Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo di domenica 25 Ottobre 2020

 

Amare Dio e il prossimo

Nel lezionario viene tralasciata la seconda diatriba di Gesù nel capitolo ventiduesimo di Matteo (quella con i sadducei a proposito della risurrezione), e si arriva col vangelo di questa domenica alla diatriba con i farisei. Questa si apre con Gesù interrogato dai suoi avversari, ma, ancora una volta, per metterlo alla prova (v. 35).

Si tratta di quelle “dispute” o “diatribe” che caratterizzano la dialettica giudaica, già testimoniata nelle fonti antiche come il Talmud. Si chiamano, in ebraico, mahaloqet, e sono veri e propri conflitti di opinioni su questioni teologiche o di halakà. Queste discussioni tra maestri ebrei sarebbero sorte già all’epoca di Hillel e Shammai, che avrebbero avuto opinioni diverse su quattro questioni. Quando essi morirono, i loro discepoli però moltiplicarono le dispute, e si divisero su moltissimi punti. Se una scuola riteneva una cosa, l’altra si schierava per l’opposta: secondo un detto rabbinico, l’unanimità sarebbe ritornata solo col Elia, che avrebbe riconciliato tutte le opinioni dei rabbini (cf. Mishnà, ‘Eduyot 8,7). I rabbini apprezzavano le dispute, ma non quelle oziose: «Qualunque disputa che avviene nel nome del Cielo sarà ricordata [= ovvero, anche le opinioni che poi non sono state accettate], ma quelle che non sono nel nome del Cielo alla fine non resteranno» (Etica dei padri, 5,20). Secondo la tradizione giudaica, dunque, ogni disputa, se aveva come scopo la ricerca della verità, sarebbe rimasta come contributo positivo; ogni disputa, però, poteva degenerare, e diventare un dissidio che avrebbe avuto come esito la fine della pace. Infatti, come si è già accennato, nella prima questione di questo capitolo 22 di Mt – quella con gli erodiani e i farisei, di cui il vangelo di domenica scorsa – c’è qualcosa di più di una disputa di scuola: i farisei e gli erodiani vogliono cogliere in fallo Gesù, e con un atteggiamento lusinghiero lo provocano. Non è però detto lo stesso per questa nuova situazione, riguardante il comandamento più grande della Torah.

Chi sta davanti a Gesù è un dottore della Legge, e la questione è tipica delle discussioni tra esperti della Legge: esiste o no un comandamento, tra i 613 contati poi più tardi dai rabbini, che sia più grande degli altri? (alla lettera: «Quale comandamento (è) grande nella Legge?»). Nel Primo Testamento troviamo già diverse formulazioni di precetti in forma sintetica (per esempio in Sal 15 sono elencati 11 comandi, in Is 33,15-16 ce ne sono 6, e così via), che poi erano stati elaborati dai saggi d’Israele, e venivano suddivisi – in particolare dalla scuola del rabbino Hillel – in pesanti o leggeri. Anche Gesù sembra accettare questa impostazione, e riconosce che vi sono precetti “minimi”, che però non possono essere tralasciati; si veda cosa dice nel Discorso della montagna: «Chi trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli» (Mt 5,19).

La prima parte della risposta di Gesù rimanda alla preghiera dello Shemà dal libro del Deuteronomio: «Ascolta (Shemà), Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,4-5; la formula completa dello Shemà si può trovare sulle labbra di Gesù nel parallelo al vangelo di oggi, Mc 12,28-34). Gesù, come ogni ebreo, la recitava almeno due volte al giorno, di più quando andava in sinagoga, dove questa era al centro della preghiera del sabato: è la professione di fede che contraddistingue la prima religione monoteistica della storia. La seconda parte della risposta di Gesù è invece una citazione dal libro del Levitico, 19,18, «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore».

Queste parole sono diventate a noi talmente familiari, che non ne riconosciamo quasi più la forza e l’originalità che dovevano invece avere quando Gesù le pronunciò. Questi le ha rese però ancora più “nuove”, mettendo insieme i due comandi, coniugando così in modo indissolubile l’amore di Dio con quello per il prossimo. I due precetti uniscono il cielo alla terra, l’uomo a Dio, l’uomo all’uomo: l’amore “verticale” (amare Dio) e quello “orizzontale” (amare il prossimo) non possono essere più separati. Anzi, dalle parole di Gesù sembra che non possa esistere l’amore per Dio senza quello per il prossimo. Il primo comandamento implica il secondo, e il secondo presuppone il primo. Ad esempio, il vero amore per il prossimo può arrivare al punto da essere possibile solo se è fortemente motivato nell’amore per Dio. Si pensi a quanto tempo pregava una santa, Madre Teresa di Calcutta, per avere la forza di assistere gli ultimi, oppure si pensi a quanto sia difficile in una coppia perdonare il proprio coniuge se non si hanno ragioni di fede alle spalle. Viceversa, se l’amare Dio non ha risvolti verso il prossimo, probabilmente non è vero amore. Per noi, in un tempo dove la parola “amore” è abusata continuamente, è importante ricordarci che la prima componente dell’amore nella Bibbia non è il sentimento o l’affetto, ma l’impegno e la scelta, non solo il “cuore”, ma la forza e l’anima.

Riguardo la situazione in cui è collocato il nostro vangelo, dobbiamo ritenere che le parole con cui Gesù rispose ai farisei dovevano venire dalla sua esperienza personale ed erano molto importanti per la comunità primitiva. Anche il Messia ha dovuto amare i suoi nemici, e così ha dovuto fare la chiesa di Matteo. Spiega bene Alberto Mello: «Sul primo punto, l’amore per Dio, difficilmente Matteo si sentirebbe di attaccare i farisei. Ma sull’amore del prossimo come specchio del nostro amore per Dio, egli ha tutta la possibilità di accusare della gente che si è radunata e ha tenuto consiglio contro Gesù, per farlo morire. Matteo tende a presentare i farisei come i veri oppositori di Gesù, non tanto su una base ideologica, quanto sulla base delle relazioni conflittuali tra farisei e giudeo-cristiani dopo il 70». Non abbiamo avuto lo spazio per commentarlo, ma il modo in cui Matteo modifica la sua fonte, il vangelo secondo Marco, su questo preciso punto (del resto basta leggere Mc 12,28-34), la dice lunga su quanto i primi cristiani abbiano dovuto soffrire per custodire la propria identità, giudaica – che non volevano perdere – ma pure centrata sulla certezza che Gesù fosse il Messia d’Israele. La frase di Lv 19,18 – il comando di amare il prossimo – è, nel Vangelo di Matteo, il testo veterotestamentario più citato: si trova anche in Mt 5,43 e 19,19. Significa che Gesù aveva insistito su questo precetto, ma anche che per Matteo era particolarmente necessario ricordarlo ai credenti in Cristo, quando questi non venivano più capiti ed accolti dalla loro stessa gente; purtroppo, anche dai loro stessi fratelli maggiori.


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