Discorso di Papa Francesco alla 73ma Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana (C.E.I)

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Alle ore 16.30 di questo pomeriggio, nell’Aula del Sinodo, il Santo Padre Francesco apre i lavori della 73ma Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana (C.E.I.), che si svolgono in Vaticano, presso l’Aula del Sinodo, da oggi e fino al 23 maggio sul tema: “Modalità e strumenti per una nuova presenza missionaria”.

Di seguito il video, l’audio e il testo del discorso di apertura di Papa Francesco.

Cari fratelli,

Vi ringrazio per questo incontro che desidererei fosse un momento di aiuto al discernimento pastorale sulla vita e la missione della chiesa italiana. Vi ringrazio anche per lo sforzo che offrite ogni giorno nel portare avanti la missione che il Signore vi ha affidato e nel servire il popolo di Dio con e secondo il cuore del Buon Pastore.

Vorrei oggi parlarvi nuovamente di alcune questioni che abbiamo trattato nei nostri precedenti incontri per approfondirle e integrarle con questioni nuove per vedere insieme a che punto siamo. Vi darò la parola in seguito per rivolgermi le domande, le perplessità e le ispirazioni le critiche, tutto quello che portate nel cuore. Sono tre i punti di cui io vorrei parlare.

1 Sinodalità e collegialità
In occasione della commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, tenutasi il 17 ottobre 2015, ho voluto chiarire che «il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio […] è dimensione costitutiva della Chiesa», così che «quello che il Signore ci chiede, in un certo senso, è già tutto contenuto nella parola sinodo».[1]

Anche il nuovo documento della Commissione Teologica Internazionale, sulla sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, nel corso della Sessione Plenaria del 2017, afferma che «la sinodalità, nel contesto ecclesiologico, indica lo specifico modus vivendi et operandi della Chiesa Popolo di Dio che manifesta e realizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assemblea e nel partecipare attivamente di tutti i suoi membri alla sua missione evangelizzatrice». E prosegue così: «Mentre il concetto di sinodalità richiama il coinvolgimento e la partecipazione di tutto il Popolo di Dio alla vita e alla missione della Chiesa, il concetto di collegialità precisa il significato teologico e la forma di esercizio del ministero dei Vescovi a servizio della Chiesa particolare affidata alla cura pastorale di ciascuno e nella comunione tra le Chiese particolari in seno all’unica e universale Chiesa di Cristo, mediante la comunione gerarchica del Collegio episcopale col Vescovo di Roma. La collegialità, pertanto, è la forma specifica in cui la sinodalità ecclesiale si manifesta e si realizza attraverso il ministero dei Vescovi sul livello della comunione tra le Chiese particolari in una regione e sul livello della comunione tra tutte le Chiese nella Chiesa universale. Ogni autentica manifestazione di sinodalità esige per sua natura l’esercizio del ministero collegiale dei Vescovi».[2]

Mi rallegro dunque che questa assemblea ha voluto approfondire questo argomento che in realtà descrive la cartella clinica dello stato di salute della Chiesa italiana e del vostro operato pastorale ed ecclesiastico.

Potrebbe essere di aiuto affrontare in questo contesto di eventuale carente collegialità e partecipazione nella conduzione della Conferenza CEI sia nella determinazione dei piani pastorali, che negli impegni programmatici economico-finanziari.

Sulla sinodalità, anche nel contesto di probabile Sinodo per la Chiesa italiana – ho sentito un “rumore” ultimamente su questo, è arrivato fino a Santa Marta! –, vi sono due direzioni: sinodalità dal basso in alto, ossia il dover curare l’esistenza e il buon funzionamento della Diocesi: i consigli, le parrocchie, il coinvolgimento dei laici… (cfr CIC 469-494) – incominciare dalle diocesi: non si può fare un grande sinodo senza andare alla base. Questo è il movimento dal basso in alto – e la valutazione del ruolo dei laici; e poi la sinodalità dall’alto in basso, in conformità al discorso che ho rivolto alla Chiesa italiana nel V Convegno Nazionale a Firenze, il 10 novembre 2015, che rimane ancora vigente e deve accompagnarci in questo cammino. Se qualcuno pensa di fare un sinodo sulla Chiesa italiana, si deve incominciare dal basso verso l’alto, e dall’alto verso il basso con il documento di Firenze. E questo prenderà, ma si camminerà sul sicuro, non sulle idee.

2 La riforma dei processi matrimoniali
Come ben sapete, con i due Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus e Mitis et Misericors Iesus, pubblicati nel 2015, sono stati riordinati ex integro i processi matrimoniali, stabilendo tre tipi di processo: ordinario, breviore e documentale.

L’esigenza di snellire le procedure ha condotto a semplificare il processo ordinario, con l’abolizione della doppia decisione conforme obbligatoria. D’ora in poi, se non c’è appello nei tempi previsti, la prima sentenza che dichiara la nullità del matrimonio diventa esecutiva. Vi è, poi, l’altro tipo di processo: quello breviore. «Questa forma di processo è da applicarsi nei casi in cui l’accusata nullità del matrimonio è sostenuta dalla domanda congiunta dei coniugi, argomenti evidenti, essendo le prove della nullità matrimoniale di rapida dimostrazione. Con la domanda fatta al Vescovo, e il processo istruito dal Vicario giudiziale o da un istruttore, la decisione finale, di dichiarazione della nullità o di rinvio della causa al processo ordinario, appartiene al Vescovo stesso, il quale – in forza del suo ufficio pastorale – è con Pietro il maggiore garante dell’unità cattolica nella fede e nella disciplina. Sia il processo ordinario che quello breviore sono comunque processi di natura prettamente giudiziale, il che significa che la nullità del matrimonio potrà essere pronunciata solo qualora il giudice consegua la certezza morale sulla base degli atti e delle prove raccolte».[3]

Il processo breviore ha introdotto così una tipologia nuova, ossia la possibilità di rivolgersi al Vescovo, quale capo della Diocesi, chiedendogli di pronunciarsi personalmente su alcuni casi, nei casi più manifesti di nullità. E questo poiché la dimensione pastorale del Vescovo, comprende ed esige anche la sua funzione personale di giudice. Il che non solo manifesta la prossimità del pastore diocesano ai suoi fedeli, ma anche la presenza del Vescovo come segno di Cristo sacramento di salvezza. Per questo il Vescovo e il Metropolita, con atto amministrativo, devono procedere all’erezione del tribunale diocesano, se ancora non sia stato costituito, e nel caso di difficoltà, possono anche accedere a un Tribunale diocesano o interdiocesano viciniore. Questo è importante.

Questa riforma processuale è basata sulla prossimità e sulla gratuità. Prossimità alle famiglie ferite significa che il giudizio, per quanto possibile, si celebri nella Chiesa diocesana, senza indugio e senza inutili prolungamenti. Il termine gratuità rimanda al mandato evangelico secondo il quale gratuitamente si è ricevuto e gratuitamente si deve dare (cfr Mt 10,8), per cui richiede che la pronunzia ecclesiastica di nullità non equivalga ad un elevato costo che le persone disagiate non riescono a sostenere. Questo è molto importante.

Sono ben consapevole che voi, nella 71ª Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, e attraverso varie comunicazioni,[4] avete previsto un aggiornamento circa la riforma del regime amministrativo dei Tribunali ecclesiastici in materia matrimoniale. Tuttavia, mi rammarica constatare che la riforma, dopo più di quattro anni, rimane ben lontana dall’essere applicata nella grande parte delle Diocesi italiane.

Ribadisco con chiarezza che il Rescritto da me dato, nel dicembre 2015, ha abolito il Motu Proprio di Pio XI Qua cura (1938), che istituiva i Tribunali Ecclesiastici Regionali in Italia e, pertanto, auspico vivamente che l’applicazione dei due suddetti Motu Proprio trovi la sua piena ed immediata attuazione in tutte le Diocesi dove ancora non si è provveduto.

Al riguardo, cari confratelli, non dobbiamo mai dimenticare che la spinta riformatrice del processo matrimoniale canonico, caratterizzata – come ho già detto sopra – dalla prossimità, celerità e gratuità delle procedure, è volta a mostrare che la Chiesa è madre ed ha a cuore il bene dei propri figli, che in questo caso sono quelli segnati dalla ferita di un amore spezzato; e pertanto tutti gli operatori del Tribunale, ciascuno per la sua parte e la sua competenza, devono agire perché questo si realizzi, e di conseguenza non anteporre null’altro che possa impedire o rallentare l’applicazione della riforma, di qualsiasi natura o interesse possa trattarsi.

Il buon esito della riforma passa necessariamente attraverso una conversione delle strutture e delle persone; e quindi non permettiamo che gli interessi economici di alcuni avvocati oppure la paura di perdere potere di alcuni Vicari Giudiziari frenino o ritardino la riforma.

3 Il rapporto tra i sacerdoti e i vescovi
Il rapporto tra noi Vescovi e i nostri sacerdoti rappresenta, indiscutibilmente, una delle questioni più vitali nella vita della Chiesa, è la spina dorsale su cui si regge la comunità diocesana. Cito le parole sagge di Sua Eminenza il Cardinale Bassetti quando scrisse: «Se si dovesse incrinare questo rapporto tutto il corpo ne risulterebbe indebolito. E lo stesso messaggio finirebbe per affievolirsi».[5]

Il Vescovo è il pastore, il segno di unità per l’intera Chiesa diocesana, il padre e la guida per i propri sacerdoti e per tutta la comunità dei credenti; egli ha il compito inderogabile di curare in primis e attentamente il suo rapporto con i suoi sacerdoti. Alcuni Vescovi, purtroppo, fanno fatica a stabilire relazioni accettabili con i propri sacerdoti, rischiando così di rovinare la loro missione e addirittura indebolire la stessa missione della Chiesa.

Il Concilio Vaticano II ci insegna che i presbiteri costituiscono con il loro vescovo un unico presbiterio, sebbene destinati a uffici diversi (cfr Cost. Lumen gentium, 28). Ciò significa che non esiste Vescovo senza il suo presbiterio e, a sua volta, non esiste presbiterio senza un rapporto sano cum episcopo. Anche il Decreto conciliare Christus Dominus afferma: «Tutti i sacerdoti, sia diocesani sia religiosi, in unione con il Vescovo partecipano all’unico sacerdozio di Cristo e perciò sono costituiti provvidenziali cooperatori dell’ordine episcopale. […] Perciò essi costituiscono un solo presbiterio e una sola famiglia, di cui il Vescovo è il padre» (n. 28).

Il rapporto solido tra il Vescovo e i suoi sacerdoti si basa sull’amore incondizionato testimoniato da Gesù sulla croce, che rappresenta l’unica vera regola di comportamento per i Vescovi e i sacerdoti. In realtà, i sacerdoti sono i nostri più prossimi collaboratori e fratelli. Sono il prossimo più prossimo! Si basa anche sul rispetto reciproco che manifesta la fedeltà a Cristo, l’amore alla Chiesa, l’adesione alla Buona Novella. La comunione gerarchica, in verità, crolla quando viene infettata da qualsiasi forma di potere o di autogratificazione personale; ma, all’opposto, si fortifica e cresce quando viene abbracciata dallo spirito di totale abbandono e di servizio al popolo di Dio.

Noi Vescovi abbiamo il dovere di presenza e di vicinanza al popolo cristiano, ma in particolare ai nostri sacerdoti, senza discriminazione e senza preferenze. Un pastore vero vive in mezzo al suo gregge e ai suoi presbiteri, e sa come ascoltare e accogliere tutti senza pregiudizi.

Non dobbiamo cadere nella tentazione di avvicinare solo i sacerdoti simpatici o adulatori e di evitare coloro che secondo il vescovo sono antipatici e schietti; di consegnare tutte le responsabilità ai sacerdoti disponibili o “arrampicatori” e di scoraggiare i sacerdoti introversi o miti o timidi, oppure problematici. Essere padre di tutti i propri sacerdoti; interessarsi e cercare tutti; visitare tutti; saper sempre trovare tempo per ascoltare ogni volta che qualcuno lo domanda o ne ha necessità; far sì che ciascuno si senta stimato e incoraggiato dal suo Vescovo. Per essere pratico: se il vescovo riceve la chiamata di un sacerdote, risponda in giornata, al massimo il giorno dopo, così quel sacerdote saprà che ha un padre.

Cari confratelli, i nostri sacerdoti si sentono continuamente sotto attacco mediatico e spesso ridicolizzati oppure condannati a causa di alcuni errori o reati di alcuni loro colleghi, e hanno vivo bisogno di trovare nel loro Vescovo la figura del fratello maggiore e del padre che li incoraggia nei periodi difficili; li stimola alla crescita spirituale e umana; li rincuora nei momenti di fallimento; li corregge con amore quando sbagliano; li consola quando si sentono soli; li risolleva quando cadono. Ciò richiede, prima di tutto, vicinanza ai nostri sacerdoti, che hanno bisogno di trovare la porta del Vescovo e il suo cuore sempre aperti. Richiede di essere Vescovo-padre, Vescovo-fratello!

Cari fratelli, ho voluto condividere con voi questi tre argomenti come spunti di riflessione. Ora lascio a voi la parola e vi ringrazio in anticipo per la sincerità e la franchezza. E grazie tante!

[1] AAS 107 (2015), 1139.
[2]
http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_20180302_sinodalita_it.html
[3]
Sussidio applicativo del Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus: http://www.rotaromana.va/content/dam/rotaromana/documenti/Sussidio/Sussidio%20Mitis%20Iudex%20Dominus%20ITA.pdf
[4]
https://giuridico.chiesacattolica.it/il-motu-proprio-mitis-iudex-dominus-iesus-e-la-riforma-dei-processi-matrimoniali-2/
[5]
“Il rapporto tra il vescovo e i suoi preti per servire il popolo di Dio”: L’Osservatore Romano, 7 marzo 2015.