Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 13 Giugno 2021

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Il paradosso del seme

Poste dopo la parabola del seminatore e dei diversi tipi di terreno, in cui si afferma che โ€œil seminatore semina la parolaโ€ (Mc 4,14), le due parabole odierne parlano dellโ€™efficacia di tale parola. Efficacia che, per dispiegarsi, ha bisogno delle operazioni spirituali giร  evocate in Mc 4,1-20 (interiorizzazione, perseveranza e lotta spirituale), ma anche di pazienza e di attesa, di fiducia, come appare nelle parabole di Mc 4,26-32. La fiducia necessaria quando si deve attendere e sperare obbligandosi al non intervento ed entrando in un rapporto con il tempo che richiede forza nei confronti di se stessi. Si tratta della forza del contadino che decide di non affrettare i tempi della crescita del seme, ma di assecondarne la crescita, accettando di non essere protagonista, ma anche della fiducia necessaria quando si deve credere che un seme minuscolo come il grano di senape possa divenire un albero maestoso. Entrando dunque in un rapporto con la realtร  che richiede la forza di non cedere allโ€™evidenza, di non arrendersi al visibile, ma di credere al paradosso, cioรจ che gli ultimi saranno i primi, che gli afflitti saranno beati, insomma di credere alla forza del vangelo. Il paradosso che sempre le parabole ci pongono di fronte รจ il paradosso stesso della fede cristiana, della morte salvifica del crocifisso. Esattamente come il Regno di Dio che รจ simile a un seme gettato e che deve essere sepolto nella terra, deve morire per germinare. Del resto, il seme, simbolo della parola di Dio e del Regno di Dio, รจ anche segno di Cristo stesso e della sua morte e resurrezione. โ€œSe il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto fruttoโ€ (Gv 12,24). Caduta nel cuore di un uomo, la parola di Dio deve rimanervi, essere interiorizzata, ascoltata sempre di nuovo con perseveranza, deve essere fatta regnare sulle tante altre parole che distraggono dallโ€™essenziale, fino a divenire principio di discernimento e di azione, dunque di caritร , di misericordia, di perdono, di giustizia, di veritร . E lโ€™uomo che avrร  coltivato cosรฌ nel proprio cuore la parola di Dio sarร  da essa rigenerato, trasformato, e ne mostrerร  lโ€™efficacia nel suo stesso vivere, senza esibizionismi, โ€œcome, egli stesso non lo saโ€ (cf. Mc 4,27).

Il testo di Mc 4,26-29 contiene la cosiddetta parabola del โ€œseme che spunta da soloโ€ o forse, meglio, la parabola del contadino che lavora sia con lโ€™azione (seminare, mietere) che con il non-agire. Tra la semina e la mietitura cโ€™รจ un tempo di inattivitร  del contadino. Inattivitร  necessaria affinchรฉ il seme spunti da solo. Questo momento di astensione dal fare รจ essenziale perchรฉ il seme giunga alla sua germinazione e fruttificazione. Infatti, cโ€™รจ un evento che il contadino non puรฒ determinare e dunque deve respingere la tentazione di farlo: che il contadino dorma o si alzi, egli nemmeno sa come il seme arrivi a maturare. Condizione dunque del maturare del frutto รจ il non forzare i tempi della crescita. Ma questa inattivitร  non รจ indifferente nรฉ disimpegnata, ma colma di attesa, di attenzione, di pazienza, di fiducia. Nella parabola, il contadino รจ chiamato allโ€™azione interiore, alla vigilanza di chi dovrร  essere pronto a cogliere lโ€™attimo in cui il frutto รจ maturo per mietere: โ€œQuando il frutto รจ maturo, subito manda la falce, perchรฉ รจ giunta la mietituraโ€ (Mc 4,29).

La parabola narra la pazienza di Dio, la capacitร  del Signore di attendere i tempi umani, ma essa suggerisce anche a noi una modalitร  di lavoro che รจ la non-azione, lโ€™acconsentire alla maturazione dellโ€™altro senza forzare i tempi, lโ€™acconsentire allโ€™azione di Dio nellโ€™altro senza fretta, senza presunzione e senza angoscia. Si tratta di imparare la faticosa arte di non agire, di aiutare ciรฒ che procede da solo, di porre un freno alla nostra impazienza, di astenerci dallโ€™intervenire direttamente impedendo la giusta possibilitร  del terreno di dare frutto nella propria misura (trenta, sessanta, cento) e a proprio tempo. Occorre lasciar fare facendo fiducia alla potenza del seme-parola di Dio e alla capacitร  di accoglienza della terra-cuore umano. Lasciar fare senza trascurare, ma avendo cura e aiutando la crescita con lโ€™atto generante della fiducia. La fiducia รจ la non-azione che consente allโ€™altro di trovare la forza e la possibilitร  di agire, anzi, di essere, di divenire, di crescere. Ovviamente, va evitata la passivitร : occorrerร  accompagnare il processo. Come testimoniano altre parabole evangeliche, occorre sarchiare il terreno, zapparlo, irrigarlo, insomma mettersi a disposizione del terreno e del seme perchรฉ possa germinare e crescere come pianta con i suoi tempi. Lโ€™efficacia, in questo caso, รจ tutta nel non ingerirsi e nellโ€™assecondare, con umiltร , un processo che avverrร  non in virtรน dei nostri sforzi, ma sponte sua. Si tratta di mettersi a servizio di ciรฒ che procede da solo. Non รจ facile questo assecondare perchรฉ implica il nostro metterci in seconda posizione, il rinunciare allโ€™essere i protagonisti indiscussi dellโ€™evento. Certamente, nel concreto di tante situazioni questo equilibrio non รจ facile da trovare e occorrerร  vagliare caso per caso tra intervento e attesa, ma il testo evangelico apre una prospettiva ispirata a mitezza. Non al clamore, ma alla discrezione, non al controllo ma alla fiducia, non allโ€™agire, ma allโ€™attesa, non allโ€™intervento, ma allโ€™ascolto. Una parabola evangelica, che ha a che fare con il tempo e anche con il raccolto agricolo abbondante, illustra bene quanto sto dicendo. In Lc 12,16-21 si parla di un uomo ricco che elabora il modello di un piano da realizzare per mettere al sicuro il raccolto abbondante della sua campagna, piano che perรฒ sarร  smentito dalla sua imprevedibile morte la notte stessa. Il progetto di questโ€™uomo tendeva a controllare il tempo, a dominare il futuro, ad avere una presa sul passare del tempo. Noi spesso pensiamo lโ€™efficacia come controllo. Gesรน dirร , facendo eco alla tradizione sapienziale biblica: โ€œChi di voi, per quanto si dia da fare, puรฒ allungare anche di poco, la propria vita?โ€ (Lc 12,25).

Quale tipo di efficacia emerge allora? E quale tipo di rapporto con il tempo (e con gli altri e con il mondo)? Un rapporto umile e mite. Un rapporto con il tempo che conduce lโ€™uomo a lasciar lavorare il tempo su di sรฉ: attenzione e attesa, pazienza e discernimento divengono atteggiamenti basilari per un rapporto con il tempo che favorisce la nostra crescita interiore. Accettiamo che il tempo ci lavori. E che non sia soltanto l’ambito in cui noi interveniamo sugli altri o sul mondo. Al tempo stesso, questo lasciarci lavorare dal tempo non รจ il passivo lasciare che il tempo passi, ma entrare in un tipo di lavoro e di azione che รจ invisibile e interiore, ma non per questo meno efficace, soprattutto perchรฉ si tratta di un lavoro non sullโ€™esterioritร , ma sullโ€™interioritร . Questa dimensione di umiltร  accompagna la fiducia nella trasformazione dellโ€™altro mentre attua una trasformazione in noi stessi. La trasformazione รจ invisibile, eppure รจ efficace. Noi ne vediamo solo il frutto, non il processo, che si sottrae alla visibilitร . Ci accorgiamo che siamo invecchiati, ma lo vediamo nellโ€™arco di un periodo di tempo; vediamo il frutto maturo, ma non lo vediamo nel mentre della sua maturazione. La trasformazione non รจ locale, ma globale; non รจ momentanea, ma avviene nella durata, in un processo; non rinvia solo a un soggetto che ne sia lโ€™attore, ma a un insieme di fattori, a un complesso di condizioni, dunque procede su un registro pervasivo e diffuso. La crescita รจ silenziosa, graduale, globale, invisibile. Si pensi alla straordinariamente efficace e invisibile azione dellโ€™erosione: ne vediamo a un certo punto gli effetti, ma non vediamo il mentre. Accompagnare la trasformazione di sรฉ e degli altri, accompagnare e favorire il divenire e la crescita di un gruppo, di una comunitร , esige attesa, capacitร  di silenzio, esige anche la capacitร  di non-agire. E di discernere i tempi dellโ€™azione e i tempi dellโ€™inazione.

La parabola successiva (Mc 4,30-32) ha il suo centro nello scarto tra inizio e fine, fra realtร  iniziale, un seme minuscolo, e risultato finale, un albero grandioso. O, forse, il cuore della parabola รจ la trasformazione incredibile del seme una volta che รจ seminato a terra. L’accento, in questo caso, cade sulla terra in cui il seme cade e viene sepolto per morirvi, salvo poi spuntare e crescere fino a divenire un albero maestoso. In questa seconda accentuazione il richiamo cristologico รจ piรน evidente e noi siamo rinviati alla dimensione di paradosso della rivelazione e della fede cristiana. Il paradosso del Salvatore che รจ il Cristo morto, sepolto e risorto, il paradosso di una fede che ama chi non รจ amabile, crede lโ€™incredibile e spera lโ€™insperabile. Il paradosso ci ricorda che la vita non รจ linearitร  senza rotture, non รจ totalitร  senza mancanze, non รจ coerenza senza contraddizioni, non รจ luce senza ombre, non รจ regolaritร  senza incoerenze, non รจ logica senza asimmetrie. E con queste incoerenze, rotture, ombre, contraddizioni, asimmetrie, noi abbiamo sempre a che fare: perchรฉ esse sono in noi, negli altri e nella realtร . Sono nei rapporti difficili che viviamo con altri, nelle incomprensioni dei nostri linguaggi, nelle distanze che continuano ad abitare persone che pure vivono insieme da anni. Sono il segno della nostra condizione umile, povera, sempre in ricerca. Queste realtร  costituiscono il paradosso in cui siamo immersi. Il paradosso ormai abitato dal Cristo morto e risorto.

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A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del: Monastero di Bose