L’arte di trasmettere

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Qual è l’importanza del gesto di trasmettere nella vita umana? Questo atto profondo si esplicita in varie situazioni: filiazione, iniziazione, educazione… Ma trasmettere non significa solo educare o insegnare; è qualcos’altro: è passare l’essenza dell’esistenza, come si passa una palla da rugby, come si condivide una ricetta per cucinare. La trasmissione diventa lo spazio vitale di un incontro al di là di culture e generazioni, un’esperienza che apre alla conoscenza di se stessi e degli altri. Un libro brillante e profondo sull’eredità, necessaria ma a volte terribilmente ingombrante oppure assente, un libro che è anche testimonianza intima sulla connessione tra generazioni, famiglie e comunità.

Nathalie Sarthou-Lajus, filosofa, dopo aver insegnato nei licei francesi, dal 2007 è vice-direttrice della rivista di spiritualità e cultura Études, curata dai gesuiti di Francia.

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Dalla prefazione

Se si è già superata una certa linea d’ombra (diciamo, per comodità, quella dei cinquant’anni) non è possibile restare indifferenti al tema di questo bel saggio di Nathalie Sarthou-Lajus.

Non credo di esagerare affermando che non esiste, oggi, una questione più urgente da affrontare di quella meditata nelle pagine, così limpide e trascinanti, di questo libretto. Perché è evidente che tutti noi viviamo in una crisi della trasmissione di proporzioni talmente immani che nessuno, in un passato anche recente, le avrebbe immaginate. L’esperienza riguarda la sfera della vita intellettuale e della cultura nel senso più vasto tanto quanto quella della vita privata e delle sue tonalità emotive fondamentali. Coinvolge insegnanti, genitori, maestri spirituali, legislatori, artisti. Chiunque, insomma, fondi il senso del suo lavoro sulla durata, e dunque sul futuro. Non mi riferisco a una comoda astrazione, facile da trasformare in una vacua e insignificante petizione retorica.

Il concetto di futuro acquista una piena ed evidente realtà umana solo quando, semplicemente, noi lo identifichiamo con tutti i nostri simili più giovani di noi. Allievi, figli, figli di fratelli e di amici. Bande di fastidiosi ragazzini maleducati in un vagone della metropolitana. Singoli esemplari di un’umanità fragile e sensibile, nei quali riconosciamo qualcosa che un tempo siamo stati. Artisti alle prime armi, alla ricerca di uno stile personale. Spiriti curiosi con il loro bagaglio di domande illuminanti. La casistica è infinita, ma identica è l’impasse. Non voglio con questo suggerire che ci siano state epoche in cui trasmettere sia stato un gioco semplice. Ogni generazione umana, nessuna esclusa, ha dovuto inventare forme e contenuti adeguati a necessità eterne e a occasioni contingenti. Eppure, non ci possiamo nascondere la diffusa sensazione che per chi ci ha preceduto sia stato, in fin dei conti, più facile trasmetterci qualcosa di quanto lo sia per noi fare altrettanto, ora che è arrivato il nostro turno. Nathalie Sarthou-Lajus non insiste su questo punto, ma è pure lecito credere che sia il presupposto implicito del suo sforzo intellettuale e narrativo. Ogni autentica filosofia, io credo, nasce da un timore, dalla percezione di un rischio. Se ciò che è bene per noi ci fosse garantito, se fosse al riparo da immani forze disgregatrici, non ci sarebbe nessun bisogno di pensarlo.