Card. Angelo Scola – Bellezza e Speranza

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DIOCESI DI GROSSETO

IN CAMMINO CON GLI UOMINI INSIEME A GESÙ

CONFERENZA DI APERTURA DELLA SETTIMANA DELLA BELLEZZA

“I VOLTI DELLA SPERANZA

S. EM. CARD. ANGELO SCOLA, ARCIVESCOVO EMERITO DI MILANO

SPERANZA E BELLEZZA

GROSSETO, 21 OTTOBRE 2017

1. Esperienza indimenticabile

Preparando qualche appunto per i tre momenti che sono stato invitato a passare con voi [– l’incontro con gli insegnanti, gli alunni e il personale addetto della Scuola “Madonna delle Grazie”, dei Licei e della Fondazione Liceo Chelli, dell’Associazione semper Chelli e di tutti i sostenitori, in special modo la Diocesi; questo intervento in Cattedrale che si inserisce nella Settimana della bellezza e, infine, il decisivo gesto della celebrazione eucaristica teletrasmessa –] molti ricordi della presenza a Grosseto si sono immediatamente affacciati alla mia ormai scarsa memoria. Altri sono andato a ricercarli in taluni materiali di archivio.

Non è il caso di raccontarvi quanto sia stata decisiva per me l’esperienza grossetana. Mi basta dirvi una cosa: con voi ho “imparato a fare il Vescovo”. Per introdurre questi miei appunti citerò solo un ricordo: quello della visita che S. E. Mons. Adelmo Tacconi, con i responsabili della Diocesi, mi fece a Roma nel luglio 1991, subito dopo la notizia della mia nomina. Nomina che suscitò, sia in voi che in me, una assoluta sorpresa. Non ero mai stato a Grosseto e, della bella terra di Maremma, conoscevo soltanto il ritornello del famoso canto “Maremma amara” che mi aveva accompagnato in tante uscite giovanili. L’immediata familiarità di quell’incontro confermò da parte vostra l’intensa espressione di Paolo: «Il mio cuore si è tutto aperto per voi» (2Cor 6,11) che vi avevo indirizzato in quei giorni.

Dopo il primo anno, nella Lettera pastorale Sarete liberi davvero, così commentavo questo versetto: «Mi faceva impressione il fatto che la Chiesa potesse esigere da un uomo di entrare, di colpo, nella vita di migliaia di persone con il compito di amarle tutte, ad una ad una, senza averle mai viste prima. E, contemporaneamente, potesse domandare a decine di migliaia di persone di accoglierne un’altra come si accoglie un padre» (Sarete liberi davvero, 1992, 10).

Imparai presto ad esprimermi con le parole “noi di Grosseto”.

Perché citare questo ricordo nel contesto di una settimana culturale ormai di notorietà nazionale? Non è divenuto, dopo 26 anni, un particolare insignificante? Questi primi elementi della mia esperienza grossetana si sono scolpiti nella mia mente fondendosi quasi subito con l’incontaminata bellezza dei paesaggi e la solida fierezza del popolo maremmano. Ne presi coscienza fin dalla prima processione di San Lorenzo mentre camminavo, non senza paura, davanti agli enormi buoi dalle lunghe corna, scortato dai valorosi butteri a cavallo. Se dovessi concentrare in una parola tutto quello che porto nell’animo di quell’inizio e, più in generale, della mia permanenza a Grosseto, potrei usare solo la parola bellezza.

2. Bellezza e verità

Entriamo così nel tema che mi è stato affidato, ma che avrete la possibilità di approfondire negli eventi che seguiranno lungo la settimana.

La bellezza è lo “splendore della verità” dicevano gli antichi. Un bel paesaggio, una compagnia significativa, una coltivazione della terra ben riuscita, l’esito del lavoro paziente e accurato di un artigiano, un’opera di architettura, di scultura, di pittura, di poesia, di musica, ma soprattutto il miracolo sempre sorprendente di una nascita, o la dolcezza dell’amore vero tra l’uomo e la donna, l’energia con cui si sta dentro una prova legata alla salute, alla morte… In tutte queste manifestazioni della vita brilla (splendore) la verità. La verità, infatti, non è anzitutto un discorso o un insieme di formule logicamente ben compaginate. Ha piuttosto a che fare con la meraviglia con cui la bellezza si impone allo sguardo, fino a raggiungere il cuore di ogni uomo. Impressiona vedere a Milano, dalle finestre dell’arcivescovado, le lunghe file di persone che, pazientemente, anche sotto il sole cocente o la pioggia, fanno ore di coda per visitare il Duomo o le mostre di Palazzo Reale. Può darsi che tanti visitatori siano mossi soltanto da un effimero estetismo. A mio parere, in questa ricerca di bellezza, è in gioco piuttosto l’indomabile sete di verità che muove il cuore dell’uomo verso una risposta. Oggi più che mai le pesanti contraddizioni dell’attuale «cambiamento d’epoca»1 provocano in noi, uomini disincantati del Terzo millennio, quel desiderio «di vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio» di cui parla la Prima Lettera a Timoteo (cfr. 1Tm. 1,18-2,7).

3. Speranza: la bellezza della virtù “bambina”

Dobbiamo essere realisti. Perché la sete di questa bellezza e l’appagamento che essa domanda non si riducano a un’utopia, ma conducano a un definitivo compimento della nostra persona e della nostra comunità, devono durare per sempre. Reputo pertanto molto opportuno che il titolo di questa Settimana abbia affiancato alla riflessione sulla bellezza quella sulla speranza. Se la bellezza, infatti, in ogni sua manifestazione esige il “per sempre”, allora per sua natura la bellezza apre alla speranza.

Per meglio comprendere questa affermazione, conviene esplicitarla ulteriormente. Come tutte le dimensioni profonde della nostra persona – penso al conoscere, all’amare, al credere… – anche lo sperare presenta due importanti caratteristiche. Anzitutto la speranza non possiamo darcela da noi e, in secondo luogo, non possiamo guadagnarla una volta per tutte.

Cosa intendo dire? Un grande scrittore francese, Charles Péguy, socialista convertito al cattolicesimo, morto ancor giovane nella battaglia della Marna, ha dedicato un’affascinante opera poetica al tema della speranza. Quasi all’inizio colpisce un’affermazione lapidaria che può aiutarci a capire ciò su cui stiamo riflettendo. Dice il poeta: «Per sperare… bisogna essere molto felici, bisogna… aver ricevuto una grande grazia»2. C’è un antefatto della speranza ed è la gioia di aver ricevuto un dono, “uno stato di grazia”. La speranza – almeno nella sua genesi – non è qualcosa che possiamo darci da noi. Péguy, infatti, la rappresenta come una virtù bambina. Ad essa si lega sempre un elemento di totale gratuità, come il gioco libero e imprevedibile di un bimbo. Per questo la “piccola” speranza, per camminare, ha bisogno di essere tenuta per mano dalle sorelle maggiori, la fede e la carità. Anche se – a ben vedere – con i suoi scatti, i suoi salti, i suoi guizzi è lei che finisce per segnare la strada.

Ma il percorso tracciato dalla virtù bambina è pieno di sorprese, non lo si può possedere in anticipo, domanda un impegno sempre rinnovato, una ginnastica del desiderio, per dirla con Sant’Agostino. Lo capiscono bene il papà e la mamma di fronte alla bellezza della nascita di un figlio: non se lo danno da sé, lo ricevono da Dio («ho ricevuto un figlio grazie al Signore»3) ma, nello stesso tempo, ogni genitore sa che dovrà seguire il percorso imprevedibile di quel figlio (dono) lungo tutta l’esistenza, perché la bellezza originaria mantenga le promesse destate.

4. La perdita della speranza

Pensiamo un istante ai primi racconti del Libro della Genesi (cfr. Gn 1-3) in cui, ai nostri progenitori, è assicurata una condizione di felicità, carica di bellezza e di speranza. Cosa potevano attendersi di più? Tuttavia nessun dono che Dio fa può essere dato per scontato. Perseverare nella speranza domanda l’esercizio della libertà che non può non rinnovare continuamente il proprio “sì”. Se si dimentica di questo l’uomo – ma anche una società – fa l’esperienza dolorosa della perdita della speranza. Rileggendo l’inizio del capitolo 3 del Libro della Genesi, colpisce il contrasto tra la prima e la seconda parte del versetto 8. La prima, «Dio passeggiava nel giardino alla brezza del giorno»

(Gn 3,8a), è un’immagine che trasuda bellezza. Nella seconda, «L’uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell’eterno Dio» (Gn 3,8b), allo splendore della bellezza si sostituisce una triste opacità.

L’impegno dell’uomo con il suo futuro, con il “per sempre” viene dissolto dalla rottura della relazione tra l’uomo e Dio. Emerge con forza la caducità umana ultimamente segnata dall’esperienza della morte. Questa si mette di traverso sulla linea della storia personale e sociale e sembra così vanificare ogni umano tentativo4.

Da questa realistica visione della vicenda storica possiamo ricavare due dati importanti per ben comprendere il nesso bellezza-speranza5.

Il primo riguarda la nostra biografia, la nostra storia personale. Fragilità, contraddizioni, peccato – anticipi di morte – sembrano spegnere, col passare del tempo, il garrulo gioco della piccola speranza. Dove va a finire l’incoercibile anelito al “per sempre”? Non subentra piuttosto, nella nostra vita, uno smarrimento che immalinconisce e può condurre fino alla disperazione? In ogni caso, la prospettiva che dovremo morire non riduce forse bellezza, speranza, felicità a qualche eccezionale “bel giorno” nel cielo brumoso della nostra esistenza quotidiana? Come usiamo la nostra libertà di fronte al “rumore di fondo” della morte (Houellebecq)?

Dove cercare allora le disposizioni della mente, del cuore e dell’azione per rendere la vita bella e gustosa anche nella più dura delle prove? Penso soprattutto ai giovani che oggi vivono mescolando singolare energia e forza creativa ad una fragilità che spinge all’evasione fino all’autodistruzione.

Il secondo livello su cui incide la pressione della morte è quello sociale. Per essere descritto, anche solo sommariamente, il travaglio di questo cambiamento d’epoca domanderebbe pagine e pagine. È caratterizzato da una complessità che pochi tecnocrati a stento cercano di dominare servendosi di soffocanti burocrazie. Nello stesso tempo radicalizza problemi antichi e, a causa della globalizzazione, ne presenta di nuovi. Mi riferisco alla miseria di molti popoli, alla povertà, alla mancanza di beni primari, di educazione e, in connessione con questi fattori, al permanere di numerosissimi focolai di guerra – taluni molto estesi –, alla minaccia dell’uso delle armi nucleari, al doloroso fenomeno dei profughi e dei migranti, al meticciamento di civiltà che implica una ancora insufficiente capacità di dialogo interreligioso e interculturale. A tutto questo dobbiamo aggiungere il rischio dei non pochi deliri da parte delle scienze e di quell’arte singolare, la medicina, che fa uso di molte scienze e sofisticate tecnologie6. Giustamente esse combattono per ridurre le pene della morte ma, non di rado, insinuano la falsa speranza che la morte possa essere sconfitta.

5. Il Crocifisso glorioso

Non c’è allora via d’uscita?7 Davvero la morte non potrà mai essere vinta? Di più: la speranza del “per sempre” non si riduce, come sostiene Adorno, ad «Un miserevole inganno con cui si cerca di nascondere il fatto che gli uomini, ormai, crepano e basta»8?

Ma, in un puntuale momento della storia, irrompe l’annuncio degli angeli agli amici di un uomo morto sfigurato sulla croce: «È risorto, non è qui. Vi precede in Galilea». Gesù Cristo compie fino in fondo l’esperienza della morte, ma la sua morte possiede un carattere del tutto singolare. Non è come la nostra comune morte, perché è la morte di Uno che poteva non morire e che, in forza di

 

 

 questo, «ingoia la morte dal di sotto», come dice San Paolo (cfr. 1Cor 15,54). Gesù Cristo risorge. Con Lui risorge, definitivamente, la speranza. Per questo la storia del cristianesimo ha reso bella e gloriosa la croce, come potrete anche vedere nelle Mostre allestite in occasione di questo evento. Il Crocifisso glorioso è segno di speranza incoercibile dentro qualunque tipo di prova. Penso alla morte prematura di un figlio o all’aberrante violenza inferta dall’uomo-bomba.

Le riflessioni fatte fin qui non ci portano a disprezzare le speranze terrene che, sul piano culturale, tecnico, scientifico, e forse anche sul piano morale, gli uomini possono attuare. A patto che esse non nascondano la loro natura secondaria, cioè la necessità di tendere, direttamente o indirettamente, alla forma radicale e vittoriosa della speranza cristica.

Alla morte è strappato il suo pungiglione velenoso. In essa siamo chiamati a rispondere con l’atteggiamento più potente della nostra libertà: l’abban-dono9 al Padre che ci crea. La Speranza con la maiuscola scioglie l’enigma dell’uomo. Mentre la speranza mondana è “spezzata” dalla morte, il Dio-fatto-uomo “spezzando la sua vita” propter nos homines ci ridona la bellezza della speranza.

6. La carità anticipo di risurrezione

Si comprende bene allora perché Paolo, nella Lettera ai Romani, affermi che «Tutto concorre al bene per coloro che amano Dio» (Rm 8,28). Tutto significa tutto. Nella prospettiva della risurrezione, anche la morte. La disperazione può essere sempre vinta nell’abbraccio di misericordia del Dio che si è abbassato nell’incarnazione fino ad allargare le sue braccia nell’apparente impotenza della croce. Bellezza, speranza, gioia resistono sempre dentro ogni situazione umana, almeno al fondo del cuore dell’uomo. A tal punto che la storia della Chiesa ci ha insegnato una strada sicura per fare questa sbalorditiva esperienza: la gratuità di una carità che alla fine “legittima la fede”.

«Nel dolore, lieti», dice Paolo (2Cor 6,10). Quanti santi, non solo canonizzati ma anche sconosciuti, quante madri, quanti padri, quanti uomini di buona volontà non hanno rinunciato a impegnarsi con l’altro anche quando questa scelta, umanamente parlando, sembra non giovare a nulla. Nell’accompagnamento dei moribondi, dei vecchi, degli incurabili, degli scartati, nella condivisione della sofferenza, la società dei peccatori si trasforma. Qui si intravvedono i primi bagliori della bella speranza che apre alla risurrezione nel nostro vero corpo. La vita vince!

  • 1 PAPA FRANCESCO, Discorso alla Chiesa Italiana, Firenze 10 novembre 2015.
  • 2 C. PÉGUY, Il portico del mistero della seconda virtù, Medusa, Milano 2014, 27.
  • 3 Cfr. Gn 4,1.
  • 4Cfr. H.U. VON BALTHASAR-L. GIUSSANI, L’impegno del cristiano nel mondo, Jaca Book, Milano nuova ediz. 2017, 60-63.

  • 5Per una più completa trattazione della caduta originale si veda A. SCOLA-G. MARENGO-J. PRADES LOPEZ, La persona umana. Antropologia teologica, Manuale di teologia cattolica, Jaca Book, Milano 2000, 224-258.

  • 6Cfr. A. SCOLA, La cura al confine. La relazione di cura tra incontro e cultura, Centro Ambrosiano, Milano 2016.

  • 7CORTINA INCONTRA ESTATE 2007, Dialogo Scalfari-Scola, Cortina d’Ampezzo, 25 agosto 2007.

  •  

    8T. W. ADORNO, Minima moralia, Einaudi, Torino 1988, 284. Adorno liquidava come illusione l’autocoscienza piena di speranza espressa da Rilke: «Dà, o Signore, a ciascuno la sua morte. La morte che fiorì da quella vita, in cui ciascuno amò, pensò, sofferse» R. M. RILKE, Das Buch von der Armut und vom Tode, Das Stundenbuch 1903.

  • 9 Cfr A. SCOLA, Morte e libertà, Cantagalli, Siena 2004.