Monastero di Bose: Meditazione al Vangelo del 8 novembre 2016

Lc  17, 7-10
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.

Ancora una parola che ci urta. Possono forse quelli che hanno fedelmente servito il loro padrone, arando il suo campo, pascolando il suo gregge, preparandogli da mangiare, in breve facendo tutto ciò che aspetta dai suoi servi – e quel padrone non è necessariamente cattivo o crudele –, possono forse quei servi concludere la loro giornata dicendo come chiede Gesù: “Siamo servi inutili!”? Impossibile!

[ads2]Gli esegeti hanno quindi cercato un senso attenuato al termine “inutile”: “Siamo nient’altro che servi… Siamo solo poveri servi… Siamo servi non necessari…”. Purtroppo l’aggettivo – piuttosto raro – utilizzato qui qualifica proprio ciò che è inutile e inutilizzabile. All’infuori del nostro testo qualifica nella Bibbia il servo pigro e fannullone della parabola dei talenti (Mt 25,30), un vaso rotto che non serve più a nulla (Bar 6,15), o traduce ancora la volontà di Davide di abbassarsi fino a diventare spregevole agli occhi di sua moglie, pur di poter danzare davanti al Signore (2 Sam 6,22).

Allora come comprendere questa inutilità? Notiamo che non il padrone della parabola pronuncia questo giudizio; è invece il Signore che invita i suoi discepoli a considerarsi tali. Ciò ha fatto dire ad un lettore attento: “Miserabile l’uomo che il Signore chiama ‘servo inutile’; ma beato colui che così chiama se stesso” (J.A. Bengel). Ma perché questo servo può dirsi beato? Perché ha capito che la sua esistenza non si svolgeva sotto il segno del dovuto, del commerciabile o del do ut des, ma sotto il segno della gratuità, nell’ampio spazio della grazia e della misericordia di Dio, e dunque nel regime della vera libertà. Ha capito che la sua vita poteva diventare un’opera d’arte che, se è vera, è gratuita perché senza prezzo, “inutile”… come un fiore.

E allora – oso appena scriverlo – quel servo vedrà il suo Signore fare proprio ciò che il padrone della parabola non poteva fare: togliersi la veste, prendere un asciugamano, cingerlo attorno alla vita e lavare i piedi dei suoi amici, come fece Gesù durante l’ultima cena (Gv 13,2-14), lui che ha detto: “Non sono venuto per essere servito, ma per servire” (cf. Lc 22,27). Non è forse ciò che fa quel padrone che torna dopo una lunga assenza e trova i suoi servi vigilanti: “In verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,37)? Scopriamo allora questo: poiché il Signore si comporta così nei nostri confronti, ci rende capaci di fare lo stesso ai nostri compagni in umanità.

fratel Daniel della comunità monastica di Bose

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