Antonio Spadaro – Il nuovo mondo di Francesco: Come il Vaticano sta cambiando il mondo

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«Marxista» o «populista», «profetico» o «rivoluzionario»: sono tante le possibili definizioni e letture dell’operato di papa Bergoglio. Qualunque giudizio si esprima, è innegabile che la sua figura sia ormai quella di un leader in grado di esercitare un’enorme influenza sulla politica internazionale. I suoi decisi – e spesso poco convenzionali – interventi nell’intricato schema della geopolitica globale hanno cambiato il tono del dibattito, generando entusiasmo e stupore, oltre a numerose critiche. E non potrebbe essere altrimenti. La diplomazia di Francesco è ben poco diplomatica perché è anche la risposta a un’alternativa fondamentale: accettare una sorta di «globalizzazione dell’indifferenza», con la fine imminente di un mondo che erige frontiere, governato da un potere che prosciuga le relazioni tra gli uomini e fa della guerra l’unico arbitro della politica mondiale, oppure combattere i presagi di una nuova apocalisse costruendo ponti e forme alternative di azione, ispirate da criteri di accoglienza, inclusione, misericordia.

Antonio Spadaro, direttore della «Civiltà Cattolica», accanto ad autorevoli commentatori delle vicende politiche vaticane e non, ricostruisce le strategie attraverso cui Francesco e la sua «Chiesa in uscita» stanno mutando radicalmente il confronto sugli equilibri mondiali. In un viaggio attraverso il Mediterraneo e l’Europa, gli Stati Uniti, il vicino Oriente e l’Africa, si raccontano le sfide di un cambiamento e di una discontinuità reale, e si delinea la rivoluzione di un Papa che contrappone una civiltà dell’incontro all’inciviltà dello scontro, inaugurando una nuova stagione di politica e diplomazia.

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Sfida all’Apocalisse

Difficile giudicare quale sia l’aggettivo più appropriato – e quale il meno – tra quelli che i commentatori hanno attribuito finora a papa Bergoglio e al suo ruolo nel campo della politica internazionale. La gamma si estende dal «rivoluzionario» stupito e ammirato di Eugenio Scalfari, fino alle numerose e poco bonarie definizioni di «marxista» o «populista». Per Francesco questo non sembra un problema e, con grande concretezza, lascia invece intendere quanto sia importante la diplomazia vaticana creando una nuova sezione – la terza – della segreteria di Stato dedicata ai nunzi, cioè ai rappresentanti diplomatici della Santa Sede nei paesi con i quali essa intrattiene regolari rapporti. La delibera con la quale il pontefice ha creato questa nuova sezione è contenuta in una lettera pontificia al segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, scritta il 18 ottobre 2017, nella quale il papa esprime la convinzione di dover assicurare «un più sollecito accompagnamento» a quanti servono nel ruolo diplomatico della Santa Sede, dimostrando «l’attenzione e la vicinanza del papa» al personale del ruolo diplomatico.

Quando Francesco interviene in prima persona nel dibattito della politica internazionale lo fa con forza e con modalità innovative che generano un senso di stupore. Per qualcuno vero sconcerto. Tempo fa ho avuto modo di porgli una domanda sui suoi progetti in ambito ecclesiale: «Lei vuole fare la riforma della Chiesa?», domandai. La sua risposta fu candida e diretta: «No». E proseguì: «Voglio solo mettere Cristo sempre più al centro della Chiesa. Poi sarà Lui a fare le riforme necessarie». Anche nel contesto politico internazionale Francesco sta tentando di fare lo stesso: mettere Cristo al centro del mondo, in modo che sia Lui a fare le riforme che servono. Quest’affermazione recide ogni dubbio sul protagonismo di Bergoglio: egli non si sente né «marxista» né «populista». Francesco ha una precisa consapevolezza del suo compito, una consapevolezza bruciante sul ruolo del primato petrino. Il suo modo di vivere questo impegno si sintetizza nel gesto di accasciarsi la sera in cappella meditando sulla giornata, un momento in cui il potere papale si interroga, si umilia di fronte a Dio. Ma è proprio in questo gesto di umiltà, nel farsi da parte per lasciare a Cristo il centro della scena, che Bergoglio diventa davvero «rivoluzionario». Questa parola – si faccia attenzione – assume per lui connotati specifici; la si fraintenderebbe intendendola nel senso in cui compare nei dizionari della politica e della diplomazia.

Ripetiamolo: Francesco vuole mettere Cristo al centro del mondo. Ciò che intende realizzare ha quindi un’evidente radice spirituale e mira a favorire l’opera di Dio nella storia. Questo di per sé è rivoluzionario. «Un cristiano, se non è rivoluzionario, in questo tempo, non è cristiano!», spiegò nei primi mesi di pontificato. «Deve essere rivoluzionario per la grazia! Proprio la grazia che il Padre ci dà attraverso Gesù Cristo crocifisso, morto e risorto, fa di noi rivoluzionari, perché – e cito Benedetto XVI – “è la più grande mutazione della storia dell’umanità”. Perché cambia il cuore».

In questo senso l’attuale pontefice è davvero un leader politico mondiale, e la sua differenza rispetto agli altri personaggi in campo lo rende uno dei pochi leader credibili di cui l’umanità disponga. Il suo pontificato è «profetico» perché conferisce al movimento del tempo il suo rapporto a Dio, gli dà un significato nella relazione con il trascendente; la sua rilevanza politica è indiscutibile – e di fatto indiscussa – ma troppo spesso incompresa nella profonda connessione tra politica e spiritualità, appiattita dalla prospettiva «mondana» di cosa sia un leader e di quali siano le sue caratterizzazioni. È a chiarire questi aspetti che dedicheremo le pagine che seguono.

IL TEMPO PRIMA DELLA «FINE»

Com’è fatto, nella prospettiva di Bergoglio, il mondo in cui è necessario mettere Cristo al centro? E come si sviluppa la sua storia? Il dato fondamentale che il papato assume nel guardare alla politica internazionale è il conflitto; in questo senso il pontificato di Francesco è «drammatico» perché sa di vivere in uno scontro che non può essere fermato in quanto dato costitutivo e ineliminabile della storia umana. Ma a questo scontro tra parti, tra fazioni, che si traduce sulla scena del mondo in guerre, morti, attentati, sopraffazioni e molto altro, se ne aggiunge un secondo, a costruire l’inevitabile dimensione del conflitto che è parte del modus vivendi del cristiano.

Questa seconda drammaticità richiama sant’Ignazio di Loyola e i suoi Esercizi spirituali. Nella meditazione «sulle due bandiere» (136-148), sant’Ignazio raffigura un campo di battaglia nel quale si confrontano «Cristo, nostro sommo capitano e signore» e «Lucifero, nemico mortale della nostra natura umana». La vita cristiana è una lotta, insomma, parallela ma differente, collegata ma non identificabile, rispetto allo scontro che sconquassa la storia del mondo; le immagini di un papa nice, facile, simpatico, leggero, non hanno allora nulla a che fare con un Francesco che si gioca il suo ruolo nella consapevolezza della drammaticità del contesto. La sua bontà che testimonia la misericordia di Dio è il frutto di un travaglio profondo e della coscienza di un’umanità ferita.

Due scontri ineliminabili; due piani differenti su cui giocare il proprio ruolo politico-spirituale nel mondo; due realtà che vanno legate ma non confuse per evitare non solo la catastrofe, ma per non rendere tale catastrofe allettante e seducente come ogni tentazione del Maligno.

Ecco la sfida che Francesco lancia all’apocalisse; egli intende smontare la fascinazione per lo scontro finale dall’amaro gusto religioso che oggi nutre la narrativa del terrore e alimenta l’immaginario di jihadisti e di neo-crociati, mescolando pericolosamente lo scontro umano, terreno, storico, e quello trascendente tra Bene e Male. Dentro la narrativa tipica di questa prospettiva – tacendo il legame esistente tra capitale, profitto e vendita di armi – la guerra viene assimilata alle eroiche imprese di conquista del «Dio degli eserciti». In una visione schizofrenica e manichea tesa tra bianco e nero, le armi possono combattere le minacce ai valori cristiani e attendere l’imminente giustizia di un Armageddon, una resa dei conti finale tra Dio e Satana. In questo senso ogni «processo» (di pace, di dialogo ecc.) frana davanti all’impellenza della fine, della definitiva battaglia contro il nemico. E la comunità dei credenti, della fede (faith), diventa la comunità dei combattenti, della battaglia (fight).

Una simile lettura unidirezionale dei testi biblici può anestetizzare le coscienze o indurre a sostenere attivamente le situazioni più atroci e drammatiche che il mondo vive fuori dalle frontiere della propria «terra promessa». È questa la dottrina che alimenta organizzazioni e network politici come lo statunitense Council for National Policy e il pensiero dei loro esponenti quali Steve Bannon, che è stato chief strategist della Casa Bianca nei primi mesi della presidenza di Donald Trump e sostenitore di una geopolitica apocalittica dello scontro finale, fatale e inevitabile. E non si deve dimenticare che la teopolitica propagandata dall’ISIS si fonda sul medesimo culto di un’apocalisse da affrettare quanto più possibile. Per questo inneggia alla morte con toni sacrificali, da scontro finale. Non è un caso che George W. Bush sia stato riconosciuto come un «grande crociato» proprio da Osama bin Laden.

L’errore, o più spesso l’inganno, è evidente: far combaciare perfettamente il conflitto tra le parti, tipico della storia umana, e quello tra Bene e Male, che percorre la dimensione trascendente. In questa direzione sembrano muoversi i movimenti identitari che nell’Occidente e non solo stanno guadagnando consensi e potere. Per Francesco, però, il compito della Chiesa non è adattarsi alle dinamiche del mondo, della politica, della società per puntellarli e farli sopravvivere alla meno peggio: questo sarebbe «mondanità». Né per lui si tratta di schierarsi contro il mondo, la politica e la società: il papa non si disinteressa al conflitto nella storia in vista di una fine che vinca la malattia del mondo, magari portandolo verso la sua autodistruzione.

La «diplomazia» di Francesco è ben poco «diplomatica» nel momento in cui si pone davanti a un’alternativa fondamentale. La prima possibilità è quella di annunciare la fine imminente di questo «mondo» e lavorare per quanto possibile ad affrettarne la conclusione. C’è chi, in maniera militante, fa leva proprio su questa accelerazione3, che tende a costruire un ghetto di pochi «puri» contro gli «altri». La seconda opzione è quella di essere «muro di contenimento», forza frenante, ultima difesa prima della catastrofe verso cui ci conduce il potere che domina nel sistema della globalizzazione selvaggia, che governa sregolando i rapporti, garantendo immunità e sicurezza solo al denaro, rendendo arbitra la guerra. Sfidare, insomma, quell’apocalisse verso cui altri scelgono di indirizzare l’intera umanità.

Come si è detto, ora risulta ancora più chiaro come non sia il registro diplomatico in senso classico a poter fornire la chiave interpretativa della visione della politica mondiale di Francesco: il suo sguardo solleva la questione del ruolo globale del cattolicesimo nel contesto odierno e, se Francesco vuole trattenere il collasso, secondo il punto di vista della diplomazia dovrebbe far leva sulla legge, sul potere costituito, sulla mediazione tra Stato e Chiesa, sulle regole che permettono al sistema di sostenersi; se volesse invece accelerare i cieli nuovi e la terra nuova non avrebbe altra scelta che lavorare di piccone, di denuncia, di disarticolazione di ciò che tiene in piedi il potere e dunque il mondo così come si va configurando.

Da qui il conflitto delle interpretazioni. Chi attacca Francesco perché lo accusa di venire a patti con il «mondo» e chi non lo ama perché piccona l’establishment – sia mondano sia ecclesiastico, il che poi è lo stesso – snocciolando persino l’elenco delle malattie dalle quali è affetto. Chi elogia il papa lo fa perché ne percepisce la sensibilità misericordiosa alla realtà del mondo tanto potente da arrivare a sospendere persino il giudizio. E d’altra parte Francesco dice che la corruzione «spuzza» e non usa mezze misure nella denuncia.

Di fronte a questa possibile confusione, c’è un criterio profondamente spirituale che non bisogna mai perdere di vista. In esso sta la specificità dell’approccio di Bergoglio e del ruolo della Santa Sede sulla scena politica internazionale. Il criterio è lo stesso che nei vangeli spinge Gesù ad accogliere la peccatrice e a buttare per aria i banchetti dei commercianti davanti al tempio. Chi vedendo i due gesti li consideri contraddittori, per rigorismo o lassismo non comprende il Vangelo. Ma il criterio sotteso qui e nell’azione di Bergoglio è lo stesso di Gesù, di quel Gesù che va messo al centro del mondo.

Possiamo quindi dire che occuparsi della politica internazionale di Francesco significa immergersi in una visione spirituale che si nutre di un profondo senso della catastrofe possibile e delle forze del male in azione, e nello stesso tempo di una fiducia unica nel mistero di Dio che porta ad accettare i piccoli passi, i processi, l’autorità mondana, i colloqui, le trattative, i tempi lunghi, le mediazioni. Tutto ciò, insomma, che serve al tentativo di evitare lo scontro – per quanto esso resti ineliminabile. Francesco non si impegna nel discernimento delle forze (partitiche, politiche, militari) con le quali allearsi e da sostenere per far trionfare il bene. Niente affatto. Egli confida nel futuro escatologico, confida in Dio solo. Ma è proprio questo che lo spinge a tentare ogni possibile sforzo per puntare all’«integrazione», a ciò che porta gli uomini sulla strada del bene, pur in mezzo alle tentazioni di questo mondo.

Quest’accettazione della conversazione diplomatica si fonda sulla certezza che non si dia a questo mondo l’impero del bene – esattamente come non si realizza l’impero del male. Il potere mondano è per questo definitivamente de-sacralizzato. Se chi fa il politico è chiamato a farsi «santo» proprio facendo il politico, operando per il bene comune, d’altra parte nessun potere politico è «sacro» e, parimenti, nessuno è il «cattivo», cioè l’incarnazione del demonio. Per questo bisogna dialogare con tutti. E ciò è scandaloso perché lascia aperta una porta (a volte davvero stretta, ma comunque aperta) anche nella situazione politicamente più problematica.

L’energia che porta Francesco a frenare la corsa del mondo verso il baratro, dunque, non lo spinge al compromesso con i poteri, ma lo obbliga a impegnarsi nel dialogo con essi. Questo è il punto più delicato del ragionamento, perché a volte la Chiesa intende che l’unico modo di frenare la decadenza sia quello di allearsi con un partito che ne permetta la sopravvivenza come agenzia di senso. Bergoglio, invece, dialoga con ciascuno e con nessuno stringe alleanze.

In virtù di questo atteggiamento Francesco si assume sotto il profilo diplomatico la responsabilità di posizioni rischiose e spesso criticate. I suoi detrattori lo accusano di «confusione», ma in realtà questa parola è solamente un tentativo di imbrigliare la sua libertà di movimento che non risponde esclusivamente a criteri di prudenza. Anzi, a volte la tradizionale cautela diplomatica cede il passo all’esercizio della parresia, fatta di chiarezza e perfino di denuncia. Le prese di posizione contro il capitalismo finanziario speculativo, la memoria del «genocidio» armeno, l’ulteriore formalizzazione dei rapporti con la Palestina: gli echi persistenti che ha generato sono quelli che provengono da una «voce che grida nel deserto», per citare il profeta Isaia.

Gesù – non Francesco – una volta posto al centro del mondo, ne sconvolge i piani. Ma in che forma? Cosa significa mettere Cristo al centro per Francesco? E come si sposa questo con il ruolo che egli gioca anche nei confronti di altre comunità religiose? Va rilevato che c’è un senso in cui anche chi oggi spinge il mondo verso l’apocalisse sostiene di «mettere Dio al centro», ed è esattamente questa la chiave di lettura in cui tali realtà raccontano il proprio impegno e la propria missione, la quale in modo paradossale, come abbiamo visto, finisce per sostenere violenza, scontro, sopraffazione su chi è diverso.

Francesco ovviamente percorre una strada differente, ma offre una visione che non si distingue solo dalla narrativa neo-crociata e jihadista: nella sua radicalità costituisce una novità anche per la stessa Chiesa. Un ambasciatore di recente ha notato una caratterizzazione specifica che Bergoglio avrebbe introdotto nel discorso della politica vaticana: «Il linguaggio di Benedetto XVI era quello della modernità occidentale, che da una parte riconosceva il pluralismo delle visioni del mondo nella società contemporanea, dall’altra denunciava la “dittatura del relativismo”. Il linguaggio di Francesco è diverso: pur guardando in faccia le molte sfide della modernità culturale, al contempo considera prevalente il processo di polarizzazione sociale ed economico che si va dipanando su scala globale, con una progressione incalzante e un’intensità crescente»4.

Francesco, ed è un fatto, in virtù di questo si propone come leader politico credibile anche che per chi non è cattolico, anche per chi non è cristiano. Anzi, egli lascia cadere la contrapposizione tra «laico» e «cristiano» intesi come categorie ideologiche, campi semantici e riferimenti astratti. Lo Spirito è incontenibile. Il pensiero «cristiano» si oppone di per sé al pensiero «laico» solo se si è mutato in ideologia. Ma se diventa ideologia, allora non ha più nulla a che fare con Cristo.

Crollano così tutte le contrapposizioni irrigidite dalla polvere dei tempi, anche quelle tra diverse prospettive religiose. La vera sapienza, ha detto Francesco parlando in Egitto, è «aperta e in movimento, umile e indagatrice al tempo stesso». Alla fine rimane una sola contrapposizione: o la «civiltà dell’incontro» o l’«inciviltà dello scontro». E proprio di fronte a questa drammatica scelta, Francesco riafferma il ruolo delle religioni: «La luce policromatica delle religioni ha illuminato questa terra»5, ha detto. Va notato che la policromia non contrappone i colori mettendoli in antitesi, ma li assume in una visione non conflittuale6. In fondo è questo il grande problema di oggi: si vive la diversità sempre in termini di conflitto.

Non si tratta di una nostra interpretazione. Ancora una volta il pontefice ha speso parole chiare in questo senso. Nel suo discorso per la pubblicazione del fascicolo numero 4000 de «La Civiltà Cattolica» ha affermato: «Fate conoscere qual è il significato della “civiltà” cattolica, ma pure fate conoscere ai cattolici che Dio è al lavoro anche fuori dai confini della Chiesa, in ogni vera “civiltà”, col soffio dello Spirito». E poco prima, nello stesso discorso, aveva detto: «La cultura viva tende ad aprire, a integrare, a moltiplicare, a condividere, a dialogare, a dare e a ricevere all’interno di un popolo e con gli altri popoli con cui entra in rapporto». Non ci sono dubbi: la cultura per Bergoglio ha valore verbale. Solo i verbi la esprimono bene, non i sostantivi: aprire, integrare, moltiplicare, condividere, dialogare, dare e ricevere. Sette verbi flessibili al passato, presente e futuro. Sette verbi che possono indicare o invitare o esprimere un imperativo che muove all’azione. E il primo è «aprire».

Se Francesco si pone sulla scena politica a contrasto di qualsiasi narrazione apocalittica, di qualsiasi ideologia dello scontro, di qualsiasi utilizzo strumentale delle religioni, lo fa in virtù di una forza di cui si sente legittimato a fare uso «sconsiderato»: è la sottolineatura della misericordia come attributo fondamentale di Dio che esprime questa esigenza radicalmente cristiana.

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