Lettera di Papa Francesco ai sacerdoti della Diocesi di Roma (31 maggio 2020)

448

LETTERA DEL SANTO PADRE AI SACERDOTI DELLA DIOCESI DI ROMA

Cari fratelli,

in questo tempo pasquale pensavo di incontrarvi e celebrare insieme la Messa Crismale. Non essendo possibile una celebrazione di carattere diocesano, vi scrivo questa lettera. La nuova fase che iniziamo ci chiede saggezza, lungimiranza e impegno comune, in modo che tutti gli sforzi e i sacrifici fatti finora non siano vani.

Durante questo tempo di pandemia, molti di voi hanno condiviso con me, per posta elettronica o telefono, che cosa significava questa situazione imprevista e sconcertante. Così, senza poter uscire né avere un contatto diretto, mi avete permesso di conoscere “di prima mano” ciò che stavate vivendo. Questa condivisione ha nutrito la mia preghiera, in molti casi per ringraziare della testimonianza coraggiosa e generosa che ricevevo da voi; in altri, era la supplica e l’intercessione fiduciosa nel Signore che sempre tende la sua mano (cfr Mt 14,31). Sebbene fosse necessario mantenere il distanziamento sociale, questo non ha impedito di rafforzare il senso di appartenenza, di comunione e di missione che ci ha aiutato a far sì che la carità, specialmente con le persone e le comunità più svantaggiate, non fosse messa in quarantena. Ho potuto constatare, in quei dialoghi sinceri, che la necessaria distanza non era sinonimo di ripiegamento o chiusura in sé che anestetizza, addormenta e spegne la missione.

Incoraggiato da questi scambi, vi scrivo perché voglio essere più vicino a voi per accompagnare, condividere e confermare il vostro cammino. La speranza dipende anche da noi e richiede che ci aiutiamo a mantenerla viva e operante; quella speranza contagiosa che si coltiva e si rafforza nell’incontro con gli altri e che, come dono e compito, ci è data per costruire la nuova “normalità” che tanto desideriamo.

Vi scrivo guardando alla prima comunità apostolica, che pure visse momenti di confinamento, isolamento, paura e incertezza. Trascorsero cinquanta giorni tra l’immobilità, la chiusura, e l’annuncio incipiente che avrebbe cambiato per sempre la loro vita. I discepoli, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano per paura, furono sorpresi da Gesù che «stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo”» (Gv 20,19-22). Che anche noi ci lasciamo sorprendere!

«Mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore» (Gv 20,19)

Oggi come ieri sentiamo che «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Gaudium et spes, 1). Come conosciamo bene tutto questo! Tutti abbiamo ascoltato i numeri e le percentuali che giorno dopo giorno ci assalivano; abbiamo toccato con mano il dolore della nostra gente. Ciò che arrivava non erano dati lontani: le statistiche avevano nomi, volti, storie condivise. Come comunità presbiterale non siamo stati estranei a questa realtà e non siamo stati a guardarla alla finestra; inzuppati dalla tempesta che infuriava, voi vi siete ingegnati per essere presenti e accompagnare le vostre comunità: avete visto arrivare il lupo e non siete fuggiti né avete abbandonato il gregge (cfr Gv 10,12-13).

Abbiamo patito la perdita repentina di familiari, vicini, amici, parrocchiani, confessori, punti di riferimento della nostra fede. Abbiamo visto i volti sconsolati di coloro che non hanno potuto stare vicino e dire addio ai propri cari nelle loro ultime ore. Abbiamo visto la sofferenza e l’impotenza degli operatori sanitari che, sfiniti, si esaurivano in interminabili giornate di lavoro preoccupati di soddisfare così tante richieste. Tutti abbiamo sentito l’insicurezza e la paura di lavoratori e volontari che si esponevano quotidianamente perché i servizi essenziali fossero assicurati; e anche per accompagnare e prendersi cura di coloro che, a causa della loro esclusione e vulnerabilità, subivano ancora di più le conseguenze di questa pandemia. Abbiamo ascoltato e visto le difficoltà e i disagi del confinamento sociale: la solitudine e l’isolamento soprattutto degli anziani; l’ansia, l’angoscia e il senso di non-protezione di fronte all’incertezza lavorativa e abitativa; la violenza e il logoramento nelle relazioni. La paura ancestrale del contagio è tornata a colpire con forza. Abbiamo condiviso anche le angoscianti preoccupazioni di intere famiglie che non sanno cosa mettere nei piatti la prossima settimana.

Abbiamo sperimentato la nostra stessa vulnerabilità e impotenza. Come il forno prova i vasi del vasaio, così siamo stati messi alla prova (cfr Sir 27,5). Frastornati da tutto ciò che accadeva, abbiamo sentito in modo amplificato la precarietà della nostra vita e degli impegni apostolici. L’imprevedibilità della situazione ha messo in luce la nostra incapacità di convivere e confrontarci con l’ignoto, con ciò che non possiamo governare o controllare e, come tutti, ci siamo sentiti confusi, impauriti, indifesi. Viviamo anche quella rabbia sana e necessaria che ci spinge a non farci cadere le braccia di fronte alle ingiustizie e ci ricorda che siamo stati sognati per la Vita. Come Nicodemo, di notte, sorpresi perché «il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va», ci siamo chiesti: «Come può accadere questo?»; e Gesù ci ha risposto: «Tu sei maestro d’Israele e non conosci queste cose?» (cfr Gv 3,8-10).

La complessità di ciò che si doveva affrontare non tollerava ricette o risposte da manuale; richiedeva molto più di facili esortazioni o discorsi edificanti, incapaci di radicarsi e assumere consapevolmente tutto quello che la vita concreta esigeva da noi. Il dolore della nostra gente ci faceva male, le sue incertezze ci colpivano, la nostra comune fragilità ci spogliava di ogni falso compiacimento idealistico o spiritualistico, come pure di ogni tentativo di fuga puritana. Nessuno è estraneo a tutto ciò che accade. Possiamo dire che abbiamo vissuto comunitariamente l’ora del pianto del Signore: abbiamo pianto davanti alla tomba dell’amico Lazzaro (cfr Gv 11,35), davanti alla chiusura del suo popolo (cfr Lc 13,14; 19,41), nella notte oscura del Getsemani (cfr Mc 14,32-42; Lc 22,44). È anche l’ora del pianto del discepolo davanti al mistero della Croce e del male che colpisce tanti innocenti. È il pianto amaro di Pietro dopo il rinnegamento (cfr Lc 22,62), quello di Maria Maddalena davanti al sepolcro (cfr Gv 20,11).

Sappiamo che in tali circostanze non è facile trovare la strada da percorrere, e nemmeno mancheranno le voci che diranno tutto quello che si sarebbe potuto fare di fronte a questa realtà sconosciuta. I nostri modi abituali di relazionarci, organizzare, celebrare, pregare, convocare e persino affrontare i conflitti sono stati modificati e messi in discussione da una presenza invisibile che ha trasformato la nostra quotidianità in avversità. Non si tratta solo di un fatto individuale, familiare, di un determinato gruppo sociale o di un Paese. Le caratteristiche del virus fanno scomparire le logiche con cui eravamo abituati a dividere o classificare la realtà. La pandemia non conosce aggettivi, confini e nessuno può pensare di cavarsela da solo. Siamo tutti colpiti e coinvolti.

La narrativa di una società della profilassi, imperturbabile e sempre pronta al consumo indefinito è stata messa in discussione, rivelando la mancanza di immunità culturale e spirituale davanti ai conflitti. Una serie di vecchi e nuovi interrogativi e problemi (che molte regioni ritenevano superati e consideravano cose del passato) hanno occupato l’orizzonte e l’attenzione. Domande che non troveranno risposta semplicemente con la riapertura delle varie attività; piuttosto sarà indispensabile sviluppare un ascolto attento ma pieno di speranza, sereno ma tenace, costante ma non ansioso che possa preparare e spianare le strade che il Signore ci chiama a percorrere (cfr Mc 1,2-3). Sappiamo che dalla tribolazione e dalle esperienze dolorose non si esce uguali a prima. Dobbiamo essere vigilanti e attenti. Il Signore stesso, nella sua ora cruciale, pregò per questo: «Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno» (Gv 17,15). Esposti e colpiti personalmente e comunitariamente nella nostra vulnerabilità e fragilità e nei nostri limiti, corriamo il grave rischio di ritirarci e di stare a “rimuginare” la desolazione che la pandemia ci presenta, come pure di esasperarci in un ottimismo illimitato, incapace di accettare la reale dimensione degli eventi (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 226-228).

Le ore di tribolazione chiamano in causa la nostra capacità di discernimento per scoprire quali sono le tentazioni che minacciano di intrappolarci in un’atmosfera di sconcerto e confusione, per poi farci cadere in un andazzo che impedirà alle nostre comunità di promuovere la vita nuova che il Signore Risorto ci vuole donare. Sono diverse le tentazioni, tipiche di questo tempo, che possono accecarci e farci coltivare certi sentimenti e atteggiamenti che non permettono alla speranza di stimolare la nostra creatività, il nostro ingegno e la nostra capacità di risposta. Dal voler assumere onestamente la gravità della situazione, ma cercando di risolverla solo con attività sostitutive o palliative aspettando che tutto ritorni alla “normalità”, ignorando le ferite profonde e il numero di persone cadute nel frattempo; fino al rimanere immersi in una certa paralizzante nostalgia del recente passato che ci fa dire “niente sarà più come prima” e ci rende incapaci di invitare gli altri a sognare e ad elaborare nuove strade e nuovi stili di vita.

«Venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi!”» (Gv 20,19-21).

Il Signore non ha scelto o cercato una situazione ideale per irrompere nella vita dei suoi discepoli. Certamente avremmo preferito che tutto ciò che è accaduto non fosse successo, ma è successo; e come i discepoli di Emmaus, possiamo anche continuare a mormorare rattristati lungo la strada (cfr Lc 24,13-21). Presentandosi nel Cenacolo a porte chiuse, in mezzo all’isolamento, alla paura e all’insicurezza in cui vivevano, il Signore è stato in grado di trasformare ogni logica e dare un nuovo significato alla storia e agli eventi. Ogni tempo è adatto per l’annuncio della pace, nessuna circostanza è priva della sua grazia. La sua presenza in mezzo al confinamento e alle assenze forzate annuncia, per i discepoli di ieri come per noi oggi, un nuovo giorno capace di mettere in discussione l’immobilità e la rassegnazione e di mobilitare tutti i doni al servizio della comunità. Con la sua presenza, il confinamento è diventato fecondo dando vita alla nuova comunità apostolica.

Diciamolo con fiducia e senza paura: «Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20). Non temiamo gli scenari complessi che abitiamo perché lì, in mezzo a noi, c’è il Signore; Dio ha sempre compiuto il miracolo di generare buoni frutti (cfr Gv 15,5). La gioia cristiana nasce proprio da questa certezza. In mezzo alle contraddizioni e all’incomprensibile che ogni giorno dobbiamo affrontare, sommersi e persino storditi da tante parole e connessioni, si nasconde la voce del Risorto che ci dice: «Pace a voi!».

[…]

Continua a leggere la lettera sul sito vatican.va