La pace è un dono dello Spirito Santo, ma anche un “compito” che la Chiesa è chiamata a costruire sui valori della fraternità al suo interno e del dialogo all’esterno. È la riflessione di padre Raniero Cantalamessa nella sua seconda predica d’Avvento. Il servizio di Alessandro De Carolis:
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Raffinata strategia contro disarmante semplicità. Predisporre ciò che serve a uccidere e distruggere, una guerra, è uno sforzo di calcoli ultracomplessi e dal prezzo altissimo. Guadagnare il bene più alto cui non rinuncerebbe nessuno in nessuna cultura, la pace, è sempre, di partenza, a costo zero:
“La pace non si fa come la guerra. Per fare la guerra, occorrono lunghi preparativi: formare grossi eserciti, predisporre strategie, sancire alleanze e poi muovere compatti all’attacco. Guai a chi volesse cominciare per primo, da solo e alla spicciolata: sarebbe votato a sicura disfatta. La pace si fa esattamente al contrario: cominciando subito, per primi, anche uno solo, anche con una semplice stretta di mano. La pace si fa, diceva papa Francesco in una circostanza recente, ‘artigianalmente’”.
È uno dei tanti esempi che, com’è suo costume, padre Raniero Cantalamessa propone per dare corpo alle sue riflessioni spirituali. L’obiettivo della sua seconda meditazione è mostrare come la pace – considerata nella prima predica d’Avvento “dono di Dio” – sia anche un “compito” concreto e un impegno tipicamente cristiano, quello che Gesù affida ai discepoli, quello che lo induce a definire gli operatori di pace “figli di Dio”. Negli stessi anni in cui l’imperatore Augusto celebra la sua “pax romana” frutto di vittorie delle sue legioni, Gesù – osserva padre Cantalamessa – “rivela che esiste un altro modo di operare per la pace”:
“Anche la sua è una ‘pace frutto di vittorie’, ma vittorie su se stessi, non sugli altri, vittorie spirituali, non militari. Sulla croce, scrive san Paolo, Gesú ‘ha distrutto in se stesso l’inimicizia’: ha distrutto l’inimicizia, non il nemico, l’ha distrutta in se stesso, non negli altri. La via alla pace proposta dal Vangelo non ha senso solo nell’ambito della fede; vale anche nell’ambito politico. Oggi vediamo chiaramente che l’unica via alla pace è di distruggere l’inimicizia, non il nemico. I nemici si distruggono con le armi, l’inimicizia con il dialogo”.
E con il dialogo si crea la pace sociale, che è “frutto della giustizia”, e col dialogo si rende solida la pace fra le altre religioni, afferma padre Cantalamessa, in particolare quella tra i due popoli fratelli, quello ebreo e quello cristiano, che pure molte divisioni ha sofferto. Ma l’attenzione del predicatore pontificio è in particolare per la Chiesa e per il modo in cui essa vive la pace al suo interno. La pace, indica, si esprime attraverso la “fraternità”, cui Papa Francesco, ricorda, ha dedicato il suo Messaggio per la prossima Giornata della pace. Certo, per essere “un cuor solo e un’anima sola” serve lo Spirito Santo e la dimostrazione – prosegue – sta proprio in quello che accade il giorno della Pentecoste. Prima di ricevere lo Spirito, gli Apostoli “discutevano tra loro chi fosse il più grande”, dopo non pensano ad altro che all’annuncio della gloria di Dio. L’opposto, dice, dei costruttori della torre di Babele:
“Vogliono costruire un tempio alla divinità, ma non per la gloria della divinità; per diventare famosi, per farsi un nome, non per fare un nome a Dio. Dio è strumentalizzato, deve servire alla loro gloria. Anche gli apostoli, a Pentecoste, iniziano a costruire una città e una torre, la città di Dio che è la Chiesa, ma non più per farsi un nome, ma per farlo a Dio. E difatti, li ascoltatori li capiscono proprio perché non parlano di se stessi. Il fuoco di Pentecoste ha bruciato in loro ogni ambizione personale”.
Da qui Sant’Agostino, ricorda padre Cantalamessa, ha tratto lo spunto per scrivere “La Città di Dio”, dove la “città di Satana”, Babilonia, “costruita sull’amore di sé fino al disprezzo di Dio, si contrappone alla “città di Dio”, Gerusalemme, costruita “sull’amore di Dio fino al sacrificio di se stessi”. Ma, ecco il punto per padre Cantalamessa, le due città “sono due cantieri aperti fino alla fine del mondo e ognuno deve scegliere in quali dei due vuole impiegare la sua vita”:
“Ogni iniziativa, anche la più spirituale, come è la nuova evangelizzazione, può essere o Babele o Pentecoste. (Anche, naturalmente, questa meditazione che io sto dando). È Babele se ognuno con essa cerca di farsi un nome; è Pentecoste, se a dispetto del sentimento naturale di riuscire e ricevere approvazione, si rettifica costantemente le proprie intenzioni, ponendo la gloria di Dio e il bene della Chiesa al di sopra di tutti i propri desideri personali con la volontà, perché Dio guarda la volontà profonda, non i sentimenti naturali”.
Questo, conclude padre Cantalamessa, dimostra un fatto non sempre considerato: lo Spirito Santo “non annulla le differenze, non appiana automaticamente le divergenze”. Anche gli Apostoli dopo la Pentecoste ebbero motivi di discussione, ognuno espresse “la propria convinzione con rispetto e libertà” senza però dividersi in “partiti o schieramenti”:
“Accennavo alla Curia. Quale dono per la Chiesa se essa fosse un esempio di fraternità! Lo è già, almeno molto più di quanto il mondo e i suoi media vogliono far credere; ma può diventarlo sempre di più. La diversità di opinioni, abbiamo visto, non deve essere un ostacolo insormontabile. Basta, con l’aiuto dello Spirito Santo, rimettere ogni giorno al centro delle proprie intenzioni Gesù e il bene della Chiesa, e non il trionfo della propria opinione personale”.