Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo di domenica 5 Aprile 2020

Gesù il Messia vuole entrare nella vita di ogni uomo e donna

Gesù viene qui rappresentato mentre entra a Gerusalemme come Messia umile. Già al capitolo 11 Matteo aveva accennato all’umiltà di Gesù (cf. 11,25-30); ora, mediante la descrizione dell’ingresso in città, l’idea viene ribadita in due modi: con la citazione dal libro del profeta Zaccaria (Zc 9,9, nella quale si trova l’aggettivo «mite»), ma anche attraverso l’immagine delle cavalcature di Gesù, due peculiarità che distinguono la scena da quelle degli altri vangeli. Zc 9,9 (introdotto da Is 62,11, «dite alla figlia di Sion…») è tratto dalla parte del libro dove si parla di Dio che espanderà il suo dominio sui popoli, facendo la sua apparizione su un asino come re che sarà giusto (cf. Mt 27,19), salvatore (oppure «salvato»; CEI: «vittorioso») e mite. Oltre a questo riferimento, si può trovare un’altra luce alla scena evangelica, sempre dal profeta Zaccaria, lì dove si parla del monte sul quale si doveva manifestare il Signore: «I suoi piedi staranno in quel giorno sopra il monte degli Ulivi, che è di fronte a Gerusalemme, a oriente. Il monte degli Ulivi si spaccherà in mezzo da oriente a occidente, formando un’immensa voragine […]. Il Signore, mio Dio, verrà, e tutti i suoi santi con lui» (Zc 14,4-5). Rispetto alla scena narrata da Matteo, però, si nota subito una differenza: Gesù non è tanto il re guerriero che combatte e giudica le nazioni, ma il Signore potente che salva, re umile e pacifico.

La citazione dal profeta, però, non è l’unico riferimento intertestuale che illumina la scena, e per quanto riguarda gli animali dell’ingresso messianico, se si può già capire, a una lettura elementare, che il gesto di prendere una cavalcatura umile – con la promessa di restituirla (cf. Mt 21,3) – è molto diverso da quello a cui erano abituati i re e o i condottieri che guidavano un esercito vittorioso, e che entrando in possesso delle città conquistate praticavano l’angheria (di cui parla anche il Gesù di Mt in 5,41) e si impadronivano dei cavalli e degli altri mezzi di trasporto (vedi quanto dice Samuele a coloro che vogliono la monarchia: 1Sam 8,16-18), per illustrare il senso profondo della scena si potrà fare ricorso anche alle fonti giudaiche antiche. Al tempo di Gesù infatti si credeva che il messia d’Israele sarebbe giunto a Gerusalemme o sulle nubi del cielo (di cui, appunto, dirà Gesù stesso in 26,64), o su un asino.

La descrizione del modo in cui Gesù chiede di una cavalcatura, rispetto alla dinamica del racconto, è infatti sproporzionata (perché spendere così tante parole per una questione che sembra così secondaria?), in dissonanza con la pratica antica dei pellegrinaggi (nelle fonti mishnaiche è scritto che per la festa di Pasqua i pellegrini dovevano giungere a Gerusalemme a piedi: cf. Mishnà, Hagiga 1,1) e, ancora, rispetto a Mc 11,1-11, complicata dal fatto che per Matteo gli asini sono due e non uno solo. La questione può sembrare banale, ma già dall’antichità ha provocato riflessioni che tentavano di spiegare la versione matteana. San Giustino di Nablus, per esempio, pensava che l’asina di Mt 21,5 fosse un simbolo degli ebrei soggiogati dalla Legge, mentre invece il puledro, libero e non cavalcato da Gesù, doveva essere il simbolo dei pagani che non avevano ricevuto ancora la Torà. Origene, nel suo commento a Matteo, interpretava analogamente l’asina come l’antico popolo d’Israele, e il puledro come il nuovo e giovane popolo di Dio proveniente dalle nazioni. Alberto Mello, nel suo commentario, si avvicina a questa impostazione e interpreta i due animali come il simbolo del rapporto tra nuovo e antico patto, entrambi riassunti nel gesto messianico di Gesù: Gesù è il Messia pacifico, nel senso che crea la pace tra ebrei e gentili, tra vicini e lontani.

Noi preferiamo rifarci all’interpretazione avanzata da Michel Remaud, in un suo utile volume dal titolo Vangelo e tradizione rabbinica (EDB 2005), che richiama una tradizione rabbinica riguardante una particolare asina, quella di Abramo. Così recita una testimonianza antica (che non era ancora fissata in questa forma, ma magari si stava già formando ai tempi di Gesù): «Abramo si alzò di buon mattino, prese con sé Ismaele, Eleazaro e Isacco suo figlio, e sellò il suo asino. Quest’asino è il figlio dell’asina che era stata creata al crepuscolo. È l’asino che cavalcò Mosè quando scese in Egitto (cfr. Es 4,20), ed è l’asino che cavalcherà il Figlio di David, come è detto: “Esulta, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”» (Pirqe de-Rabbi Eliezer).

Questa tradizione popolare ebraica è originata dall’interpretazione del racconto della “legatura” di Isacco di Gen 22, e dal fatto che dell’asina di Abramo non si ha più traccia alla fine di quella storia: si credeva, appunto, che fosse rimasta nei dintorni del monte Moria (ovvero il monte del tempio di Gerusalemme nella tradizione giudaica – già secondo 2Cr 3,1) ad attendere il Messia. Il significato teologico dell’identificazione tra l’asina di Abramo e di Mosè e quella del Messia è importante: l’asino nelle fonti rabbiniche non è soltanto un simbolo messianico, ma un animale umile e indispensabile per Israele, un segno vivo della continuità del disegno divino, che partiva da Abramo e si compie ora in Gesù.

Non si deve sottovalutare questa credenza, soprattutto per una ragione. Essa infatti è stata custodita e trasmessa nella tradizione giudaica anche dopo che i cristiani l’hanno così palesemente riferita al loro Messia. Se non fosse stata antica e già conosciuta al tempo in cui i vangeli vengono composti, non sarebbe stata certo creata, in quanto dava modo alla Chiesa di vedervi riflesso l’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme. Matteo dunque poteva essere al corrente di questo midrash, e ciò spiegherebbe anche perché l’evangelista non riporta l’informazione – che si trova invece in Marco e in Luca – circa il fatto che su quell’asina/o nessuno era ancora salito (cf. Mc 11,2; Lc 19,30): l’asina del Messia secondo la tradizione giudaica, che Matteo forse conosceva, era già stata la cavalcatura di qualcuno, Abramo e Mosè!

Uscendo dall’interpretazione simbolica rabbinica, si deve dire che l’evento dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, per uno storico ed esegeta come Giorgio Jossa, ha una funzione fondamentale nella storia gesuana: «siamo indubbiamente di fronte a una svolta nella vicenda di Gesù. Fino a questo momento Gesù non aveva mai detto in maniera esplicita di essere il Messia. La pretesa messianica era implicita nella convinzione, e nell’affermazione, di Gesù che negli esorcismi da lui compiuti Satana veniva sconfitto. Ma questa pretesa Gesù non l’aveva mai formulata in maniera aperta. Nel famoso episodio di Cesarea di Filippo ai discepoli aveva anche chiesto di pronunciarsi sull’identità più profonda della sua persona. Ma anche alla professione di fede di Pietro non aveva dato un assenso esplicito. Ora la situazione e diversa. Con il richiamo alla profezia di Zaccaria l’ingresso in Gerusalemme è un invito esplicito a riconoscerlo come il re davidico annunciato dal profeta. Un re mansueto, non guerriero, ma che presenta comunque i tratti del Messia. E i pellegrini che accompagnano Gesù sembrano comprendere il segno. Inneggiano infatti alla venuta imminente del regno davidico».

È il segno che ancora oggi può essere compreso da quei fedeli che, pur non potendo accompagnare Gesù a Gerusalemme – come idealmente si fa con la processione della Domenica delle Palme –, possono ascoltare e meditare questo Vangelo: Gesù è il re mite che vuole entrare, senza fare violenze o angherie, nella vita vera di ogni uomo e donna, in questo tempo difficile ma prezioso.

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