Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 26 Novembre 2023

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Gesรน nei poveri

Lโ€™ultima domenica dellโ€™anno liturgico ci consegna un messaggio escatologico centrato su un intervento di Dio che รจ di giudizio. Nella prima lettura (Ez 34,11-12.15-17) Dio annuncia che egli in persona opererร  un giudizio sul suo popolo, non solo nei confronti dei capi (montoni e capri), ma di ciascun membro del popolo (pecore). Il vangelo (Mt 25,31-46) presenta Gesรน quale re e giudice escatologico che separa pecore e capre, che opera il giudizio su ogni uomo basandolo sulla concreta prassi di caritร .

La grandiosa pagina visionaria di Matteo annuncia lโ€™autoritร  escatologica dei poveri e il valore incommensurabile del gesto di caritร  e di giustizia compiuto verso il povero. Tuttavia, mi pare che si possa cogliere unโ€™altra dimensione, meno immediata e piรน profonda, del testo evangelico. Del resto ogni pagina evangelica รจ rivelazione di Gesรน e rivelazione di noi stessi. Di Gesรน, anzitutto. Questa pagina ci svela, paradossalmente, la conseguenza piรน radicale dellโ€™incarnazione. Colui che si รจ fatto carne, concretamente lo si incontra nei poveri. โ€œQuanto avete fatto a uno dei miei fratelli piรน piccoli lโ€™avete fatto a meโ€ (Mt 25,40). E cosรฌ ci viene rivelato fin dove giunge il decentramento che Gesรน ha vissuto giร  in terra nel suo ministero storico quando si รจ fatto servo dei bisognosi prendendosene cura e ha lasciato spazio al regnare di Dio sulla sua persona e sulle sue relazioni. Qui, nella pagina di Matteo, Gesรน afferma:ย non io, ma i poveri, i piccoli, i miei fratelli piรน piccoli. Come se Gesรน si celasse nel volto dei poveri e dei piccoli e si nascondesse negli invisibili della storia. E dunque, come se fosse presente in essi e rivelato da loro.

I poveri sono la carne di Cristo e i portatori,ย inconsapevoli, del giudizio escatologico. Portatori inconsapevoli, ma di beata e salvifica inconsapevolezza, dellโ€™inconsapevolezza che รจ libertร  dallโ€™egocentrismo e dal protagonismo, libertร  dal detestabileย ego. E il Gesรน di questa visione escatologica, il Re e il Giudice, รจ pienamenteย agapeย nel suo essere totalmente libero dal dispotismo dellโ€™ego. Ecco dunque in cosa risplende in modo sommo e si puรฒ comprendere lโ€™affermazione neotestamentaria circa il suo essere senza peccato (cf. Eb 4,15) e il senso della sua resurrezione dalla morte: nel suo essere trasparenza del Padre e decentramento nei poveri vincendo la potenza mortifera dellโ€™egoย che continua invece a tiranneggiare e a ridicolizzare le nostre esistenze. E questaย agapeย come libertร  dallโ€™egoย la vediamo anche nei benedetti (Mt 25,34), in coloro che sono sorpresi dalle parole di Gesรน โ€œavevo fame e mi avete dato da mangiareโ€.

La sorpresa, lo stupore meravigliato dice la loro libertร , il loro aver agito in semplicitร , senza secondi fini, il loro essere stati completamente nellโ€™azione che hanno compiuto: mai e poi mai essi hanno pensato di servire Cristo quando hanno compiuto umanissimi gesti di bene verso i loro compagni in umanitร . La loro ignoranza รจ libertร , la loro inconsapevolezza รจ beatitudine. Mai e poi mai essi hanno servito le persone perchรฉ in esse vedevano Cristo, ma solo perchรฉ erano persone che, nel loro bisogno, li interpellavano.

Essi restano stupiti e attoniti di fronte alla rivelazione del Giudice, ridiventano cioรจย infanti, senza parola, entrano in quella condizione di bambini a cui รจ spalancato lโ€™accesso al Regno di Dio: โ€œSe non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno dei cieli. Perciรฒ chi si farร  piccolo come questo bambino, costui รจ il piรน grande nel Regno dei cieliโ€ (Mt 18,3-4). Non cosรฌ i maledetti (Mt 25,41), coloro che in veritร  non sono vittime di chissร  quale castigo o condanna, ma sono ancora prigionieri del loroย ego. Essi presumono e pretendono: โ€œQuando mai ti abbiamo visto nel bisogno e non ti abbiamo servito?โ€ (Mt 25,44). Difesa di sรฉ, autogiustificazione, menzogna, battaglia ingaggiata con il Giudice per difendere ed esibire se stessi nel loro aver fatto sempre il bene.

Difesa strenua, ossessiva, disperata, quasi patologica, del loroย ego, del loro essere nel giusto, del loro essere inattaccabili. Impenetrabili a ogni osservazione, immuni a ogni rimprovero, essi sono anche chiusi a ogni rivelazione: per loro non cโ€™รจ rivelazione, perchรฉ essi giร  sanno la veritร , giร  sono nel giusto. E cosรฌ si chiudono alla possibilitร  di quella salvezza che passa attraverso lโ€™incrinarsi della corazza dellโ€™egoย e lโ€™apertura allโ€™altro. E cosรฌ vediamo che la pagina del giudizio escatologico, attraverso lโ€™improbabile dialogo tra Giudice e giudicati, parla di noi e del nostro oggi. Parla del nostro qui e ora. Parla della battaglia che sempre ci resta da fare ogni giorno, traย agapeย eย philautรญa.

Centrale in questa pagina cosรฌ profonda e inesauribile รจ lโ€™affermazione: โ€œTutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli piรน piccoli, lโ€™avete fatto a meโ€ (v. 40). Le parole del Figlio dellโ€™uomo non ci interrogano sulle intenzioni che hanno presieduto a quel fare: basta rilevare se tali azioni sono state fatte o no. Il Figlio dellโ€™uomo non chiede di provare sentimenti particolari per chi era nudo o affamato, non chiede di vedere Cristo in lui per darsi il permesso di amarlo, ma chiede di fare, semplicementeย fareย allโ€™altro ciรฒ di cui lโ€™altro ha bisogno.

โ€œTutto quanto volete che gli uominiย faccianoย a voi, voiย fateloย a loroโ€ (Mt 7,12). Se il Signore ci chiede di โ€œfareโ€ questo, di amare, significa che lo possiamo, anche se non lo pensiamo o non lo crediamo. Noi iniziamo ad amare e impariamo ad amareย facendoย gesti di amore. Il gesto istruisce lโ€™anima ed educa il cuore e la mente. Dice Giovanni nella sua prima lettera: โ€œFiglioli, non amiamo a parole nรฉ con la lingua, ma coi fatti e con la veritร โ€ (1Gv 3,18). Troppo spesso pensiamo, diciamo, immaginiamo, sogniamo, parliamo di amare, ma poi non lo facciamo. Ne abbiamo paura; abbiamo paura di questoย fareย che ci mette in contatto non con un astratto โ€œaltroโ€, come amiamo ripetere, ma con un corpo, un corpo preciso. Un corpo da ascoltare, da vestire, a cui stare accanto, da dissetare, da sfamare, da visitare. Ne abbiamo paura perchรฉ entriamo in contatto anche con il nostro corpo: toccare รจ sempre anche essere toccati. Tutti e cinque iย sensiย si alleano nellโ€™azione di cura e insieme ci dirigono verso ciรฒ che ha veramenteย sensoย nella vita.

Possiamo esprimere questo con le parole di Albert Sabin: โ€œSe non ti occupi di te stesso, chi lo farร  al tuo posto? Ma se tu non ti occupi degli altri, chi sei?โ€. Prendersi cura: si tratta di toccare, ascoltare, vedere, accudire chi รจ nel bisogno e questo significa assumere qualcosa della sua sofferenza, sentirla, condividerla, spartirla, come il mantello che Martino di Tours divise con un povero mendicante alle porte di Amiens, in un rigido inverno. Narrando questo episodio, dice Venanzio Fortunato: โ€œFra entrambi รจ diviso il calore e il freddo, il freddo e il caldo diventano oggetto di scambio, lโ€™uno riceve una parte del tepore, lโ€™altro prende una parte del freddo: una stessa povertร  รจ condivisa da due personeโ€.

Come amare lโ€™altro senza prendersi cura del corpo che lโ€™altro รจ? Lโ€™amore si esprime con gesti del corpo, e solo quando lโ€™amore diviene corporeo, fosse ben attraverso un sorriso, un ascolto, uno sguardo, una carezza, un abbraccio, un silenzio, una parola, esso si comunica. Senza questa apertura anche il nostro corpo si ripiega su di sรฉ, si incurva, si isola, sta in mezzo agli altri senza essere con loro, si disinteressa di loro, diviene freddo e trasmette freddezza. E questo proprio per non aver condiviso il freddo, il bisogno, la carenza dellโ€™altro. Come amare lโ€™altro senza condividere un poโ€™ la sofferenza che egli sta vivendo? Scrive Agostino: โ€œIo non so come accada che, quando un membro soffre, il suo dolore divenga piรน leggero se le altre membra soffrono con lui. E lโ€™alleviamento del dolore non deriva da una distribuzione comune dei medesimi mali, ma dalla consolazione che si trova nella caritร  degli altriโ€ (Epist. 99,2). E la caritร  che consola gli altri dร  riposo a colui che ama, a colui che la esercita, che la fa. Anzi, gli dร  beatitudine. Dice infatti Gesรน: โ€œSapendo queste cose sarete beati se le fareteโ€ (Gv 13,17). Beati, o benedetti, come si esprime la nostra pagina evangelica.

Il testo di Matteo ci rivela cheย lโ€™essere umano รจ colui che risponde di un altro. E assumendo, per quanto gli รจ possibile, la responsabilitร  di un altro, se ne prende cura. E lโ€™esperienza ci fa scoprire che fare il bene a un altro รจ sempre fare del bene a noi stessi. Il linguaggio della cura รจ universale e lo troviamo espresso in altre tradizioni culturali e religiose. Il Buddha, nel discorso di Sedaka, afferma: โ€œChi si prende cura di se stesso si prende cura degli altri. E chi si prende cura degli altri si prende cura di se stesso. E in che modo chi si prende cura degli altri si prende cura di se stesso? Con la pazienza, con il non nuocere, con lโ€™amore, con la solidarietร โ€.

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Un testo di Confucio dice: โ€œรˆ sufficiente che due esseri umani si trovino faccia a faccia, perchรฉ tra essi si instauri un patto vincolante per la loro relazione. รˆ in questo che consiste lโ€™โ€˜umanitร โ€™ o, in altre parole, il โ€˜prendersi cura dellโ€™altroโ€™โ€. La grandiositร  del nostro testo รจ pari alla sua estrema semplicitร : il suo messaggio รจ praticabile da tutti, in ogni tempo e in ogni luogo e, mentre parla del raduno universale di tutte le genti davanti al Re e Giudice universale, ci raggiunge nella nostra quotidianitร  e parla alle nostre piccole โ€“ eppure anchโ€™esse grandiose โ€“ vicende.

Per gentile concessione del Monastero di Bose

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