraone che aveva ordinato la morte dei neonati viene sconfitto, così il tiranno che voleva sopprimere il Messia scompare dalla scena. Ma la liberazione non è immediata né totale. Archelao prende il posto del padre, mostrando che il male non si esaurisce con la scomparsa di un singolo oppressore. La Scrittura insegna che la storia della salvezza procede per tappe, non per soluzioni istantanee.
Il ritorno nella terra d’Israele, guidato ancora una volta dal sogno, ricorda il cammino del popolo nel deserto: un ritorno graduale, segnato dal discernimento. Giuseppe non rientra in Giudea, ma si ritira in Galilea, regione marginale e mista, lontana dal centro del potere. Come Israele, anche Gesù non entra subito nella terra promessa nella sua forma piena, ma cresce ai margini, in una periferia geografica e religiosa.
Nazaret diventa così il luogo simbolico della salvezza umile. Il riferimento profetico finale – «Sarà chiamato Nazareno» – resta volutamente aperto. Può evocare il nazîr, il consacrato a Dio, oppure alludere al germoglio (nēṣer) annunciato da Isaia (Is 11,1). In entrambi i casi, il senso è chiaro: il Messia nasce da ciò che è piccolo, nascosto, disprezzato. Giovanni Crisostomo sottolinea che “Dio educa il Figlio nella povertà dei luoghi perché impari a parlare ai poveri” (Omelie su Matteo).
Giuseppe attraversa tutta questa trama biblica come figura-ponte tra Antico e Nuovo Testamento. In lui convergono Abramo che parte, Giuseppe che salva in Egitto, Mosè che fugge dal faraone, Israele che ritorna nella terra promessa. Senza proclami e senza parole, Giuseppe diventa il custode del compimento delle Scritture. Sant’Agostino lo definisce “servo fedele del disegno divino, nel quale la promessa antica trova una casa” (Sermoni).
La storia della salvezza non avanza per forza, ma per obbedienza. Dio affida il Figlio alla fragilità di una famiglia perché la redenzione non passi attraverso il dominio, ma attraverso l’ascolto, il cammino e la fiducia nella Parola che guida la storia.
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Meditatio
Custodire la vita nel tempo della prova
La fuga in Egitto non è solo un evento del passato, ma una chiave di lettura per la vita del credente e delle famiglie. Il Vangelo mostra che la volontà di Dio non preserva automaticamente dal rischio, ma offre una direzione per attraversarlo. Gesù cresce all’interno di una storia fragile, segnata dalla precarietà e dall’esilio, perché nessuna condizione umana resti estranea all’opera della salvezza.
Il Libro del Siracide ricorda che onorare il padre e la madre significa riconoscere che la vita ricevuta è un dono da custodire. Giuseppe vive questa sapienza in modo radicale: la sua paternità non consiste nel generare, ma nel proteggere e nel prendersi cura. In lui si manifesta una forma alta di autorità, che non impone ma accompagna, non possiede ma serve. Onorare i genitori, e più in generale custodire le relazioni familiari, diventa così una partecipazione concreta all’opera creatrice di Dio.
Il Salmo 127 canta la beatitudine di chi teme il Signore e cammina nelle sue vie. La benedizione promessa non è l’assenza di fatica, ma la possibilità di nutrirsi del lavoro delle proprie mani e di vedere crescere la vita intorno a sé. La Santa Famiglia incarna questa beatitudine in modo paradossale: non vive nella sicurezza, ma nella fiducia; non nella stabilità, ma nel cammino. La fecondità della loro casa non nasce da condizioni favorevoli, ma dall’obbedienza alla Parola.
Paolo, nella lettera ai Colossesi, invita i credenti a rivestirsi dei sentimenti di Cristo. La vita familiare cristiana diventa così il primo luogo in cui la carità prende forma. Tenerezza, bontà, umiltà, pazienza e perdono non sono virtù astratte, ma scelte quotidiane che costruiscono relazioni capaci di resistere alla prova. Giuseppe e Maria vivono questa logica evangelica nel silenzio, senza proclami, lasciando che la pace di Cristo regni nei loro cuori anche quando tutto intorno è instabile.
La figura di Erode rappresenta una paternità deformata dal potere e dalla paura. Il suo desiderio di controllo genera morte, mentre la paternità di Giuseppe, povera e obbediente, genera vita. Il Vangelo invita a discernere questi due modelli presenti anche oggi: da una parte l’autoreferenzialità che soffoca, dall’altra l’autorità che libera perché nasce dall’ascolto di Dio. Fuggire da Erode significa prendere le distanze da tutto ciò che minaccia la vita, anche quando ciò comporta scelte dolorose e incomprese.
La fuga in Egitto insegna che ci sono momenti in cui il male non va affrontato frontalmente, ma evitato con sapienza. Rifugiarsi non è rinunciare alla missione, ma custodirla. L’Egitto diventa così il luogo del discernimento, dove si impara la pazienza, l’attesa e l’obbedienza fiduciosa. È nel tempo dell’esilio che la fede matura e si purifica, imparando a riconoscere che Dio guida anche quando la strada non è chiara.
Per il credente, questa pagina evangelica diventa un invito a rileggere la propria storia alla luce della Parola. Ogni famiglia, ogni comunità attraversa momenti di precarietà, di paura e di incertezza. La promessa non è quella di una vita senza prove, ma di una presenza che accompagna e indica la via. Come Giuseppe, siamo chiamati a custodire la vita che ci è affidata, lasciandoci guidare da Dio anche quando questo chiede di cambiare direzione.
La pace di Cristo, di cui parla Paolo, non è l’assenza di conflitti, ma la certezza che l’amore è più forte della paura. È questa pace che rende feconda la casa, anche nella prova, e trasforma l’esilio in un luogo di crescita. Custodire la vita diventa allora la forma più alta di fede: un sì quotidiano, spesso silenzioso, che permette a Dio di continuare a scrivere la sua storia di salvezza dentro la nostra.
La Parola interpella la vita
Quali sogni, eventi o parole mi stanno chiedendo oggi di cambiare strada per custodire la vita che mi è affidata?
Quali “Egitto” ho dovuto attraversare come luoghi di prova e di discernimento, e che cosa vi ho imparato?
In che modo vivo le relazioni familiari e comunitarie come spazio concreto di carità, perdono e servizio?
Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera
Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna“
