Catechesi Di Monsignor Marco Frisina su San Filippo Neri

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CATECHESI DI MONSIGNOR MARCO FRISINA SU SAN FILIPPO NERI

INCONTRO SULLA “GAUDETE ET EXSULTATE”

Basilica di San Giovanni in Laterano – 11 febbraio 2019

Quello che avete ascoltato è proprio uno di quelle burle ma anche insegnamenti insieme nello stile di Filippo. San Filippo Neri era maestro in queste apparenti burle, ma autentiche catechesi e insegnamenti fatti però con questo stile, con il sorriso. Pensate che Roma nel 1527 aveva avuto uno shock terribile, una esperienza tremenda, il Sacco di Roma, famoso, quello dei lanzichenecchi, aveva turbato profondamente la città, l’aveva distrutta l’aveva proprio veramente violentata, c’erano stati episodi di violenza, di sopraffazione furti sacrilegi. E pensate gli anni successivi Roma subì le conseguenze di questo shock; era depressa corrotta… Una città triste, che lentamente si riprendeva da questa esperienza traumatica.

Filippo venne Roma qualche anno dopo, intorno agli anni Trenta del Cinquecento. Lui venne mandato prima a Cassino, pensate, da uno zio a fare il commerciante; ma lui veniva da Firenze, non era romano, era di Firenze. Si portò con sé anche quell’umorismo fiorentino – la chiamo sempre l’umorismo etrusco, ché gli etruschi avevano inventato anche dei linguaggi comici particolari – e si portò con sé umorismo, buon senso e un carattere straordinariamente intraprendente, forte, che non si arrendeva mai. Ma ecco che viene a Roma in pellegrinaggio nel 1534 e comincia questa sua nuova vita, che poi diventa anche una vita in cui obbediva alla chiamata del Signore, una chiamata fortissima, ma che si concretizzava in un desiderio grande di darsi da fare per aiutare il prossimo a trovare Dio. Ma come sempre succede questi santi diventano santi gradualmente, scoprono gradualmente cosa Dio vuole da loro. Comincia a fare il precettore a Roma e comincia a conoscere Roma, ad amarla, a diventare romano da fiorentino che era. Pensate nel 1538 conosci anche sant’Ignazio; perché Roma è sempre stato luogo in cui i santi venivano come pellegrini, venivano come missionari. Era un luogo in cui si respirava la fede viva attraverso questi grandi testimoni, sia gli antichi martiri sia i nuovi santi e tra questi c’erano anche tanti sconosciuti che si davano da fare con gli infermi, con i poveri. In una Roma così che era stata così devastata molti cristiani veri molti, sia sacerdoti e laici, mossi proprio dall’amore di Dio, si davano da fare per risollevarla, per ricostruirla, soprattutto moralmente.

Ed ecco che gradualmente Filippo, attraverso anche la sua vita con i malati, con i poveri della città, scopre che le Indie, che lui voleva raggiungere, voleva come tante fare il missionario lontano, aveva chiesto anche di andare tra i gesuiti, ma poi non riuscì, non fu accettato… ma le Indie erano a Roma. Perché essere missionario a Roma era più difficile che andare a farlo lontano, proprio perché c’erano tante realtà ugualmente bisognose di aiuto, tante persone tristi che avevano bisogno di ritrovare il senso della loro vita. E qui a San Girolamo della Carità comincia a confessare, e tanti vengono da lui; perché immaginatevi con quanto amore accoglieva questi penitenti. Quando lui divenne prete fu una festa per i penitenti perché trovarono finalmente un cuore che li accoglieva.

Ma diciamo la verità era un po’ originale, era sempre stato un po’ originale, e all’epoca il suo stile il suo nemico fu proprio il cardinal vicario dell’epoca: Virgilio Rosari vedeva con sospetto quest’uomo. Bisogna dire la verità, ora difendiamo anche l’antico cardinal vicario: vedeva questo sacerdote originale che andava a fare cose bizzarre, e soprattutto non faceva le cose che facevano gli altri, e cominciò a sospettare… Poi, sapete, era un periodo anche abbastanza delicato, c’era la Riforma in atto, c’erano scismi, eresie, e quindi c’era sempre un po’ la paura di queste novità. Filippo andava a cercare i ragazzi di strada quando questi, dicevano, frequentava persone diciamo non proprio edificanti, ma quando questi ragazzi dicevano parole un po’ grosse, lui le correggeva. Faccio un esempio – siamo in cattedrale ma…. – Filippo aveva capito come correggere quando dicevano “te possi morì ammazzato” lui ci aggiungeva “per la fede”. E allora in questa maniera, “per la fede” ecco che diventava da un offesa diventava invece un’esortazione al martirio, addirittura! Lui così, con la simpatia, con la bonarietà, riuscì a catturare – questa è la cosa straordinaria – a catturare le tristezze di questi ragazzi e anche gli adulti, le tristezze profonde che fanno diventare soprattutto i giovani li fanno diventare violenti, li fanno diventare aggressivi. Lui non si mise là con la frusta, ma come diceva spesso, “prendendoli per il loro verso”. Capite, come si poteva non guardare con un po’ di paura un uomo, un prete, che prendeva riuniva questi ragazzi a pregare, gli faceva commentare la parola di Dio a loro. I primi incontri che lui faceva nel quello che poi diventerà l’oratorio, oratorio filippino, erano fatti di preghiere in cui raccogliendo queste persone le faceva liberamente commentare così come, diceva, lo Spirito dettava loro la Parola di Dio. Oggi questa è una cosa bella, normale, ma all’epoca di Filippo puzzava di eresia. E invece lui così stimolava nel cuore di questi giovani l’amore per la Parola di Dio viva, viva in loro perché lo Spirito Santo che era in loro poteva esprimere ciò che voleva, ciò che desiderava. E poi li faceva cantare! Non solo. In questo periodo di carnevale – io l’ho scelto anche questo santo, in questi giorni, anche per il tema ma anche perché era opportuno –, nel periodo di carnevale Roma è sempre stata un po’ vivace, e Filippo organizzava invece delle belle gite, fatte con preghiere e catechesi, ma anche riempiva i carri con tutte le leccornie che poteva trovare torte, frutti, cibi vari, e andavano per le Sette Chiese; il famoso pellegrinaggio delle Sette Chiese era una gita. Dovete pensare che Roma non era come oggi; quando si arriva a San Giovanni c’era la campagna qui intorno. Quando si andava a San Sebastiano Fuori le Mura era proprio campagna piena. Le famose sette basiliche: San Pietro, San Paolo, San Sebastiano, San Giovanni, Santa Croce, San Lorenzo, Santa Maria Maggiore. Faceva un grande giro. Ogni volta ci si fermava e si istruiva il popolo con una catechesi, ma poi si mangiava, si cantava, si ballava pure, e si andava così facendo questo pellegrinaggio festa, insieme. Era originale, indubbiamente.

Non parliamo degli scherzi! Aveva poi questa capacità di fare comunella con altri santi. Con san Felice da Cantalice si facevano gli scherzi tra di loro, ossia san Filippo li faceva a San Felice, san Felice li faceva a Filippo. Oppure Filippo andava a tirare la barba agli svizzeri per vedere la reazione che facevano! Quelli non potevano muoversi, stavano fermi… lui rideva, si divertiva. Oppure uscire con mezza barba tagliata e mezza no, per farsi prendere in giro; tutti lo prendevano in giro e lui rideva con loro. Pazzo, si direbbe. Ma una persona libera, di una libertà tale da non temere nulla. Ma tra i suoi amici c’erano santi come san Carlo Borromeo, serissimo; stava facendo la riforma a Milano eppure lui si faceva consigliare da Filippo. Così il Papa; lui visse anche nell’epoca di un Papa serissimo come poteva essere Sisto V, che era veramente serio, era terribile la riforma che voleva fare dei costumi di Roma, era veramente severa, e Filippo riuscì a farsi apprezzare anche da lui. Non solo. Sapete tutti l’episodio di Clemente VIII? Papa Clemente VIII voleva farlo cardinale perché lo aveva aiutato, pensate, nientemeno per riconciliarsi con Enrico IV di Francia, quindi i potenti; Filippo era capacissimo di superare le difficoltà aiutando anche il Papa a trovare le strategie giuste per la riconciliazione, per la pace. Lo voleva fare cardinale una volta, e lui rifiutò; la seconda volta, e rifiutò. Perché diventare cardinale significava entrare in un mondo che Filippo non vedeva per sé, si sentiva a disagio in mezzo a questi principi – all’epoca veramente principi, figuriamoci Filippo –; la terza volta gli mandò addirittura il monsignore con il galero, ovvero il cappello cardinalizio, come a dire: “Basta, accetta, finiscila”. Invece prese Filippo questo cappello – l’episodio lo conoscete sicuramente – lo gettò in aria come un gioco, come se fosse oggi un frisbee, dicendo: “Paradiso, Paradiso!”. E tutti quanti che stavano intorno, i ragazzi, tutti a ridere, compreso il monsignore che aveva mandato il Papa. Che doveva fare?

Quest’uomo era incorreggibilmente semplice, in maniera io direi quasi morbosamente umile, ma non perché l’umile, l’umiltà per lui era sai quelli “le madonnine infilzate” direbbe Manzoni, i “collitorti”, queste cose qui. No, era umile perché lui era libero, e come si diceva prima nel commento che si faceva del testo del Papa, Filippo era allegro e felice perché non aveva veramente niente di più da desiderare che quello che possedeva, che era questo dono dello Spirito, questo amore per Dio, questo amore per i fratelli. E che cosa desiderava di più? Tutto il resto sarebbe stato un peso. Questo per lui era gioia. Che cosa era la gioia, per lui? La gioia non era possedere qualcosa, raggiungere uno scopo, ma semplicemente essere nell’amore di Dio, essere amante di Dio, vivere di questo amore. Questo era gioia, ma gioia vera. Capace di prendersi in giro sempre e di prendere in giro anche il prossimo, con quell’amore con cui lui sapeva farlo però. Ricordiamoci che le tristezze si scacciano, come diceva Filippo, ridendo di se stessi. È difficile ridere di se stessi, noi ci prendiamo sempre molto sul serio, ma avete visto Filippo faceva il modo che il prossimo rideva di lui stesso, rideva con loro. Non prendersi mai sul serio… chi si prende sul serio crede di essere qualcosa di importante, ma Filippo sapeva di essere solo Filippo, e rideva di se stesso. Così come nella preghiera. La preghiera non era una cosa seria, seriosa, difficile. È un incontro con Dio, è gioioso, non poteva essere triste. Non solo. Quando dice quella frase: “Tristezza e malinconia fuori da casa mia”, la diceva a chi aveva gli scrupoli. Sapete, gli scrupoli cosa? Sono quelli che credono di trovare anche nelle ombre della propria vita dei peccati. Di solito sono sante persone, che però sono ansiose, sono piene di complessi, di problematiche varie. Pensate che per rallegrare un depresso Filippo si mise a ballare davanti a lui; questo che prima era tutto triste, scrupoloso, era sicuramente uno che veramente stava male, ma vedendo Filippo ballare come uno stupido davanti a lui si mise a ridere e insieme a Filippo. Risero insieme, gli passò la malinconia. Non aveva paura, Filippo, di mettersi in queste condizioni ridicole ma per amore faceva anche questo.

Per esempio la tenerezza che aveva Filippo verso tutti verso i peccatori, i penitenti, tutti lo sapevano, perché li amava non per modo di dire, li amava realmente e tutti sentivano questo, sentivano battere il cuore perché aveva avuto quella dilatazione del cuore, che è stata prima raccontata, che quando batteva il cuore lo sentivano. E lui si riempiva di questo amore ogni volta che celebrava. Quando celebrava la Messa, per non distrarsi con le estasi durante la Messa, in sacrestia si faceva raccontare le facezie del Pievano Arlotto, ovverosia si faceva leggere le barzellette, così diceva, mi distraggo e non vado in estasi. Invece iniziava la Messa e l’estasi gli veniva ugualmente. Questa libertà di espressione sono straordinarie; lui per esempio usava il canto, la musica, perché sapeva che con la musica catturava il cuore della gente. Faceva fare anche ai cantori pontifici, che all’epoca erano molto rinomati, erano famosi, faceva cantare cose semplici per il popolo e con il popolo. E a musicisti anche come Palestrina, come Amerio, faceva scrivere cose semplici per far cantare tutti. Pensate come era moderno.

Quindi la santità si misurava con la gioia, per lui. Cosa dire per noi? Noi siamo a Roma. Filippo ha lasciato, secondo me, nel cuore dei romani, ha lasciato tanto. Perché, sapete, i santi non passano così, lasciano sempre un’eredità, lasciano sempre un seme nel cuore di una città, di una diocesi, di un luogo, e credo che noi ce lo portiamo dentro, nel nostro dna spirituale e dobbiamo riscoprirlo, però, dobbiamo ritrovare quella bonarietà tipica di Roma. I romani sono sempre così… Io la settimana scorsa stavo a Milano e dicono, voi romani che siete sempre così, poi con la battuta… Beh, io dico, ma questo è un complimento, perché vuol dire che siamo gli eredi di santi come Filippo. Ritrovare quella serenità che non si fonda sulla superficialità, ma sulla preghiera, sulla libertà del cuore, sui sacramenti, quello che Filippo faceva sulla Parola di Dio. Riscoprire che la semplicità non è mai una cosa che ci mette in secondo piano, o ci fa essere persone così… poverino quello, non capisce niente… No, la semplicità e la cosa più preziosa che possiamo avere, la libertà del cuore, quella libertà che nasce dall’amore vero. Come una mamma che non ha paura di manifestare il proprio amore per i figli. Perché noi dobbiamo aver paura di manifestare il nostro amore per Dio e per i fratelli? E poi scoprire anche che si deve gioire insieme. Quando si condivide la gioia, la gioia si moltiplica; quando invece siamo egoisti vogliamo il piacere per noi, ma Filippo ci insegna a condividere la gioia, e la gioia nasce nelle cose semplici, che una volta condivise, partecipate, diventano straordinarie. Alla fine noi canteremo una cosa umoristica, che voi conoscete però che è “Preferisco il Paradiso”; se la conoscete cantatela con il coro, alla fine, senza paura. Lo dico soprattutto agli uomini, che stentano a cantare perché si sentono più importanti delle donne, forse… Prima sentivo solo le donne che cantano… Con semplicità, Filippo ci direbbe questo, cantate, scusatemi che siete muti? Cantiamo. Adesso abbiamo l’ultima meditazione musicale e chiediamo proprio al Signore questo grande dono che è la gioia.

Fonte: Diocesi di Roma