La desolazione di Smaug

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Vorticosa prova di forza: il secondo capitolo della trilogia de Lo Hobbit regala epica e spettacolo. E la potenza visiva di una creatura mai vista finora

Anche Gandalf se n’è accorto: lo Hobbit Bilbo Baggins sembra un’altra persona. “In quel viaggio ho trovato una cosa… Ho trovato il coraggio”: il mastro scassinatore si guarda bene dal rivelare il suo vero segreto (il suo “tessssoro”…), ma in quella frase si nasconde la più grande verità de La desolazione di Smaug, secondo capitolo della trilogia sullo Hobbit diretta da Peter Jackson: il coraggio, l’ardire di proseguire su una strada – quella dei 48 fotogrammi al secondo uniti alla profondità stereoscopica – che ancora sembra chiedere molto in termini di “adattamento” alla fruizione, ma che dal punto di vista dello spettacolo visivo dovrà per forza di cose rappresentare la pietra angolare del cinema che sarà.

L’effetto di straniamento (la sensazione di trovarsi di fronte ad un’immagine talmente scevra d’imperfezioni da risultare paradossalmente posticcia) è lo stesso provato per il precedente Un viaggio inaspettato, ma stavolta a supportare l’estetica interviene l’epicità di un racconto che si fa progressivamente più dinamico e cupo. Gandalf, Bilbo e i nani condotti da Thorin Scudodiquercia proseguono il loro cammino verso la Montagna Solitaria: l’obiettivo ultimo è la riconquista del perduto Regno di Erebor e della preziosa Arkengemma, l’ostacolo definitivo è il custode di quel favoloso tesoro sepolto, il maestoso e minaccioso drago Smaug, ancora dormiente. Ma l’incedere sarà reso difficoltoso – oltre che dalla separazione con Gandalf – da altri incontri e creature, dal mutapelle Beorn a mostruosi ragni giganti, dagli Elfi silvani (prima carcerieri, poi alleati grazie al coinvolgimento di Legolas e Tauriel) agli uomini di Pontelagolungo, senza dimenticare la costante minaccia portata dagli Orchi, esercito sconfinato che si muove sotto la guida di un’Oscurità che promette di fagocitare al più presto ogni angolo di mondo. Il cammino verso la chiusura del cerchio, verso “l’inizio” del Signore degli Anelli, è segnato: Peter Jackson continua a riempire di senso la trilogia dello Hobbit insistendo con l’inevitabile interazione, con i rimandi a quello che “già abbiamo visto dopo”. Svincolandosi però dalla forma-preambolo che lo costrinse in occasione del precedente episodio, questa volta il regista neozelandese riesce a liberare con forza la potenza di un’avventura che non potrà non coinvolgere anche il meno affezionato tra gli spettatori all’epopea della Terra di Mezzo. Come detto, ogni momento del viaggio è caratterizzato da un’idea di spettacolo dinamica ed immersiva, fino al climax assoluto rappresentato dall’entrata in scena di Smaug (in originale doppiato dalla voce di Benedict Cumberbatch, in Italia da Luca Ward): dimenticate qualsiasi creatura o gigantesco mostro in cui vi siete imbattuti finora sul grande schermo, il drago con cui avranno a che fare Bilbo e i nani è qualcosa che i nostri occhi non avevano ancora mai visto. E che difficilmente potranno mai dimenticare.

Di Valerio Sammarco per cinematografo.it