Il Padre Nostro spiegato da: Tertulliano

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Nato a Cartagine, intorno al 160 da genitori pagani, ricevete una solida istruzione scientifica e giuridica. Convertitosi al cristianesimo nel 195 tornerà a Cartagine da Roma dove aveva esercitato la professione di avvocato. Nella sua città natale, per circa dieci anni, fu al servizio della Chiesa con una copiosa attività letteraria. Di carattere austero e per niente incline alla conciliazione, ruppe con la Chiesa verso il 207 ed entrò a far parte della setta dei montanisti, in cui ben presto divenne capo di un partito che da lui prese il nome di Tertullianesimo. Morì a Cartagine dopo il 220.

Tertulliano fu, prima di Agostino, senz’altro uno dei più originali scrittori ecclesiastici latini. Estremamente colto, tanto da influenzare con la sua prosa il latino ecclesiastico antico e di ingegno penetrante, era infiammato di grande zelo religioso non disgiunto però ad una naturale inquietudine che lo faceva propendere per le posizioni estreme al di fuori completamente da ogni forma di pazienza per le opinioni altrui. A questo proposito è da ricordare come Tertulliano scrisse un’opera, intitolata appunto “de patientia”, in cui ne celebra i pregi allo stesso modo in cui il malato fa con la salute perduta ma rimpianta. Le sue posizioni estremiste sia da cattolico che da montanista che lo portarono rispettivamente a beffeggiare il paganesimo ed a bollare la Chiesa Cattolica per la rilassatezza, fecero sì che i suoi scritti furono dimenticati o, quanto meno, cessarono di essere citati.

Il testo sul “Padre Nostro” è tratto dal “de oratione“.

Padre nostro che sei nei cieli

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La preghiera domenicale sintetizza in sé l’intero Vangelo. Inizia con il riconoscimento della paternità di Dio (“Padre nostro”) e con un atto di fede (“che sei nei cieli”). In tal modo preghiamo Dio, nostro Padre e proclamiamo la nostra fede. Sta scritto: “A quanti però lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio” (Gv. 1, 12). Gesù chiama spesso Dio, “Padre”: anzi ci ordina di non chiamare altri sulla terra con lo stesso nome ma di riservare tale appellativo esclusivamente al “Padre celeste” (Mt. 23, 9). Quando preghiamo così, quindi, ‘obbediamo alla volontà di Gesù Cristo. Felici coloro che possono riconoscere un così grande Padre! Attraverso il profeta Isaia (1, 2), Dio rimprovera il popolo d’Israele ed afferma: “Ho allevato e fatto crescere figli ma essi si sono ribellati contro di me”. Si comprende, quindi, che chiamare Dio, “Padre”, significa in pratica riconoscere la Sua divinità. Il titolo di “Padre”, infatti, è al tempo stesso testimonianza di pietà e di potenza divine. Non solo, ma ogni volta che noi invochiamo il Padre, invochiamo anche il Figlio. Infatti Gesù ha detto: “Il Padre ed io siamo una cosa sola” (Gv. 10, 30). E ancora: se nominiamo il Padre ed il Figlio non dimentichiamo neppure la santa madre Chiesa. Infatti senza la Madre non c’è per noi né Padre e né Figlio. In conclusione, con la sola parola “Padre”, noi adoriamo il Dio Creatore, insieme al Figlio ed alla Madre, obbediamo ai precetti e sconfessiamo coloro che lo hanno abbandonato. L’espressione “Dio Padre” non era stata mai rivelata ad alcuno. Lo stesso Mosè, quando chiese a Dio chi mai fosse, si sentì rispondere con un altro nome. A noi, invece, il nome di “Padre” ci è stato rivelato dal Figlio. Infatti, quando Gesù afferma “io sono venuto nel nome del Padre mio” (Gv. 5, 43) e ribadisce “Padre glorifica il tuo nome” ed ancora “ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini” (Gv. 17, 6), non fa altro che rivelare agli uomini, con il Suo, il nome del Padre. Per questo noi chiediamo:

Sia santificato il Tuo nome

È chiaro che ciò non va inteso nel senso che l’uomo augura a Dio qualcosa che a Lui manca. In realtà trattasi di una benedizione rivolta a Dio in ogni luogo ed in ogni tempo allo scopo di dimostrargli gratitudine e riconoscenza per i benefici elargiti. D’altra parte se è proprio Dio che santifica tutti, come potrebbe non essere santo e santificato il Suo nome? La moltitudine degli angeli che sta intorno a Dio proclama continuamente a gran voce. “Santo, santo, santo!” (Is. 6, 3). Ed anche noi che aspiriamo alla beatitudine degli angeli, ci associamo al coro celeste, benedicendo Dio ed anticipando in tal modo la nostra futura dignità. Tutto quanto detto per ciò che riguarda la gloria di Dio. Quanto alla preghiera che rivolgiamo dicendo “sia santificato il tuo nome”, essa tende a che il nome di Dio sia. santificato in noi ed in tutti coloro che sono lontani dalla grazia di Dio. In tal modo non solo preghiamo per noi ma anche, secondo il precetto evangelico, per tutto .il nostro prossimo ed anche per i nostri nemici. Si comprende quindi perché non dire espressamente sia santificato “in noi” il Tuo nome, significa richiedere la santificazione del nome di Dio in tutti gli uomini.

Sia fatta la Tua volontà, sulla terra come in cielo.

La volontà di Dio si compie sempre senza impedimenti od ostacoli: quindi non si vuole, con questa invocazione, augurare tanto a Dio il successo dei Suoi piani, quanto chiedergli che la Sua volontà si attui in tutti gli uomini. Quindi la nostra richiesta è rivolta a ché la volontà di Dio si compia in noi sulla terra perché poi possa realizzarsi in noi anche nei cieli.

La volontà di Dio consiste nel far sì che noi seguiamo i Suoi insegnamenti. È per questo che noi lo preghiamo affinché ci comunichi la Sua volontà che ci porterà alla salvezza sia sulla terra che in cielo: la sua volontà, infatti, a null’altro tende che a salvare i suoi figli. Gesù ha realizzato totalmente nella Sua vita la volontà di Dio: con la parola, l’azione e le sofferenze. Per questo affermava di fare la volontà del Padre e non la Sua. Non c’è dubbio che Gesù abbia realizzato la volontà del Padre; ancora oggi l’esempio che ci dà è: predicare, lavorare, soffrire fino alla morte. Ma tutto questo noi, senza l’aiuto di Dio, non possiamo realizzarlo. Inoltre ogni volta che diciamo “sia fatta la Tua volontà” affermiamo che tale volontà non è mai un male per noi e ciò anche quando Egli ci tratta con severità per i nostri peccati. E ancora: con queste parole noi ci incoraggiamo ad affrontare le sofferenze. Anche il Signore Gesù, infatti, durante le angosce della passione, per mostrarci di avere in comune con noi la debolezza della carne, supplicò il Padre di allontanare da sé quel “calice”. Tuttavia riprese subito: “no, non la mia, ma la Tua volontà sia fatta” (Lc. 22, 42). Egli era una cosa sola con la volontà del Padre; fu per insegnarci ad entrare nella sofferenza che Egli si rimise completamente alla volontà di Dio.

Venga il Tuo regno

Questa petizione è collegata alla precedente e significa “si avveri in noi il Tuo regno”. Ma forse che Dio non è re, Lui che sul suo palmo soppesa i cuori di tutti i re (Pro. 21, 1)? Evidentemente questo che noi ci auguriamo lo riferiamo a Lui in quanto è da Lui che noi lo attendiamo. Poiché il regno di Dio e la Sua volontà coincidono e di ambedue noi chiediamo l’avvento e la realizzazione, è ovvio che questa petizione noi la rivolgiamo affinché possiamo sfuggire quanto prima alla schiavitù della vita terrena. Dirò di più: che se questa preghiera, per ipotesi, non ci avesse offerto la possibilità di domandare l’avvento del regno di Dio, noi stessi ne avremmo innalzata al cielo la richiesta, certi che la realizzazione di questa preghiera avrebbe appagato i nostri desideri (Ebrei 4, 11). Le anime dei martiri invocano il Signore a gran voce: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?” (Ap. 6, 10). Essi potranno avere giustizia solo alla fine dei tempi: affretta quindi, Signore, la venuta del Tuo regno! Esso è il desiderio dei cristiani, la confusione degli infedeli, il trionfo degli angeli: è per esso che noi soffriamo o meglio è esso che noi desideriamo.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

La sapienza divina ha disposto con grande arte le parti di questa preghiera! Infatti dopo le cose del cielo: il nome di Dio, la volontà di Dio, il regno di Dio, menziona le necessità della terra. Del resto aveva detto: “Cercate prima il regno di Dio e la Sua giustizia e tutte queste cose (quelle materiali) vi saranno date in aggiunta” (Mt. 6, 33). Occorre, tuttavia, che a queste parole diamo in primo luogo una portata spirituale. Quando chiediamo al Padre di darci il nostro pane quotidiano, in realtà invochiamo Cristo che, essendo la nostra vita, è il nostro pane. Del resto lo stesso Gesù lo aveva detto esplicitamente: “Io sono il pane della vita” (Gv. 6, 35). E inoltre poco prima, riferendosi alla sua persona, aveva affermato: “il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (Gv. 6, 33). Anche in un’altra parte identifica nel pane il suo corpo: “questo è il mio corpo” (Lc. 22,19). Quindi quando noi chiediamo a Dio di donarci il pane quotidiano, in realtà lo preghiamo di farci vivere senza fine nel Cristo e di identificarci con il suo corpo che è la Chiesa. Tuttavia anche l’interpretazione letterale resta perfettamente valida. Con questa petizione, infatti, noi chiediamo a Dio il pane, il nutrimento quotidiano che Egli sa che ci occorre: “di tutte queste cose si preoccupano i pagani” (Mt. 6, 32). Gesù, del resto, in alcuni passi del Vangelo, ci mostra come i figli hanno dei diritti nei confronti dei propri padri: “non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini” (Mt. 15, 26) e ancora: “chi tra voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra?” (Mt. 7, 9). Ed è anche un pane quello che un uomo va a chiedere insistentemente di notte al suo vicino. A ragione il Signore, alla richiesta del pane, premette “dacci oggi” e prima ci aveva esortato a non preoccuparci per il nostro nutrimento di domani. È per insegnare questa verità che raccontò la parabola dell’uomo che aveva ammassato nei propri granai un abbondante raccolto e progettato per sé un lungo periodo di prosperità e di ozio; invece quella stessa notte venne colto dalla morte (Lc. 12, 16  21).

Rimetti i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

Dopo aver fatto appello alla generosità di Dio, con questa ulteriore petizione ne invochiamo la clemenza. A cosa ci servirebbe infatti il cibo se non a farci ingrassare come tori destinati al sacrificio? Il Signore sa di essere l’unico i senza peccati e per questo ci insegna a dire: rimetti i nostri debiti. Con la confessione dei peccati, noi chiediamo a Dio il perdono: infatti sollecitare il perdono è manifestare il proprio peccato. Questa è la prova di quanto Dio gradisca la penitenza più della morte del peccatore. Con la parola “debiti”, nella Scrittura si rappresenta il peccato; peccando, l’uomo contrae un debito: quello del giudizio a cui sarà sottoposto e che dovrà pagare salvo che gli venga condonato secondo la parabola evangelica (Mt. 18, 27). In essa, il servitore che è stato beneficato, si accanisce contro il suo debitore ed a tal punto provoca lo sdegno del padrone che questi lo richiama per fargli pagare fino all’ultimo spicciolo. È un esempio che ci fa comprendere come anche noi dobbiamo rimettere i debiti dei nostri debitori. Il Signore, del resto, ci aveva già esortato: “perdonate e vi sarà perdonato” (Lc. 6, 37). E quando Pietro chiede quante volte dovrà perdonare il proprio fratello, Gesù risponde: “non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” (Mt. 18, 22). Gesù dice questo per perfezionare la legge antica in cui era detto: “Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamech settantasette” (Gen. 4, 24).

E non indurci in tentazione ma liberaci dal male

In conclusione della preghiera, noi invochiamo il Padre non solo di rimettere i nostri peccati, ma di allontanarci da essi: di non permettere cioè di essere sedotti dalla tentazione. Con questo però non dobbiamo credere che Dio ci tenti non considerando così la nostra debolezza ovvero per distruggere la nostra poca fede. Questa malizia è propria soltanto di Satana. Ciò si comprende nella tentazione che Dio mandò ad Abramo quando gli ordinò di sacrificargli Isacco: lo scopo di Dio non fu tanto quello di provare la fede di Abramo, quanto quello di permettere ad Abramo di manifestare la sua fede, affinché egli potesse diventare l’immagine di colui che preferisce Dio a tutto quello che ha di più caro. Ed è per questo che si dice che Abramo è la fede. Lo stesso Gesù si lasciò tentare da Satana affinché individuassimo in quest’ultimo il capo e l’artefice della tentazione. E conferma ciò quando invita gli apostoli a pregare per non cadere in tentazione (Lc. 22, 46). Gli apostoli furono subito tentati e, piuttosto che vigilare nella preghiera, furono vinti dal sonno, finendo con l’abbandonare il Signore. L’ultima petizione del Padre Nostro ci spiega del resto che cosa significa “non indurci in tentazione”: cioè “liberaci dal male”. In una preghiera così breve sono racchiusi i profeti, gli evangelisti, gli apostoli; sono riassunti i discorsi del Signore, le parabole, gli esempi, i precetti; sono espressi tutti i doveri. Omaggio alla paternità di Dio, testimonianza di fede in Lui, sottomissione alla Sua volontà, speranza nella venuta del Suo regno, richiesta della vita nel pane, riconoscimento dei nostri peccati, vigilanza nella tentazione, richiesta di protezione. Non ci si deve stupire della completezza del Padre Nostro: solo Dio infatti poteva insegnarci come voleva essere pregato! È proprio Dio che dà forza alla preghiera, le conferisce il potere di trasportarci in cielo e di toccare il suo cuore. Dio provvede tuttavia anche alle necessità umane. Dopo averci insegnato il Padre Nostro, egli aggiunge: “chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” (Lc. 11, 8). Ciò sta a significare che ogni uomo può rivolgersi a Dio nei modi più diversi, secondo i propri bisogni, ma cominciando sempre dalla preghiera di Gesù che resta quella fondamentale.