Commento al Vangelo del 14 settembre 2017 – Monastero di Bose

La solenne festa dell’esaltazione della croce ci riporta al mistero che è al cuore della nostra fede e della nostra vita cristiana: il mistero della croce “vivificante” di Cristo, il sacramento del legno della croce divenuto albero di vita, il “luogo” della morte di Gesù Cristo divenuto grembo che ha generato Cristo a una nuova vita di risorto e grembo generatore di vita anche per noi, morti con lui e conrisorti insieme a lui. Così dobbiamo tornare a rileggere la pagina della crocifissione narrata da Giovanni nel suo vangelo: non come una pagina morta che narra di un morto, ma come l’ultima parola d’amore narrataci da un amante della vita, Gesù, che volendo amare i suoi “non a parole … ma con i fatti e nella verità” (1Gv 3,18), li amò fino all’estremo. E cos’è l’estremo dell’amore se non l’amare fino al dono estremo di quello che è il dono per eccellenza, la vita?

Tutto il brano è racchiuso in questa logica del dono della vita per amore. Una scena racchiusa tra due espressioni che trasfigurano il male subìto, preannuncio di morte, nel luogo di un amore attivo, generatore di vita: “Pilato consegnò Gesù” (Gv 19,16) e “Gesù, chinato il capo, consegnò lo Spirito” (Gv 19,30). Dunque il senso spirituale della pagina giovannea sta tutto dentro questo movimento: Gesù, nel momento in cui viene consegnato, consegna la sua vita. Tutto in questo brano parla di una disponibilità cosciente, di una tensione consapevole, di un sì alla consegna totale di sé.

Un “sì” detto con pochissime parole. Un “sì” alla consegna di sé detto innanzitutto con il corpo, che diviene parola più eloquente di ogni alito pronunciato. Infatti è soprattutto nel suo corpo che Gesù, obbedendo al Padre, vive quel movimento di generazione del dono a partire dalla morte inflitta, subita, permettendo così al Padre di compiere in lui la sua opera: il suo corpo, su cui era stata gettata la croce, ora la assume e la porta su di sé (cf. Gv 19,17); il suo corpo, che fissato sulla croce passivamente viene issato in alto dai soldati, “Dio lo esaltò” al di sopra di tutto e di tutti (Fil 2,9); le sue braccia, inchiodate brutalmente al legno, si aprono divenendo immagine di un abbraccio universale, di un corpo offerto, di un amore attivo che non tiene più nulla per sé, ma diviene dono di vita nuova.

Un “sì” detto, infine, con la relazione e con l’affetto. A chi, condannandolo a morte, gli toglieva la vita, e dunque quella preziosa rete di relazioni con coloro che “egli amava”, Gesù risponde ancora con un gesto di amore attivo e gratuito: affida le proprie relazioni familiari, tutte riassunte nella figura della madre, e le proprie relazioni di affetto, tutte riassunte nella figura del discepolo che “egli amava”, queste relazioni Gesù le affida al futuro, le fa rinascere aprendole a un futuro sganciato dalla sua presenza. Anche con questo gesto, accompagnato da pochissime parole, Gesù ci mostra cos’è l’amore, sempre, e non solo al momento epifanico della morte: l’amore è morire per l’altro, dare la vita affinché l’altro, che mi è stato accanto e che ho amato, viva più di me e oltre me. Questo l’amore che la croce di Cristo ha esaltato, cha ha sovraesaltato al di sopra di ogni altro amore.

Fratel Matteo della comunità monastica di Bose

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Leggi il brano del Vangelo

Gv 3, 13-17
Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

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