La nascita della comunità: che cosa è successo a Pentecoste – Atti 2, 1-47

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«Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costrutto ri» (Sal. 127,1). La comunità, invece di prendere l’iniziativa, di organiz zarsi e di avventurarsi nel mondo con le bandiere al vento, si è ritirata ad aspettare e pregare. La prossima mossa tocca a Dio: tocca al Cristo risorto mantenere la sua promessa di concedere lo Spirito e di ristabili re il regno a Israele. In un certo senso la preghiera è appunto questo: l’audace, quasi arrogante sforzo della comunità di costringere Dio a mantenere le sue promesse. Nel pregare: «Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà», noi chiediamo che Dio sia coerente con se stesso e ci dia ciò che è stato promesso. In tal modo, la preghiera è il coraggio nato dal la fiducia nella fedeltà di Dio alle promesse che egli stesso fa, fiducia che egli sarà fedele a se stesso. Ciò che può sembrare un’insolente pre ghiera da parte della chiesa, che chiede di ricevere lo Spirito, il regno, la potenza e la restaurazione, è in realtà la più profonda umiltà: signifi ca, infatti, che la chiesa si rende conto umilmente che soltanto Dio può darle ciò di cui ha disperatamente bisogno.

Narrando la storia di Cristo, Luca, più di ogni altro Vangelo, dedica molta attenzione ai particolari della nascita di Gesù. Nel suo testo, i rac conti della nascita diventano una specie di illustrazione del resto della narrazione. «Nel mio principio sta la mia fine», dice il poeta T.S. Eliot. L’inizio della vita di una persona indica la direzione che quella vita prenderà. Molte cose che assumeranno più tardi un significato, si possono già discernere nelle nostre origini. Perciò rivolgiamo con grande inte resse la nostra attenzione alla nascita della chiesa a Pentecoste (un pa ragone tra la nascita di Gesù in Luca e quella della chiesa negli Atti mo stra infatti dei parallelismi avvincenti: entrambe le storie iniziano con la venuta dello Spirito; in tutte e due il periodo immediatamente pre cedente non è privo dell’opera dello Spirito; in entrambe le volte c’è una contrapposizione tra la promessa e Giovanni Battista). Conoscendo il modo in cui Luca utilizza una storia, possiamo aspettarci di imparare molto dai racconti dell’infanzia della prima comunità.

Si è soliti riferirsi a Pentecoste come al giorno della nascita della chie sa e in ciò vi è molta verità. Ma è assai più esatto parlare di Pasqua anzi ché di Pentecoste, come giorno della nascita. La storia di Pentecoste dev’es sere letta nel contesto di Lc. 24: il Signore risorto fu «da loro riconosciuto nello spezzare il pane» (Lc. 24,35); egli «ci spiegava le Scritture» (v. 32), e promise di dar loro lo stesso potere che lo aveva mosso, dicendo loro «ma voi rimanete in questa città, finché siate rivestiti di potenza all’alto» (v. 49). Quando Luca, nel suo racconto, separa la risurrezione dall’ascensio ne e da Pentecoste, non può averlo fatto con l’intenzione che noi li leg gessimo come tre eventi distinti, disuniti. A Pentecoste la potenza divina, che si era resa manifesta alla risurrezione e all’ascensione di Cristo, è con cessa al popolo di Dio. In origine, nella celebrazione ecclesiastica dell’anno liturgico, Pasqua, il giorno dell’Ascensione e Pentecoste erano molto più strettamente collegate. Oggi è possibile che una comunità normale e cor rente viva questi eventi come fenomeni separati, smarrendo così la verità per cui l’ascensione di Cristo e la discesa dello Spirito a Pentecoste sono ulteriori spiegazioni del miracolo di Pasqua. Fortunatamente, varie re centi riforme liturgiche si sforzano di collocare la liturgia di Pentecoste nel contesto della grande celebrazione di Pasqua, che dura cinquanta gior ni. La preghiera iniziale della messa cattolica di Pentecoste afferma: «On nipotente ed eterno Iddio, hai adempiuto la promessa di Pasqua invian doci il tuo Spirito santo» (Adolf ADAM, p. 90).

Il rumore di un vento impetuoso: Pentecoste – Atti 2,1-13

Quando ascoltiamo la storia della formazione della chiesa a Pente coste, noi cerchiamo la verità a proposito di questa nuova, particolare comunità. Non indaghiamo sulla verità fattuale, su ciò che è effettivamente successo. Siamo piuttosto interessati a conoscere la verità su ciò che il racconto pretende, su ciò che sostiene a proposito della natura di questa comunità. Leggendo il racconto della Pentecoste nel secondo ca pitolo degli Atti, partecipiamo alla lotta di un autore che cerca di dare realtà a qualche elemento di verità che riguarda la chiesa, qualche cosa che non può essere conosciuto se non mediante questo racconto. Pertan to, lasceremo da parte le questioni sul probabile contesto storico, sulle possibili motivazioni psicologiche o su altri problemi che potrebbero in teressarci: dobbiamo lasciare che la narrazione agisca a modo suo su di noi. Dobbiamo permettere che questa storia ridescriva e crei una nuova realtà per noi, lasciandoci scoprire le risposte alle domande che il racconto vorrebbe che noi ponessimo. Leggendo i racconti degli Atti, osserviamo che essi dimostrano scarso interesse per le cose che oggi servono a crea re una «buona storia»: un’introspezione costante, lo sviluppo dettagliato del carattere individuale, l’esplorazione dell’interiorità. Negli Atti, pos siamo leggere molte cose su Pietro e Paolo, ma impariamo ben poco su di loro in quanto individui. Il libro degli Atti si preoccupa poco delle pro ve e della cosmesi psichica delle varie personalità, perché è una letteratura al servizio della comunità. Al centro degli Atti vi è la comunità, e il Dio della comunità è l’attore principale del dramma.

Il racconto del giorno di Pentecoste a Gerusalemme è, per la chiesa, una specie di «classico» (David TRACY, pp. 99299), una storia a cui la comunità di fede attribuisce autorità e a cui ritorna ripetutamente co me a una guida per la propria vita. Vi si rivela che cosa sia la comunità narrando in dettaglio la sua origine, avvenuta attraverso un’opera po tente dello Spirito. A volte questo racconto ha dato speranza alla chie sa; altre volte l’ha giudicata e trovata manchevole.

Luca sembra credere che la verità sia disponibile solo come narrazione, che sia sempre nascosta a una diretta spiegazione o a una facile ac cessibilità. Possiamo aspettarci delle sorprese, perché la verità qui rivelata non è esente da ambiguità. Si può dare più di una interpretazione di quanto è successo nella camera alta di Pentecoste: nessuna singola inter pretazione può rendere giustizia dell’evento. Ascoltiamo il resoconto di qualche cosa di strano, che va oltre i limiti dell’immaginazione, qualche cosa di miracoloso, di imperscrutabile, un’origine che, secondo Luca, era l’unico modo con cui si potesse «spiegare» l’esistenza della chiesa. Nes suna spiegazione piatta, prosaica può rendere giustizia alla verità di co me la chiesa abbia iniziato la sua esistenza e di come dei discepoli, un tempo timidi, abbiano trovato la voce per proclamare la verità di Cristo. L’ambiguità e il mistero del racconto sono indicati dal modo scelto per la narrazione. È l’alba del giorno di Pentecoste e i seguaci di Gesù sono riuniti ad aspettare e pregare. Il nuovo giorno comincia con un’esplosione di suoni dal cielo e di vento (2,2). Le prospettive si allargano, si aprono. Può trattarsi dello stesso vento che, nel primissimo mattino di tutti i mattini, aleggiò sulle acque tenebrose: il vento della creazione (Gen. 1)? Ancora una volta il vento apporta qualche cosa alla vita.

Ciò che è stato dapprima udito è poi visto, sono lingue come di fuo co (2,3), ma soltanto al v. 4 apprendiamo che questa strana irruzione non è altro che lo Spirito santo promesso. Giovanni Battista aveva detto che Cristo: «vi battezzerà in Spirito santo e fuoco» (Lc. 3,16). Con scherzo sa ambiguità, Luca amplifica queste «lingue» fiammeggianti con il do no di «altre lingue»: lo Spirito, miracolosamente, rende in grado l’as semblea di parlare. Il primo dono dello Spirito è il dono della parola, il dono di esprimersi in diverse lingue. Ascoltiamo così un racconto sul l’irruzione dello Spirito nella comunità e sul primo frutto dello Spirito: il dono della proclamazione.

La scena si sposta rapidamente dall’interno della camera alta, dove i discepoli erano riuniti, all’esterno, nella strada, dove il messaggio evan gelico sta già attirando una folla. All’inizio del suo Vangelo, Luca carat terizza Giovanni Battista come uno che «convertirà molti dei figli d’I sraele al Signore, loro Dio» (Lc. 1,16). Ora, fuori, sulla strada, «dei Giu dei, uomini religiosi di ogni nazione che è sotto il cielo» (v. 5), per la pri ma volta si confrontano con la chiesa, e la loro risposta è lo smarrimen to. L’irruzione dello Spirito conduce all’annuncio da parte della comu nità e ciò reca confusione tra gli astanti. Queste lingue sono ovviamen te gli idiomi di «ogni nazione che è sotto il cielo», poiché ogni straniero esclama: «li udiamo parlare ciascuno nella nostra propria lingua natia» (v. 8). Nessuna nazionalità degli ebrei disseminati è esclusa dall’annun cio, come dimostra chiaramente la lista dei popoli presentata da Luca.

Ma nulla è evidente per gli spettatori, che sono totalmente «stupiti e perplessi» da tutto l’episodio e si domandano: «Che cosa significa que sto?» (v. 12). Alcuni di loro non vogliono sapere niente: hanno la loro teo ria urbana, sofisticata e sarcastica per quelle strane manifestazioni di en tusiasmo religioso: «sono pieni di vino dolce» (v. 13). La potenza che la chiesa proclama come dono di Dio, il mondo la spiega come ubriachez za. L’irrompere dello Spirito è assolutamente sconvolgente e profonda mente minaccioso per la folla della strada, che perciò deve escogitare una qualche spiegazione, una razionalizzazione di quell’evento irrazionale. In così pochi versetti, Luca ci ha fatto intravedere buona parte della trama degli Atti. Il modo in cui presenta questo episodio iniziale ci ri corda un’analoga scena di esordio: la visita di Gesù nella sinagoga del suo paese, Nazareth, in Lc. 4. Vi si vede il compiacimento della comu nità nei confronti del «figlio di Giuseppe» mutarsi da ammirazione in collera quando Gesù ricorda loro come il potente amore di Dio ha fatto irruzione nella vita di stranieri. Il primo sermone a Nazareth sembra presagire il seguito del Vangelo di Luca.

Atti 2 è una specie di sommario del resto della narrazione, e funzio na quasi nello stesso modo di Luca 4. Ancora una volta, il potere di Dio irrompe in un’assemblea convenzionale dei fedeli in maniera assoluta mente non convenzionale («Oggi si è adempiuta questa Scrittura, che voi udite», Lc. 4,21).

Ancora una volta, ogni cosa dipende dalla capacità dello Spirito di mettere in movimento la proclamazione. Ancora una volta, l’annuncio provoca domande, sbigottimento e scherno. Qui, nello scambio fra co loro che, sulla strada, sono ipocriti e sarcastici, oppure che seriamente pongono delle domande, vediamo uno schema che si ripeterà parecchie volte negli Atti.

Le domande della folla diventano lo spunto affinché uno dei disce poli si alzi e prenda la parola; e Luca si dilunga a interpretare il signifi cato degli eventi estatici per il doppio dei versetti che aveva dedicato al racconto dei fatti stessi. Come nel Vangelo, Luca adopera il miracolo co me un’occasione per l’annuncio.

Chi poteva prevedere quale di loro avrebbe parlato? Pietro lo abbia mo già udito in At. 1,1622. Ma allora, a causa del protrarsi del nostro ricordo di come egli fosse stato capace di ripetuti tradimenti quando le cose si erano messe male (Lc. 22,3134.5462), potevamo ascoltare con difficoltà Pietro parlare della necessità di trovare un sostituto per il tra ditore Giuda. Era Pietro che si era limitato a «seguire da lontano», era Pietro che la serva indusse a pronunciare le terribili parole: «Donna, non lo conosco» (Lc. 22,57). Lo abbiamo lasciato che piangeva in un cortile: un discepolo messo alla prova e trovato manchevole.

Perciò avvertiamo qualche cosa di leggermente falso nell’immedia to tentativo di Pietro di condannare e poi di sostituire Giuda in At. 1,16 22, poiché ricordiamo che Giuda non era stato l’unico a tradire. Eppu re qui, davanti alla folla in parte curiosa, in parte sarcastica, Pietro è il primo, proprio il primo ad alzare la voce e a proclamare apertamente la parola che soltanto poche settimane prima non aveva saputo dire, nep pure a una serva, a mezzanotte.

In Gen. 2,7 lo Spirito di Dio alitò vita nella polvere e creò un essere uma no. In At. 2,14 lo Spirito ha soffiato la vita in un discepolo un tempo vile, e ha creato un uomo nuovo che ora ha il dono di parlare audacemente.

La ricchezza del racconto di Luca sulla Pentecoste offre altre possi bilità di interpretazione. Noi, quando ci raduniamo in chiesa per ascol tare questa storia, somigliamo alla folla a motivo della molteplicità del le nostre interpretazioni di un evento così strano e meraviglioso. Da un lato, ci rendiamo conto che il racconto di Luca sul dono dello Spirito è diverso dal resoconto che se ne dà in Giov. 20,22. Sembra che Luca ab bia separato in tre momenti distinti ciò che una volta era considerato come un evento unico: la risurrezione, l’esaltazione e il conferimento dello Spirito. Forse, Luca lo fa per dare a ogni aspetto del trionfo di Pa squa il suo sviluppo proprio nell’insieme del racconto. Egli, inoltre, ve de lo Spirito in una luce diversa da quella del quarto Vangelo. Là, il do no si riferisce al legare e sciogliere nella chiesa, cioè al perdono dei pec cati. Qui, sebbene vi sia compreso il perdono dei peccati (At. 2,38), lo Spirito è il potere di testimoniare al mondo, il motore che spinge la chie sa nel mondo. Separando la risurrezione dall’ascensione/ esaltazione con uno spazio di quaranta giorni, Luca crea la sequenza che ci è fami liare nella celebrazione dell’anno liturgico, sebbene, come abbiamo già osservato, la risurrezione, l’ascensione e Pentecoste dovrebbero essere considerate come un’unica entità, come una triplice esplicazione del po tere di Dio di compiere ciò che vuole, nonostante tutti gli ostacoli. Il ven to soffia dove vuole.

Un’interpretazione popolare di Pentecoste sostiene che il racconto significhi che Babele è stata ribaltata (Gen. 11,19). Il linguaggio umano, reso confuso a Babele, è stato ristabilito. È dubbio che Luca avesse in mente cose del genere. Fino a questo momento, «le opere potenti di Dio» sono proclamate soltanto agli ebrei. Nel racconto, il tempo non è anco ra maturo perché sia sanata la divisione fra ebrei e pagani. La narrazio ne non pretende che vi sia ora un solo linguaggio: Luca, infatti, riferi sce che i discepoli parlano in un gran numero di idiomi. Non si riscon tra neppure la pretesa che Pentecoste sia il miracolo dell’udire anziché del parlare, di modo che ciascuno riceva una traduzione immediata. Qui si tratta del miracolo della proclamazione: quelli che non avevano «lin gua» per parlare delle «opere potenti di Dio», ora predicano.

È dubbio che qui Luca descriva dei discorsi estatici, la glossolalia di I Cor. 14, dato che quel tipo di discorso necessitava di una traduzione perché tutti capissero. Agiudicare dalla discussione sulla glossolalia nel testo di I Cor. 14, lo Spirito manifesta la sua presenza nelle chiese di Pao lo in modi diversi. Luca vuol descrivere una proclamazione in lingue straniere, ispirata dallo Spirito e comprensibile (2,68).

Alcuni interpreti hanno tentato di collegare il racconto di Pentecoste con il dono della Legge sul monte Sinai: la vecchia Legge fu data sul Si nai, una nuova Legge è stata data a Pentecoste. Può darsi che Paolo ab bia avuto quel pensiero (II Cor. 3), ma non Luca. Nel successivo discor so di Pietro (2,1440), non vi è alcun riferimento al Sinai o al patto. Il rap porto tra l’inizio di Israele al Sinai e quello della chiesa a Pentecoste è esile, e si può fare soltanto con riferimenti a un materiale estraneo al rac conto stesso (TALBERT, Acts, pp. 14-15).

Il racconto della discesa dello Spirito a Pentecoste contiene un rim provero per coloro che oggi, nella chiesa, lo considerano come un fe nomeno esotico dal significato soprattutto interiore e squisitamente personale. Luca si dà molto da fare per insistere che questa effusione dello Spirito è tutt’altro che interiore: tutto avviene con vento e fuoco, parole ad alta voce, confusi mormorii e discussioni pubbliche. Lo Spi rito è il potere che permette alla chiesa di «rendersi pubblica» con la sua buona notizia, di attirare una folla, come vedremo nel prossimo capitolo, di avere qualche cosa da dire che vale la pena di ascoltare. Un vento nuovo è scatenato sulla terra e provoca una tempesta di col lera e confusione in alcuni, un fresco soffio di speranza e di potenza in altri. Pentecoste è un fenomeno dal significato essenzialmente evan gelistico, reso evidente dalla domanda principale della folla: Che cosa dobbiamo fare per essere salvati? Mentre la gente che aveva udito il ser mone di Gesù a Nazareth si faceva beffe dicendo: «Non è costui il fi glio di Giuseppe?», Luca è felicissimo di riferire che il sermone di Pie tro, ispirato dallo Spirito, ha prodotto dei convertiti entusiasti. Ades so «ebrei di ogni nazione sotto il cielo» si avvicinano alla buona noti zia. In quegli ultimi giorni, come aveva predetto Lc. 2,32, è stato re staurato il vero Israele e, come apprendiamo più tardi (At. 11,18), sarà una luce per tutte le nazioni.

Come cantava il salmista:

«Il nostro Dio viene e non se ne starà in silenzio; lo precede un fuoco divorante, intorno a lui infuria la tempesta» (Sal. 50,3).

Che cosa significa tutto questo? Un sermone di Pentecoste – Atti 2,14-41

Uno dei motivi per cui a noi tutti piace leggere i vangeli è perché tut ti amiamo dei bei racconti. In questo commentario abbiamo sottolinea to il potere che ha la narrazione di aprire la nostra immaginazione e rio rientare la nostra visione del mondo. Ma i discorsi, soprattutto i ser moni, sono un’altra questione. I convenzionali «tre punti e una poesia» che costituiscono il sermone non sono ciò che definiremmo un diverti mento. Negli Atti vi sono ventotto discorsi, soprattutto di Pietro e di Paolo, che occupano quasi un terzo di tutto il testo. L’esegeta degli Atti deve superare un innato pregiudizio verso tanto sermoneggiare. Per ché Luca ha scritto tanta parte degli Atti sotto forma di discorsi?

L’accusa di ubriachezza da parte della folla fornisce a Pietro lo spun to per fare un discorso. È un modello che vedremo ripetuto negli Atti. La chiesa si confronta con una folla in cui alcuni capiscono e altri no. Un apostolo parla interpretando l’evangelo mediante un sermone. Lo sche ma di Luca era uno dei favoriti dagli storici classici: con i discorsi attri buiti a illustri personaggi, gli antichi interpretavano il significato degli eventi. A prima vista può sembrare una convenzione letteraria prosai ca e alquanto priva di immaginazione, finché ricordiamo che, nel no stro tempo, il discorso di Gettysburg di Lincoln, per esempio, fece più che aprire un cimitero: diede significato e sostanza a una catastrofe na zionale [A Gettysburg, nel 1863, venne combattuta una battaglia deci siva della guerra di Secessione americana, in cui i nordisti sconfissero i sudisti; N.d.T.]. Così il discorso di Martin Luther King Jr., I have a Dream (Ho un sogno), reinterpretava la storia e la costituzione americana e mo bilitava un popolo ad agire per la giustizia. Un buon discorso ci può ro vesciare come un guanto.

Inoltre, un buon discorso ha una forma identificabile e memorabile. I buoni oratori sviluppano uno stile caratteristico e un modo particola re di trattare la loro materia. Sebbene non tutti i discorsi degli Atti se guano lo stesso schema, C.H. DODD (p. 11) identifica un preciso modello per la loro presentazione del kerygma apostolico:

L’epoca dell’adempimento, o della venuta del regno di Dio, è vicina (vv. 16-21).

Tale venuta ha avuto luogo mediante il ministero, le morte e la ri surrezione di Gesù (vv. 22-23).

In virtù della risurrezione, Gesù è esaltato alla destra di Dio quale capo messianico del nuovo Israele (vv. 24-36).

Lo Spirito santo nella chiesa è il segno dell’attuale potere e gloria di Cristo (v. 33).

L’era messianica giungerà rapidamente alla consumazione con la se conda venuta di Cristo (vv. 34-35).

Il perdono, lo Spirito santo e la salvezza vengono con il pentimento (vv. 38-39).

DODD dice: «Possiamo considerare che questo è il significato che l’au tore degli Atti dà all’espressione “predicare il regno di Dio”» (p. 24). Que sto è il centro della predicazione apostolica come è presentata negli At ti. Ma chi è il pubblico cui si rivolge tale predicazione? Miscredenti per la strada? Nella nostra precedente discussione sullo scopo degli Atti, af fermavamo che furono probabilmente scritti per gli «iniziati», cioè per dei cristiani che lottavano per conservare l’audacia, la fede e la fiducia nel confronto con i nuovi conflitti interni e/ o esterni. Il dialogo fra Luca e Teofilo faceva parte di una lunga conversazione fra Dio e il suo popo lo. Luca è il mediatore tra la chiesa di Teofilo e il gruppo dei testimoni oculari del fatto di Cristo. Il pubblico cui si rivolge il discorso di Pietro sono lo scetticismo, il dubbio e la disperazione della chiesa stessa.

Ogni discorso efficace oltrepassa ciò che viene detto, a chiè detto, per ché è anche una questione di come lo si dice. Pietro controbatte secca mente la sarcastica accusa di ubriachezza (vv. 1415). In precedenza, le folle avevano lanciato la medesima accusa di ebbrezza contro Gesù stes so: «Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccato ri!» (Lc. 7,34). La chiesa si rende conto chiaramente che quei fatti, con siderati dalla folla soltanto come ubriachezza molesta e scandalosa ir razionalità, sono l’adempimento della profezia (vv. 1421). Gioele af ferma che nei terribili e prodigiosi ultimi giorni lo Spirito sarà sparso su ogni persona (Gioele 2,2832). Lo Spirito, che un tempo era l’esotico pos sesso di pochi profeti, è ora offerto a tutti. La folla, che pure conosce le Scritture, non discerne ciò che le Scritture stesse dimostrano in modo così evidente.

Attraverso tutti gli Atti ritroveremo questa tecnica di promessa e adempimento, come la si scorge nel Vangelo di Luca. Il suo scopo consiste nel collegare strettamente la storia di Israele con la vita di Gesù e nell’affer mare che la comunità fondata dallo Spirito si trova in un’ininterrotta se quenza con gli stessi schemi di aspettativa e di realizzazione che riguar davano Israele. Quest’ultimo esiste come adempimento della promessa fatta ad Abramo, una promessa che Luca ripete spesso (At. 3,25; 7,28.17; Lc. 1,15.7273). Quando Gesù nacque, l’evento era stato annunciato dai profeti. Gesù, ripieno dello Spirito, conferma le speranze messianiche (Lc. 4,1619). Persino le sue sofferenze e la sua morte, così scandalosi per il mondo, facevano parte della profezia (Lc. 24,44). Dopo la sua risurre zione, diventa improvvisamente evidente per i discepoli che quegli even ti della vita e del ministero di Gesù, apparentemente sconcertanti, face vano parte del piano di Dio (Lc. 24) e costituiscono quindi la base per la loro missione di predicare a tutte le nazioni (Lc. 24,4748).

Nel discorso di Pietro ascoltiamo un ebreo che parla ad altri ebrei, collegando la storia di Gesù con le loro Scritture. Per Luca, le Scritture degli ebrei sono il contesto fondamentale entro cui si inquadra la vita di Gesù. In questo processo, l’Antico Testamento non viene «cristianiz zato», anzi, gli si permette di dire la sua parola specifica sulla salvezza che viene. Luca non parla mai della «fondazione» della chiesa o della formazione di un qualche «nuovo Israele». Vi è un solo Israele, il po polo fedele, che risponde con fedeltà alle promesse di Dio. La storia di Gesù unisce Israele e lo divide al tempo stesso. Negli Atti, i discepoli, che secondo la visione di Luca sono il nocciolo dell’Israele veramente fedele, predicano la parola con cui giunge finalmente a compimento la missione di Israele verso tutte le nazioni: «Perché per voi è la promes sa, per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, per quanti il Si gnore, nostro Dio, ne chiamerà» (2,39).

La narrazione che Pietro fa della storia di Gesù provoca una reazio ne immediata e precisa: la folla vuole sapere che cosa fare (2,37). Il keryg ma ha il potere di evocare ciò che celebra: la gente è spinta a pentirsi ascoltando il racconto. Fortunatamente, per la folla e per tutti quelli che hanno udito in seguito la storia, il dono dello Spirito e il perdono dei peccati non sono solo per i testimoni oculari o per coloro che furono tra i primi a vedere e udire. No, «per voi è la promessa, per i vostri figli, e per tutti quelli che sono lontani, per quanti il Signore, nostro Dio, ne chiamerà» (2,39).

Il potere che qui viene offerto non è quello dell’abilità omiletica di Pie tro di eccitare la folla a un parossismo emotivo, né quello della sincera determinazione interiore della folla di rimettere a posto le cose con Dio. La narrazione del discorso di Pietro a Pentecoste è fatta in modo tale da non lasciare alcun dubbio che si tratta del potere dello Spirito. La paro la che convince la folla è l’externum verbum, la «parola esterna» (Lutero), che viene dal di fuori. È vero che la folla reagisce, chiedendo che cosa de ve fare adesso, ma la sua azione è una risposta, non un’iniziativa. La pa rola che Pietro ha detto loro non è qualche cosa che abbiano derivato dal loro essere interiore né è parte della loro esperienza o della loro inclina zione naturale. Niente di tutto ciò può salvarli, perché appartengono, co me tutti noi, a un «perversa generazione» (2,40).

Li salva la storia di ciò che è accaduto: cioè, che in Gesù il Cristo c’è una potenza scatenata nel mondo, che è potenza a loro favore. Essi non hanno cercato Gesù, anzi, sono quelli «che il Signore, nostro Dio, chia merà» (2,39). L’uso che Luca fa, in At. 2,40, della forma verbale dell’im perativo passivo indica questo carattere esterno dello Spirito e della sua opera a loro favore; molte traduzioni ne hanno offuscato il senso. Non è tanto «Salvatevi…», quanto piuttosto «Lasciatevi salvare!». Qui c’è la sal vezza non come sincero sforzo umano, bensì come salvezza che oltre passa tale sforzo, una salvezza che può venire solo come chiamata e co me azione dello Spirito, il quale al tempo stesso ne dà testimonianza e la rende possibile per la folla. Lo spirito che ha ispirato profeti come Gioe le adesso ispira Pietro perché dica che cosa è successo a favore di Israe le. È iniziato da parte di Dio il ristabilimento di un popolo profetico.

Il modo in cui Luca racconta l’immediata reazione della folla e la pronta risposta di Pietro alla loro domanda, aggiunge un tocco di ur genza. Il tempo è breve: Luca include nella citazione di Gioele «negli ul timi tempi» (2,17), «su» e «segni giù» (2,19) per creare uno stato d’ani mo escatologico, da finedeitempi. Le immagini ci ricordano il discor so sui segni della fine, che si trova in Lc. 21,1011.25. Pietro «testimo niava con molte altre parole e li esortava» (2,40) a causa dell’urgenza del tempo. La risposta che Pietro chiede è diretta: pentitevi e siate bat tezzati nel nome di Gesù Cristo (v. 38). Gli interpreti di questa risposta dovrebbero fare attenzione:

  1. A non ridurla a uno schema di passi successivi per la salvezza di una persona: chi è «compunto nel cuore» (v. 37) si pente, è battezzato, riceve il perdono, quindi riceve lo Spirito Questo modello di con versione non compare in nessun passo degli Atti. Altrove, quando Lu ca racconta la conversione di una folla, dice semplicemente che molti credettero (4,4; 5,14) o che si convertirono al Signore (9,35). Qui non ab biamo una proceduradisalvezza, ma piuttosto la conclusione del di scorso di Pietro. In esso, Pietro ha dichiarato la colpa degli abitanti di Gerusalemme per la morte di Gesù (2,2223.36). Quando essi chiedono che cosa devono fare, il contesto rende evidente che occorre fare qual che cosa riguardo alla loro colpa. Negli Atti, in altri contesti di conver sione, il pentimento e il perdono hanno una parte, ma qui il tema del pentimento e del perdono presenta gli aspetti centrali della conversio ne. Per Luca, la capacità di pentirsi e il ricevere lo Spirito sono doni di Dio (5,3132; 11,18). Anzi, come lo Spirito è un dono, così sono pure do ni miracolosi il pentimento e il perdono di Israele. La storia del giorno di Pentecoste comincia con il dono dello Spirito agli apostoli riuniti, e si conclude con il dono della riconciliazione per coloro che prima sta vano all’esterno. Considerato nel contesto globale della narrazione di Luca, questo racconto della conversione di Pentecoste può essere il pez zo più significativo della storia più ampia della meravigliosa crescita della comunità cristiana. La risposta, sorprendente e formidabile, del l’uditorio di Pietro può essere descritta solo come un dono di Dio. Il mo vimento della buona notizia «fino alle estremità della terra» è iniziato (vedi più avanti, 7.1.1 Riflessioni. La conversione in Atti).
  2. Non dovremmo neppure cercare di dare troppa importanza al ri ferimento al battesimo nel nome di Cristo seguito dalla menzione del dono dello Spirito santo (2,38). Qui non viene presentato un modello se quenziale, come mostreranno ulteriori riferimenti negli Atti al battesi mo e allo Spirito santo (10,47; 19,17). Luca non intende suggerire una sequenza: prima il «battesimo con acqua» e poi il «battesimo con lo Spi rito». Acqua e Spirito stanno insieme. Infatti, quando la folla si chiede che cosa deve fare per essere salvata, cioè che cosa deve fare per rice vere il perdono e lo Spirito, Pietro suggerisce pentimento e perdono.
  1. D’altra parte, non vi è un rapporto meccanico fra l’acqua e lo Spi rito, come mostrano altri riferimenti in LucaAtti sulla venuta dello Spi rito. 3 riferisce la risposta di Giovanni Battista che dichiarava: «Io vi battezzo in acqua, ma viene colui che è più forte di me. […] Egli vi bat tezzerà in Spirito santo e fuoco». At. 1,5 (e 11,16) sembra contrapporre il battesimo con acqua a quello con lo Spirito. Ma At. 10,47 e 19,17 af fermano l’unità dell’acqua e dello Spirito. Luca non contrappone acqua e Spirito, ma vuole piuttosto sottolineare l’aspetto caratteristico che il battesimo cristiano apporta al più antico battesimo di Giovanni: lo Spi rito. In un certo senso, in LucaAtti vi sono due tipi di battesimo, ma non si tratta dello Spirito contro l’acqua. Sono piuttosto il battesimo di preparazione di Giovanni in attesa del Cristo e il battesimo di Gesù con l’acqua e lo Spirito. Luca non conosce nessun esempio assoluto di come e quando viene dato lo Spirito. At. 10,4448 mostra Cornelio e la sua fa miglia che ricevono lo Spirito prima di essere stati battezzati. Ma in At. 19,56, lo Spirito viene sui discepoli di Giovanni Battista quando Paolo impone loro le mani dopo il loro battesimo. Senza dubbio, questa diver sità in LucaAtti è la testimonianza della diversità e della libertà dell’e sperienza dello Spirito nella chiesa del tempo di Luca.
  2. Infine, non si dovrebbe dare troppa importanza all’antica formu la battesimale «nel nome di Gesù» (v. 38), come se lo Spirito fosse in qualche modo separato da tale At. 2,38 riporta la menzione del nome di Gesù con la promessa che, sottoponendosi al battesimo, «voi riceverete il dono dello Spirito Santo». Negli Atti, lo Spirito soffia dove vuole, collegato all’atto del battesimo e dell’imposizione delle mani, ma rifiutando di essere vincolato da definizioni e convenzioni ecclesiasti che posteriori. Essere battezzati nel nome di Gesù Cristo, significa par tecipare al suo Spirito vivificante.

Il discorso di Pietro a Pentecoste termina perciò con la potenza dello Spirito offerta a tutti. La folla, emersa dalle fila di una «perversa gene razione» non deve essere abbandonata a se stessa: è destinataria della predicazione resa efficace dallo Spirito. Mentre coloro che ascoltano la predica della domenica mattina seduti nei banchi possono considerare i sermoni del loro predicatore come un dono di dubbio valore, dovrem mo riflettere ancora una volta sul significato di come, nelle parole di Pao lo, «la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo» (Rom. 10,17). Ciò che le persone dicono, contribuisce a precisare in che mondo vivono. Luca costruisce ciò che Pietro avrebbe dovuto dire a Pentecoste e pertanto il mondo che, secondo lui, la folla dovrebbe scegliere. Il discorso guarda oltre Pietro, verso il Dio che sal va. In questo sermone ciò che conta è il Dio che mantiene le promesse, di modo che, alla fine della predica, nessuno dubita che c’è un Dio atti vo in questo mondo. Questo discorso crea le condizioni di cui parla:

«Tu mi hai fatto conoscere le vie della vita.

Tu mi riempirai di gioia con la tua presenza» (2,28).

L’evangelo incarnato nella comunità – Atti 2,42-47

Se gli Atti fossero stati scritti dal nostro punto di vista odierno, ci aspet teremmo che tutto il chiasso di Pentecoste, il commovente sermone di Pietro e la vivace risposta della folla, così come sono raccontati in 2,141, fossero la fine della storia. La vita religiosa contemporanea è afflitta da entusiasmi momentanei, da periodici eccessi e da superficialità. Infatti, nel linguaggio moderno, «entusiastico» (letteralmente: pieno di Dio) è un sinonimo virtuale per un’esaltazione di breve durata, che non si espri me in un impegno a lungo termine. Quindi noi diffidiamo dell’emozio ne religiosa perché abbiamo l’impressione che tutto quello scalpore e di sturbo carismatico non daranno grande risultato. L’asserzione che «in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone» ci commuove poco, anche se l’intento di Luca era di impressionare. Abbiamo visto va ri risvegli e vampate di religiosità venire e svanire.

Ma Luca non ci lascia lì: ci mostra invece un’incarnazione immediata dell’entusiasmo di Pentecoste. Il nostro sguardo viene orientato verso la chiesa in cui scorgiamo una quadruplice incarnazione dell’evangelo.

  1. «Erano perseveranti nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli». La distinzione, un tempo popolare, fra Didaché (insegnamento) e kerygma (predicazione) apostolici è stata superata. Certamente Luca fa una dif ferenza tra ciò che viene detto agli estranei e ciò che è proclamato nella vita corrente della comunità. Lungi da qualsiasi «inclusivismo» mo derno e sentimentale, Luca è molto attento a separare quelli che sono dentro, che sanno, da quelli di fuori, che non Eppure, insegnan do a coloro che sanno le cose che già sanno, si continua a includervi l’evangelo. Infatti, gli Atti stessi facevano parte dell’ininterrotto sforzo del la chiesa di riflettere sulle implicazioni e applicazioni dell’evangelo al proprio interno, in modo da poter continuare a essere fedele alla sua vo cazione. La chiesa non deve lasciarsi trascinare da un momentaneo ec cesso emotivo all’altro per risuscitare Pentecoste su una base settima nale; deve invece dirigersi immediatamente al compito dell’insegna mento, mantenendo un atteggiamento rigoroso su ciò che essa stessa è e su ciò che deve fare.
  1. La chiesa è in comunione. Lo Spirito ha prodotto la koinonia. Alcu ni hanno osservato che il vero miracolo di Pentecoste è appunto questo: che, cioè, si formi un corpo unificato di credenti dall’assieme di gente così diversa «di ogni nazione che è sotto il cielo» (2,5). Inoltre, questa koinonia non può essere soltanto un’affettuosa animorum concordia, un amore di iniziativa umana tra fratelli e sorelle. È una comunione che produce sorprendenti «prodigi e segni» (2,43), tra cui il non meno im portante è che: «tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune», vendendo i loro beni e distribuendoli a tutti (2,44 45). Alcuni commentatori posteriori sembrano impegnati a dimostrare che tali asserzioni sono un’invenzione idealizzata e romantica della chie sa di un’epoca Le loro interpretazioni rendono più che altro testimonianza della perdita di fiducia della chiesa nella capacità che ha la fede di rovesciare tutti gli ordinamenti materiali e sociali. Più tardi, Luca, in 4,3637, parla della generosità di Barnaba, e questo fatto può forse suggerire l’idea che la primitiva condivisione e messa in comune fosse qualche cosa di eccezionale nella comunità. Eppure, la comunan za dei beni ci è pervenuta come testimonianza concreta che qualcosa di sconvolgente, di specifico e reale era successo a quelle persone. Deut. 15,45 promette un paese libero dalla povertà. Tale paese prende ora for ma visibile in una comunione che si estende oltre i limiti dell’amicizia convenzionale. In Lc. 19,8, un piccolo uomo incontra l’evangelo e ri sponde separandosi dai beni materiali (cfr. Lc 12,13-34). Adesso, è tut ta una comunità che fa lo stesso. Inoltre, la spiritualità che ci è descrit ta qui è qualche cosa di notevolmente diverso da uno slancio inconsi stente. Tutto ciò che un tempo possedevano è stato reso comune, di mo do che la parola koinonia assume un significato ben preciso.
  2. La chiesa s’impegna nel «rompere il pane». Il raccogliersi della fra tellanza intorno alla mensa è un’altra espressione visibile e tangibile del l’opera dello Spirito nella nuova comunità. Sfogliate il Vangelo di Luca e osservate tutte le occasioni in cui «egli era a tavola con loro». In Luca, ogni episodio che parla di un pasto è un momento di comunione, di rivelazione e di polemica. Gesù è criticato per la compagnia con cui sie de a tavola: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro» (Lc. 15,2), era l’accusa che gli rivolgevano. Egli non riusciva a fare una corretta di stinzione tra le persone che sedevano alla sua mensa. Sappiamo, dal l’esperienza contemporanea, che i confini sociali fra le persone sono spesso imposti con particolare rigore a tavola: mangiare assieme è un segno di unità, di solidarietà e di profonda amicizia, un segno visibile che le barriere sociali che una volta affliggevano queste persone sono state abbattute. È una questione dibattuta se il «rompere il pane» faccia riferimento alla nostra Eucaristia o Cena del Signore. Probabilmente, al tempo di Luca, la chiesa di Pietro non conosceva la differenza che noi facciamo tra la chiesa che spezza semplicemente il pane e quella che lo rompe come un’attività religiosa sacramentale. Secondo la buona tra dizione ebraica, dopo che la benedizione è stata pronunciata a tavola, la tavola stessa diventa un luogo santo e il mangiare insieme un’attività sacra. Sappiamo, dal v. 46, che la loro condivisione del cibo con mani gioiose e generose richiama alla mente la gioia esuberante dell’avven to del Messia (così dice BULTMANN). Forse ogni pasto era vissuto dalla chiesa come un’anticipazione del banchetto messianico, un pregustare la promessa di Gesù che i suoi seguaci avrebbero «mangiato e bevuto alla mia tavola nel mio regno» (Lc. 22,30). Nel suo mangiare e bere, la comunità della risurrezione è già un adempimento parziale di quella promessa, godendo ora di quello che sarà portato a compimento nel re gno di Dio. L’invocazione del profeta è stata esaudita.
    «O voi tutti che siete assetati, venite alle acque, voi che non avete denaro… Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte» (Is. 55,1)
  1. La chiesa ha anche dei momenti di preghiera, probabilmente alle stesse ore delle devozioni quotidiane Inoltre, ci viene detto che continuavano a frequentare il Tempio (2,46). In mezzo a tutte le novità, la comunità non trascura le tradizioni degli antenati, non cessa di esse re devotamente ebraica. In tutte queste attività di insegnamento comu nione e condivisione, di rompere il pane e pregare, vediamo un quadro completo della chiesa, i segni dell’autentica incarnazione dello Spirito nella vita della comunità, un criterio per valutare l’attività della chiesa odierna. Quando si osservano le comunità moderne, molte con i loro movimentati circoli di attività – yoga, ceramica, tessitura di panieri, as sistenza diurna – viene il dubbio che si sostituisca l’evangelo con la socializzazione, che si offra un attivismo cordiale anziché una comunità potentemente animata dallo Spirito. Ci si domanda se la chiesa non do vrebbe riflettere di nuovo che quando tutto è stato detto e fatto «una co sa sola è necessaria» (Lc. 10,41); è necessario, cioè, incarnare, nell’unico modo possibile alla chiesa, la specificità della sua vocazione a consa crare noi stessi «all’insegnamento degli apostoli e nella comunione fra terna, nel rompere il pane e nella preghiera» (2,42).

La successione delle attività in 2,4247 non è presentata come un pri mitivo ordine liturgico da cui possiamo ricostruire lo schema di un an tico culto cristiano (contro JEREMIAS, pp. 118122). Anzi, Luca predilige questo tipo di riassunti (cfr. 4,3235; 5,1216) come un mezzo per colle gare due unità letterarie (in questo caso, il discorso di Pietro alla folla e quello dinanzi al Tempio). Cosa ancora più importante, esso concentra la nostra attenzione sulla preoccupazione principale degli Atti: la co munità. Nel racconto del libro degli Atti hanno un loro posto dei per sonaggi singoli, in particolare Pietro e Paolo, ma sono essi il vero obiet tivo della narrazione? Né la figura dell’uno né quella dell’altro sono svi luppate con una maggiore profondità di dettagli. Luca ha scarso inte resse per la biografia degli apostoli o per una primitiva vita dei santi. Il protagonista degli Atti è lo Spirito santo che vivifica e guida la giovane chiesa. Questo sommario dell’attività della chiesa orienta la nostra at tenzione lontano dalla preoccupazione per i singoli attori e verso il ve ro interesse della narrazione: la comunità.

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