Commento al Vangelo del 6 giugno 2010 – Paolo Curtaz

Corpus Domini  – Gn 14,18-20/ 1Cor 11,23-26/ Lc 9,11-17

Il dono

Fa strano pensare di celebrare una messa per riflettere sulla Messa, buffo che ogni anno dobbiamo, proprio durante la Cena, fermarci a riflettere sul senso ultimo e profondo di ciò che stiamo facendo.

Se ciò accade è per cercare di arginare l’abitudine, per smuovere e risvegliare le nostre stanche e assonnate comunità, per chiederci – infine – cosa ne abbiamo fatto del dono del Risorto ai credenti, l’eucarestia.

Bene o male la partecipazione alla Messa domenicale segna l’argine fra “praticanti” e no, fra chi crede e chi, credendo, si raduna in obbedienza al Signore.

Ma la messa domenicale rischia, ahimè, di restare l’unico, fragile segno di appartenenza, un obbligo da assolvere, una scipita appartenenza che non converte il nostro cuore.

Quando i preti si incontrano in giro per l’Italia le tre domande d’obbligo sono: quante parrocchie hai? Quanti abitanti ci sono? Che percentuale di partecipazione alla messa festiva?

E se anche avessimo il 100% della popolazione che partecipa alla Messa? Ciò significa che il Regno di Dio avanza?

Non mi importa quanta gente partecipa alla Messa.

Mi importa di più quanti escono convertiti e consolati, discepoli capaci di calare nella quotidianità il mistero che hanno appena celebrato.

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Melchisedek

Abramo è uscito da Ur dei Caldei. Lo ha fatto per ascoltare un’intuizione, una voce interiore che gli ha detto leck leckà, sbrigativamente tradotto con “esci dalla tua terra” ma che, in realtà, significa “vai a te stesso” o “và: ti conviene”. Tutti lo prendono per pazzo: suo padre Terach, secondo la tradizione rabbinica costruttore di idoli, i suoi concittadini.

Abramo è nel pieno della vita, nell’età in cui si raccolgono i frutti, perché inoltrarsi verso l’ignoto?

E invece parte, esce, se ne va, lascia tutto per cercare Tutto.

Non lo sa ancora, ma questo gesto gli farà incontrare Dio. Questo gesto lo farà diventare padre di una moltitudine: i cercatori di Dio.

Nel suo difficile percorso Abramo ha lasciato a suo nipote Lot le terre migliori, ha affrontato l’ostilità dei re del luogo e, infine, incrocia Melchisedek che offre per lui un sacrificio e lo benedice.

Melchisedek è re di Salem, re della futura Gerusalemme, re di shalom, di pace, come interpreta la lettera agli Ebrei (Eb 6, 20).

I Padri cristiani hanno visto in lui una prefigurazione di Cristo, in quel pane offerto l’immagine dell’eucarestia, il pane del cammino.

Nel percorso interiore anche noi, come Abramo, come Elia (1 Re 19, 5-6), incontriamo un pane del cammino che ci accompagna alla scoperta del vero volto di Dio alla cui luce scopriamo il nostro vero volto.

L’essenziale

Paolo scrive una delle sue lettere alla comunità di Corinto, città cosmopolita in cui ha annunciato il vangelo. Non sono ancora passati vent’anni dalla resurrezione di Gesù e Paolo raccomanda alla comunità di andare all’essenziale, di distinguere bene le cose importanti dalle cose accessorie.

Paolo ripete ai Corinzi, con precisione, le parole del Maestro, il gesto che egli ha compiuto durante quell’ultima, tragica Pasqua. Paolo ha ricevuto il dono dell’eucarestia e chiede alle sue comunità di ripetere la Cena del Signore, in obbedienza, in attesa che il Signore Gesù venga.

Il fatto che ogni domenica milioni di comunità cristiane, dal caos delle grandi città europee alle sperdute missioni africane o asiatiche, si radunino per ascoltare la Parola e per ripetere la Cena è, in fondo, una questione di obbedienza. Noi facciamo la Cena in sua memoria, perché egli sia presente, perché riviviamo la sua passione, morte e resurrezione e, da quell’incontro, possiamo camminare durante la settimana.

Sintonia

Gesù, nel momento più difficile della sua vita, nel momento dell’abbandono e dell’incomprensione, compie un gesto definitivo: si dona, si consegna, non offre pane e vino, come Melchisedek, ma la sua stessa vita sull’altare della croce.

Non è il pane che diventa Cristo, ma Cristo che si fa pane, per potere essere assimilato, per nutrire, per indicare un nuovo percorso, una nuova logica, quella del totale dono di sé.

La Cena pasquale che egli celebra nell’indifferenza e nella distonia totale con gli apostoli ci dona la misura della solitudine e dell’amore di Dio.

Quel gesto, gesto d’amore assoluto, è celebrato e ripetuto ogni volta che una comunità di credenti si raduna insieme ad un prete.

Ma non può essere un gesto auto-celebrativo, un gesto isolato, un gesto neutro.

O l’eucarestia contagia la nostra vita, la riempie, la modella, la plasma, la informa o resta sterile, morta, inutile. La Messa inizia proprio nel momento in cui usciamo dalla porta della chiesa.

E dura un’intera settimana.

Quel pane ricevuto ci aiuta a sfamare la folla, ad accorgerci della fame insaziata di chi incontreremo durante la settimana e a mettere a disposizione quel poco che siamo per sfamare ogni uomo, nel corpo e nell’anima.

Allora

L’eucarestia, il pane di Dio, il pane del cammino, è il dono prezioso che ci fa diventare credenti, che ci sostiene e costruisce comunità. Questo è l’essenziale.

Il resto: chi celebra, come, quando, chi anima, chi legge, chi canta e cosa, è tutto dopo, per cortesia.

I preti sono chiamati a diventare trasparenza, a lasciare che sia la Parola a fluire nelle (brevi) omelie (Quanta poca Parola nelle nostre parole!), che siano eucarestie, cioè ringraziamenti, non luoghi da cui bacchettare le persone o occasioni per far sfoggio della pirotecnica cultura teologica.

Ai discepoli, a coloro che amano il Signore, auguro che l’eucarestia torni ad essere ciò che è: incontro col Risorto, pane del cammino, farmaco e consolazione, luogo di accoglienza e di conversione, di fraternità e di perdono.

Paolo Curtaz

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