Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo del 29 Maggio 2022

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Il Risorto interpreta le Scritture

Il vangelo di questa domenica è facilmente divisibile in due parti: nella prima (Lc 24,46-49), le ultime raccomandazioni di Gesù nella versione lucana; nella seconda (vv. 50-53), la descrizione della sua ascensione al cielo. Ci soffermeremo soprattutto sulla prima scena.

Così sta scritto. Prima di lasciare i suoi, Gesù compie come un breve “riassunto” della sua vita e della sua missione. Già ai due di Emmaus aveva spiegato come in tutte le Scritture – «cominciando da Mosè e da tutti i profeti» – vi era ciò che si riferiva a lui, e soprattutto che il Messia d’Israele avrebbe «sopportato tutte queste sofferenze per entrare nella sua gloria» (Lc 24,26). Ora questi discorsi sono rivolti agli apostoli, come dice l’introduzione al vangelo di oggi, Lc 24,44: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Gesù sta spiegando, come aveva già fatto nei suoi tre annunci della passione, che il Messia, il Cristo, sarebbe morto e risorto dopo tre giorni.

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E veniamo a un problema. Secondo Luca, Gesù disse: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno» (24,46). Invano cercheremmo dove queste parole, nel Primo Testamento, sono registrate. Forse l’evangelista si è inventato qualcosa? Ha travisato le Scritture? Le ha lette male, e prima di lui Gesù? Abbiamo già visto in occasione della IV domenica di Pasqua che al tempo di Gesù non vi è nessuna attesa messianica relativa ad un Messia-Servo, insomma non ci si aspettava che il Cristo potesse essere sconfitto dalla croce: le profezie di Isaia, quelle dedicate al “Servo sofferente”, non sono state mai interpretate ordinariamente – nell’ebraismo contemporaneo a Gesù – in senso messianico. Ma l’hanno invece fatto i cristiani (e forse pochi altri, secondo quanto Daniel Boyarin, oggi, ad esempio, sta tentando di dimostrare, in The Suffering Christ as a Midrash on Daniel, nel suo The Jewish Gospels).

Se è vero che non vi è nessuna citazione letterale e nessun rimando a qualche testo specifico che parli di un Cristo che patisce e risorge («Così sta scritto, il Cristo patirà», 24,46), è anche vero, però, che tutte le Scritture nascondevano un senso più profondo, che è diventato accessibile a partire dal loro compimento in Cristo, e che – come oggi ci spiega bene Luca – Gesù stesso, dopo la risurrezione, ha indicato ai discepoli. Come avrebbero mai fatto, questi, a comprendere altrimenti in un senso così “pieno” le parole che mai nessuno prima aveva interpretato in quel modo?

Come leggono le Scritture i cristiani? E perché coloro che ci hanno passato la Bibbia, gli Ebrei, non le leggono allo stesso modo, e così scoprire Gesù il Cristo “nascosto” dentro il libro della Bibbia? I cristiani leggono la Bibbia a partire dalla morte e risurrezione di Gesù. «La morte del Messia, re dei Giudei, e la sua risurrezione diedero ai testi dell’Antico Testamento una pienezza di significato prima inconcepibile. Alla luce degli eventi della Pasqua gli autori del Nuovo Testamento rilessero l’Antico. Lo Spirito Santo inviato dal Cristo glorificato ne fece scoprire loro il senso spirituale» (Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana). E gli Ebrei? «Non si deve dire che l’ebreo non vede ciò che era annunciato nei testi, ma che il cristiano, alla luce di Cristo e della Chiesa, scopre nei testi un di più di significato che vi era nascosto» (Ibid.).

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Cominciando da Gerusalemme. Da qui si deve partire, per cogliere l’originalità della lettura cristiana della Bibbia ebraica, e perché da Gerusalemme, la città santa dei giudei, viene la salvezza (cf. Gv 4,22). Da Gerusalemme parte l’annuncio che il cristiano deve dare, e di Gerusalemme – ovvero della nostra matrice ebraica – non ci si deve dimenticare, nonostante le differenze e le distinzioni. Il Card. Martini, in un suo libro, scriveva: «I profondi valori che ci uniscono (cristiani ed ebrei) non sopprimono certo le caratteristiche che ci distinguono e che vanno esposte con chiarezza, a fondamento di un onesto dialogo; in Gesù morto e risorto noi cristiani adoriamo il Figlio unigenito prediletto del Padre, il Messia signore e redentore dei popoli tutti che ricapitola in sé l’intero creato. Tuttavia con questo atto di fede noi riteniamo di confermare i valori ebraici e la Torah, come afferma Paolo (Rm 3,31). La nostra esegesi dinamica ed escatologica delle Scritture ci pone in una linea di continuità–diversità con l’interpretazione ebraica» (Verso Gerusalemme, Feltrinelli 2004, 102).

Una separazione gioiosa. Come abbiamo visto anche in occasione del discorso d’addio nel vangelo di domenica scorsa, in questa ultima scena dipinta da Luca non vi sono né tristezza né rimpianti. La separazione tra Gesù è i suoi è definitiva, ma questi «tornarono a Gerusalemme con grande gioia».

Che cosa dobbiamo chiedere – in occasione di questa memoria, e della prossima Pentecoste? Che venga di nuovo il Suo Spirito, che ci apra la mente, l’intelligenza, per capire le Scritture (cf. Lc 24,45), e che ci doni la stessa gioia provata da chi, ormai senza una guida visibile, è condotto dalla Sua Presenza invisibile.

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