Il paradosso del seme
Poste dopo la parabola del seminatore e dei diversi tipi di terreno, in cui si afferma che โil seminatore semina la parolaโ (Mc 4,14), le due parabole odierne parlano dellโefficacia di tale parola. Efficacia che, per dispiegarsi, ha bisogno delle operazioni spirituali giร evocate in Mc 4,1-20 (interiorizzazione, perseveranza e lotta spirituale), ma anche di pazienza e di attesa, di fiducia, come appare nelle parabole di Mc 4,26-32. La fiducia necessaria quando si deve attendere e sperare obbligandosi al non intervento ed entrando in un rapporto con il tempo che richiede forza nei confronti di se stessi. Si tratta della forza del contadino che decide di non affrettare i tempi della crescita del seme, ma di assecondarne la crescita, accettando di non essere protagonista, ma anche della fiducia necessaria quando si deve credere che un seme minuscolo come il grano di senape possa divenire un albero maestoso. Entrando dunque in un rapporto con la realtร che richiede la forza di non cedere allโevidenza, di non arrendersi al visibile, ma di credere al paradosso, cioรจ che gli ultimi saranno i primi, che gli afflitti saranno beati, insomma di credere alla forza del vangelo. Il paradosso che sempre le parabole ci pongono di fronte รจ il paradosso stesso della fede cristiana, della morte salvifica del crocifisso. Esattamente come il Regno di Dio che รจ simile a un seme gettato e che deve essere sepolto nella terra, deve morire per germinare. Del resto, il seme, simbolo della parola di Dio e del Regno di Dio, รจ anche segno di Cristo stesso e della sua morte e resurrezione. โSe il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto fruttoโ (Gv 12,24). Caduta nel cuore di un uomo, la parola di Dio deve rimanervi, essere interiorizzata, ascoltata sempre di nuovo con perseveranza, deve essere fatta regnare sulle tante altre parole che distraggono dallโessenziale, fino a divenire principio di discernimento e di azione, dunque di caritร , di misericordia, di perdono, di giustizia, di veritร . E lโuomo che avrร coltivato cosรฌ nel proprio cuore la parola di Dio sarร da essa rigenerato, trasformato, e ne mostrerร lโefficacia nel suo stesso vivere, senza esibizionismi, โcome, egli stesso non lo saโ (cf. Mc 4,27).
Il testo di Mc 4,26-29 contiene la cosiddetta parabola del โseme che spunta da soloโ o forse, meglio, la parabola del contadino che lavora sia con lโazione (seminare, mietere) che con il non-agire. Tra la semina e la mietitura cโรจ un tempo di inattivitร del contadino. Inattivitร necessaria affinchรฉ il seme spunti da solo. Questo momento di astensione dal fare รจ essenziale perchรฉ il seme giunga alla sua germinazione e fruttificazione. Infatti, cโรจ un evento che il contadino non puรฒ determinare e dunque deve respingere la tentazione di farlo: che il contadino dorma o si alzi, egli nemmeno sa come il seme arrivi a maturare. Condizione dunque del maturare del frutto รจ il non forzare i tempi della crescita. Ma questa inattivitร non รจ indifferente nรฉ disimpegnata, ma colma di attesa, di attenzione, di pazienza, di fiducia. Nella parabola, il contadino รจ chiamato allโazione interiore, alla vigilanza di chi dovrร essere pronto a cogliere lโattimo in cui il frutto รจ maturo per mietere: โQuando il frutto รจ maturo, subito manda la falce, perchรฉ รจ giunta la mietituraโ (Mc 4,29).
La parabola narra la pazienza di Dio, la capacitร del Signore di attendere i tempi umani, ma essa suggerisce anche a noi una modalitร di lavoro che รจ la non-azione, lโacconsentire alla maturazione dellโaltro senza forzare i tempi, lโacconsentire allโazione di Dio nellโaltro senza fretta, senza presunzione e senza angoscia. Si tratta di imparare la faticosa arte di non agire, di aiutare ciรฒ che procede da solo, di porre un freno alla nostra impazienza, di astenerci dallโintervenire direttamente impedendo la giusta possibilitร del terreno di dare frutto nella propria misura (trenta, sessanta, cento) e a proprio tempo. Occorre lasciar fare facendo fiducia alla potenza del seme-parola di Dio e alla capacitร di accoglienza della terra-cuore umano. Lasciar fare senza trascurare, ma avendo cura e aiutando la crescita con lโatto generante della fiducia. La fiducia รจ la non-azione che consente allโaltro di trovare la forza e la possibilitร di agire, anzi, di essere, di divenire, di crescere. Ovviamente, va evitata la passivitร : occorrerร accompagnare il processo. Come testimoniano altre parabole evangeliche, occorre sarchiare il terreno, zapparlo, irrigarlo, insomma mettersi a disposizione del terreno e del seme perchรฉ possa germinare e crescere come pianta con i suoi tempi. Lโefficacia, in questo caso, รจ tutta nel non ingerirsi e nellโassecondare, con umiltร , un processo che avverrร non in virtรน dei nostri sforzi, ma sponte sua. Si tratta di mettersi a servizio di ciรฒ che procede da solo. Non รจ facile questo assecondare perchรฉ implica il nostro metterci in seconda posizione, il rinunciare allโessere i protagonisti indiscussi dellโevento. Certamente, nel concreto di tante situazioni questo equilibrio non รจ facile da trovare e occorrerร vagliare caso per caso tra intervento e attesa, ma il testo evangelico apre una prospettiva ispirata a mitezza. Non al clamore, ma alla discrezione, non al controllo ma alla fiducia, non allโagire, ma allโattesa, non allโintervento, ma allโascolto. Una parabola evangelica, che ha a che fare con il tempo e anche con il raccolto agricolo abbondante, illustra bene quanto sto dicendo. In Lc 12,16-21 si parla di un uomo ricco che elabora il modello di un piano da realizzare per mettere al sicuro il raccolto abbondante della sua campagna, piano che perรฒ sarร smentito dalla sua imprevedibile morte la notte stessa. Il progetto di questโuomo tendeva a controllare il tempo, a dominare il futuro, ad avere una presa sul passare del tempo. Noi spesso pensiamo lโefficacia come controllo. Gesรน dirร , facendo eco alla tradizione sapienziale biblica: โChi di voi, per quanto si dia da fare, puรฒ allungare anche di poco, la propria vita?โ (Lc 12,25).
Quale tipo di efficacia emerge allora? E quale tipo di rapporto con il tempo (e con gli altri e con il mondo)? Un rapporto umile e mite. Un rapporto con il tempo che conduce lโuomo a lasciar lavorare il tempo su di sรฉ: attenzione e attesa, pazienza e discernimento divengono atteggiamenti basilari per un rapporto con il tempo che favorisce la nostra crescita interiore. Accettiamo che il tempo ci lavori. E che non sia soltanto l’ambito in cui noi interveniamo sugli altri o sul mondo. Al tempo stesso, questo lasciarci lavorare dal tempo non รจ il passivo lasciare che il tempo passi, ma entrare in un tipo di lavoro e di azione che รจ invisibile e interiore, ma non per questo meno efficace, soprattutto perchรฉ si tratta di un lavoro non sullโesterioritร , ma sullโinterioritร . Questa dimensione di umiltร accompagna la fiducia nella trasformazione dellโaltro mentre attua una trasformazione in noi stessi. La trasformazione รจ invisibile, eppure รจ efficace. Noi ne vediamo solo il frutto, non il processo, che si sottrae alla visibilitร . Ci accorgiamo che siamo invecchiati, ma lo vediamo nellโarco di un periodo di tempo; vediamo il frutto maturo, ma non lo vediamo nel mentre della sua maturazione. La trasformazione non รจ locale, ma globale; non รจ momentanea, ma avviene nella durata, in un processo; non rinvia solo a un soggetto che ne sia lโattore, ma a un insieme di fattori, a un complesso di condizioni, dunque procede su un registro pervasivo e diffuso. La crescita รจ silenziosa, graduale, globale, invisibile. Si pensi alla straordinariamente efficace e invisibile azione dellโerosione: ne vediamo a un certo punto gli effetti, ma non vediamo il mentre. Accompagnare la trasformazione di sรฉ e degli altri, accompagnare e favorire il divenire e la crescita di un gruppo, di una comunitร , esige attesa, capacitร di silenzio, esige anche la capacitร di non-agire. E di discernere i tempi dellโazione e i tempi dellโinazione.
La parabola successiva (Mc 4,30-32) ha il suo centro nello scarto tra inizio e fine, fra realtร iniziale, un seme minuscolo, e risultato finale, un albero grandioso. O, forse, il cuore della parabola รจ la trasformazione incredibile del seme una volta che รจ seminato a terra. L’accento, in questo caso, cade sulla terra in cui il seme cade e viene sepolto per morirvi, salvo poi spuntare e crescere fino a divenire un albero maestoso. In questa seconda accentuazione il richiamo cristologico รจ piรน evidente e noi siamo rinviati alla dimensione di paradosso della rivelazione e della fede cristiana. Il paradosso del Salvatore che รจ il Cristo morto, sepolto e risorto, il paradosso di una fede che ama chi non รจ amabile, crede lโincredibile e spera lโinsperabile. Il paradosso ci ricorda che la vita non รจ linearitร senza rotture, non รจ totalitร senza mancanze, non รจ coerenza senza contraddizioni, non รจ luce senza ombre, non รจ regolaritร senza incoerenze, non รจ logica senza asimmetrie. E con queste incoerenze, rotture, ombre, contraddizioni, asimmetrie, noi abbiamo sempre a che fare: perchรฉ esse sono in noi, negli altri e nella realtร . Sono nei rapporti difficili che viviamo con altri, nelle incomprensioni dei nostri linguaggi, nelle distanze che continuano ad abitare persone che pure vivono insieme da anni. Sono il segno della nostra condizione umile, povera, sempre in ricerca. Queste realtร costituiscono il paradosso in cui siamo immersi. Il paradosso ormai abitato dal Cristo morto e risorto.
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A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del: Monastero di Bose



