Nessuna paura
Eccoci giunti alla seconda delle tre parabole del capitolo 25 di Matteo. Sono tre parabole che hanno in comune la definitività: ci sono delle vie di non ritorno.
La parabola delle dieci vergini è terminata con l’esortazione a vigilare. Con la parabola dei talenti Matteo spiega cosa significa vegliare.
Talenti
Il protagonista della parabola è un uomo che deve partire per un lungo viaggio. Forse si tratta di un commerciante che va a fare affari all’estero e affida il suo capitale ai suoi servi. E’ una somma piuttosto considerevole: un talento equivaleva a diecimila denari e il denaro era la paga di una giornata di lavoro. Il padrone dunque consegna questi soldi ai suoi servi perché non rimangano infruttuosi. E’ chiaro sin dall’inizio che i servi dovranno farne buon uso e dovranno renderne conto.
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Che cosa osserviamo? Ogni servo ha un patrimonio che non è suo. Sa che è del padrone e sa che dovrà riconsegnarglielo ma c’è una diversità: non tutti hanno lo stesso patrimonio. Ciascuno ha secondo la propria capacità. Il vero problema non è fare la conta dei nostri talenti ma decidere che ne vogliamo fare. Passiamo la vita a invidiarci l’un l’altro, senza guardare a ciò che siamo e ciò che abbiamo.
Due servi investono il capitale ricevuto. Non è specificato come, ma il risultato è che entrambi raddoppiano il capitale. Il terzo servo sotterra il capitale ricevuto. Non è un gesto irrazionale, in passato si è rivelato spesso il modo migliore per mettere il denaro al sicuro dai ladri.
Perché è proprio quello che ha un talento che lo nasconde? Perché si confronta con gli altri. I primi due vivono osando, giocandosi, mettendosi in gioco, rischiando, provandoci. Il terzo, invece, ha paura e la sua paura lo blocca. E’ l’atteggiamento di fondo dei personaggi che fa la differenza. Il terzo servo ha un cuore malato, senza desiderio, non crea, conserva. Non sa che il mondo e il cuore non ci sono dati come cose da conservare, ma devono tendere alla pienezza. Amico lettore, non sei chiamato a essere un conservatore di cose preziose, ma un creatore di opere nuove.
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Ritorno
E’ passato molto tempo, forse non si era più sentita notizia del padrone, ma ecco che il padrone torna e vuole sapere che cosa i servi abbiano fatto con il suo denaro.
Il primo servo presenta dunque il frutto dei suoi investimenti. Nello stesso modo si è comportato il secondo servo. Il primo e il secondo hanno vissuto “giocandosi” e hanno la conseguenza del loro atteggiamento. Non sono compensati perché hanno guadagnato ma perché ci hanno provato, perché hanno avuto fiducia, perché hanno osato, perché si sono lanciati.
Dio non è un padrone che rivuole indietro i suoi talenti. Ciò che i servi hanno realizzato non solo rimane a loro, ma è moltiplicato un’altra volta: «Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto». I servi vanno per restituire e Dio rilancia, perché l’uomo non vive semplicemente per restituire a Dio i suoi doni, ma perché portino frutto e siano seme di altri doni.
E’ bello vedere che chi consegna dieci talenti non è più bravo di chi ne consegna quattro. Le bilance di Dio sono qualitative, non ci sono talenti ideali da raggiungere.
L’insegnamento della parabola si coglie però grazie all’esempio negativo. Il terzo servo non l’ha voluto trafficare, l’ha messo al sicuro perché aveva paura di perdere l’investimento e incorrere così nelle ire del padrone.
Che cosa impedisce al terzo servo di giocarsi? La paura: non vuole fare errori, non vuole sbagliare, non vuole essere giudicato. Vuole controllare tutto, vuole essere sicuro, certo e facendo così perde tutto. Certo, se avesse rischiato, vissuto, avrebbe potuto perdere i suoi soldi, nessuno gli avrebbe potuto garantire un esito felice ma se non si rischia si muore. E’ la paura che ci fa morire, non gli imprevisti della vita.
Ecco la santità: avere il coraggio di rischiare ciò che si ha. Vivere con la paura della punizione ci trasforma in devoti inutili, ma la santità consiste nel vivere da figli di Dio. Il bene va fatto per amore non per paura. Che senso ha vivere da santi per paura dell’inferno? Il padrone, cioè Dio, vuole far crescere un servo fino al punto da farlo sbocciare come figlio. Non chiede di fare semplicemente il suo dovere, di vivere da devoto ma da figlio. Insomma il desiderio di Dio è che i figli vivano da protagonisti e non da frustati ben educati.
Ho la sensazione che molte nostre comunità vivano così, frenate dalla paura, ripetitive e pigre. Molti cristiani confondono l’umiltà con il rifiuto delle proprie responsabilità e sotterrano il talento prezioso che è stato dato loro in dono. La paura che frena e rende ripetitiva la nostra vita di fede, dipende soprattutto dall’idea di Dio che custodiamo nella mente e nel cuore. I primi due servi avevano una diversa idea di Dio rispetto al terzo. Amico lettore, che idea hai di Dio e che idea, invece, ti propone Gesù di Nazareth? Questo è il centro della parabola e del vangelo. Ci sono ancora molti cristiani (la maggioranza?) che pensano a Dio come a un ragioniere spietato che fa piovere dal cielo favori e preferenze in base ai meriti acquisiti, o come un vigile urbano che si diverte a multare ogni nostra infrazione. Per fortuna questo non è il Dio rivelato da Gesù di Nazareth. Il Dio di Gesù è un Padre appassionato che si fida di noi, ci affida un tesoro prezioso e se ne va. Spetta a te amico lettore decidere che fare di questo dono.
Dall’atteggiamento dei servi emergono due visioni opposte della vita: l’esistenza come un’opportunità oppure come un tribunale, pieno di paure. «Quello che facciamo è soltanto una goccia nell’oceano. Ma se non ci fosse quella goccia all’oceano mancherebbe.» (Madre Teresa di Calcutta).
A differenza dei suoi colleghi, il terzo servo è definito malvagio e pigro. Il padrone gli toglie i soldi che gli aveva dato e li dà al primo servo (quindi il padrone ha lasciato ai primi due servi il capitale e anche gli interessi). Il giudizio sul servo è grave: è un servo inutile, non serve.
Attesa
Così Matteo spiega cosa significhi vigilare. Non si tratta solo di un’attesa paziente del ritorno di Cristo; non è un’attesa paralizzante del giudizio di Dio; si tratta del miglior uso possibile dei doni che Dio ci ha fatto, del “poco” di cui disponiamo.
Il compito dell’uomo? Realizzare ciò che siamo. Amico lettore, il talento è la tua vita: vivila! Che cosa aspetti a vivere? Che cosa aspetti a scendere in campo? Alcune persone vivono da “panchinari”, non scelgono mai. La vita è così: un patrimonio da far fruttificare ma bisogna osare, rischiare. Unico nemico, la paura! Tutto è possibile per chi crede, ma nulla si realizzerà per chi ha paura. La pedagogia del vangelo offre tre grandi regole: non avere paura, non fare paura, liberarsi dalla paura, soprattutto dalla paura di Dio!
La bella notizia di questa domenica? Come dice un racconto chassidico, al termine della vita non mi sarà chiesto se sono stato come Mosè o Elia o uno dei profeti ma solo se sono stato me stesso.
Fonte: il blog di Paolo de Martino | CANALE YOUTUBE | PAGINA FACEBOOK