Commento al Vangelo del 23 gennaio 2018 – Monastero di Bose

La buona notizia che ci viene incontro nella pagina del vangelo di oggi è l’annuncio che il Signore Gesù ha il potere, l’autorità efficace di ricreare le nostre relazioni, di riplasmare i rapporti che intessono il nostro quotidiano, di creare comunità nell’amore. Sì, perché la sequela del Signore Gesù non è un cammino solitario, sia pur di ascesa verso Dio, ma è soprattutto l’adempiersi del comandamento nuovo (cf. Gv 13,34), il comandamento dell’amore.

E questo amore non è tanto un sentimento che sgorga dal nostro cuore: non c’è nessun ideale o mito della spontaneità nei vangeli, poiché non tutto ciò che viene dal cuore, non tutto ciò che è spontaneo è buono; anzi, dal cuore umano, dice Gesù, può uscire ogni sorta di male (cf. Mc 7,20-22). Che cosa, dunque, può rendere il nostro cuore di pietra un cuore di carne (cf. Ez 36,26)? Che cosa può renderci capaci di amare? Che cosa può rigenerare le nostre relazioni distrutte? La Prima lettera di Pietro ce lo annuncia: è la parola del vangelo che ci è stato annunciato, parola che ha il potere di creare fra noi un amore fraterno intenso, sincero e non ipocrita (cf. 1Pt 1,22-25).

È la parola del Signore che può ricreare una comunità, poiché parola efficace (cf. Eb 4,12), parola portatrice dell’energia, della forza dello Spirito santo (cf. Ef 6,17). Ma parola che, allo stesso tempo, unisce e divide (cf. Lc 12,51-53). Cosa vuol dire che divide? Vuol dire che tronca le relazioni mondane, idolatriche, alienanti che noi talvolta stabiliamo nelle nostre esistenze, relazioni che in realtà non possono essere chiamate tali, perché la relazione è sempre un evento positivo, di comunione, mentre il frutto del peccato è sempre violenza, uccisione dell’altro, rottura della comunione.

E allora si tratta di rinunciare, in modo serio e radicale, a tutto ciò che ostacola il nuovo ordine di relazioni instaurato dall’obbedienza alla parola del Signore, e subordinare a esso tutto il resto: persone, ideali, cose, lavoro… amori che non sono in sé negativi, ma che non devono essere prioritari, pena la perdita della libertà che nasce dalla sequela del Signore, dal rimanere nella verità della sua parola che, sola, rende veramente liberi (cf. Gv 8,31-32), e dunque nella pace e felici; pena l’incapacità di vivere in quella gioiosa comunione di fratelli e sorelle nel Signore che il vangelo ci porta come lieto annuncio, come frutto dell’azione di Dio nella vita della sua comunità.

La chiesa, dunque, è costituita, fondata, ricreata dalla parola del Signore: è la parola del Signore, e attraverso di essa lo Spirito di Dio, che può ringiovanire la chiesa, non l’età anagrafica dei suoi membri: Matteo ci dice che colui che si rifiutò di seguire Gesù era un giovane (cf. Mt 19,16-22), e Giovanni narra che colui al quale Gesù preannunciò una nuova nascita, un “ringiovanimento” era un anziano (cf. Gv 3,3-8).

La speranza della chiesa non deriva, dunque, da un criterio mondano, ma solo dal Signore e dalla potenza della sua parola, mediante la quale egli si rende presente e operante nella vita della sua comunità e nella storia dell’umanità.

Ma noi accogliamo questa parola? È questo ciò che ci narra il testo che segue, della parabola del buon seminatore.

sorella Cecilia della comunità monastica di Bose

Mc 3, 31-35
Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, giunsero la madre di Gesù e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo.
Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano».
Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

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