p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 8 Novembre 2020

Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 8 Novembre 2020.
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Difficile non è credere, ma perseverare

Israele ha fatto l’esperienza della fedeltà del suo Dio e per lui ha coniato l’espressione hesed we ’emet che ricorre spesso nella Bibbia e che può essere tradotta: fedele nell’amore. Quando il Signore stipula un’alleanza non viene meno ai patti, anche se la controparte tradisce gli impegni presi; quando fa una promessa, non manca mai di parola.

Ne era profondamente convinto Paolo: “Fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati” (1 Cor 1,9); “Se noi siamo infedeli, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tm 2,13) e, ricordando l’infedeltà d’Israele, esclama: “La loro incredulità può forse annullare la fedeltà di Dio? Impossibile!” (Rm 3,3-4).

Ma potrà l’uomo corrispondere mai a questo amore?

Nella Bibbia si parla dei hasidim (i fedeli; da hesed, fedele) e, già prima di Cristo, un gruppo di uomini pii e virtuosi – che si erano dati questo nome – si proponevano di incarnare l’israelita leale, osservante della legge, disposto anche al martirio pur di non tradire la propria fede. Questa corrente spirituale si è mantenuta fino ad oggi nel popolo giudaico. Ecco quanto ha lasciato scritto uno di questi hasidim davanti alla camera a gas: “Dio d’Israele hai fatto il possibile perché non credessi in te. Qualora tu pensassi di riuscire a farmi deviare dalla mia via, ebbene ti dico, Dio mio, Dio dei miei padri, non ci riuscirai. Mi puoi percuotere, togliermi quanto di più prezioso e caro ho sulla terra, mi puoi tormentare a morte, ma io crederò sempre in te. Ti amerò sempre. Muoio come sono vissuto, credendo fermamente in te”.

Quando soffia il vento della prova “la lampada degli empi si spegne, la luce dei giusti risplende” (Pr 13,9).

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
«Fa’, o Signore, che, nell’ultimo giorno, possa ripetere, come Paolo: “Ho terminato la mia corsa, mi sono conservato fedele”».

Prima Lettura (Sap 6,12-16)

12 La sapienza è radiosa e indefettibile,
facilmente è contemplata da chi l’ama
e trovata da chiunque la ricerca.
13 Previene, per farsi conoscere, quanti la desiderano.
14 Chi si leva per essa di buon mattino non faticherà,
la troverà seduta alla sua porta.
15 Riflettere su di essa è perfezione di saggezza,
chi veglia per lei sarà presto senza affanni.
16 Essa medesima va in cerca di quanti sono degni di lei,
appare loro ben disposta per le strade,
va loro incontro con ogni benevolenza.

Più della ricchezza, della bellezza e della forza, gli israeliti – come tutti i popoli dell’antichità – stimavano la “sapienza”. Apprezzavano chi scrutava i segreti della natura, chi componeva proverbi, canti e poesie, chi rifletteva sugli enigmi del mondo, sulla vita e sulla morte, sulla gioia e sul dolore. Il più famoso dei saggi fu Salomone la cui sapienza “fu maggiore di quella di tutti gli orientali e di tutta la terra d’Egitto” (1 Re 5,9-14).

Quando la Bibbia parla di “sapienza” si riferisce però, soprattutto, all’arte di orientare bene la propria vita. Saggio è colui che, riflettendo sulla propria esperienza, sugli insegnamenti dei saggi che lo hanno preceduto, sugli avvenimenti della storia del suo popolo, trae insegnamenti utili per sé e per gli altri, sa distinguere ciò che è bene da ciò che è male, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, riesce a controllare i propri istinti e le proprie passioni, agisce con ponderazione, è leale nel parlare e nell’agire, è umile e modesto.

Nel mondo non esiste però un’unica sapienza: accanto a quella di Dio c’è anche quella del “serpente” che la Bibbia presenta come la più astuta delle creature fatte dal Signore Dio (Gn 3,1). È l’immagine della furbizia dell’uomo che pretende di divenire padrone assoluto del proprio destino, ma che, escludendo Dio dalla propria vita, finisce per decretare la propria rovina. Potrà costui fregiarsi del titolo di “saggio”? La risposta della Bibbia è: no. È l’insensato che, in cuor suo, esclama beffardo: “Non c’è alcun Dio!” (Sal 14,1).

È dunque fondamentale per ogni uomo, per ogni famiglia, per ogni popolo, verificare qual è la “sapienza” che lo guida, che lo prende per mano: è quella di Dio o quella del “serpente”?  Da quale “saggezza” dipendono le decisioni che vengono prese? Si tratta di scegliere fra vita e morte.

L’autore del brano che ci viene proposto oggi è un saggio che ha scoperto la sapienza di Dio e vuole che i suoi lettori se ne innamorino, per questo la presenta, personificata, come una splendida ragazza, come una giovane fanciulla che gioca e scherza davanti a Dio: è luminosa e incorruttibile, chi la ama non si stanca mai di contemplarla (v. 12).

E le pene d’amore? Le sperimenta chi si sente rifiutato, chi si vede continuamente sfuggire l’amata, chi scopre che la donna dei suoi sogni è irraggiungibile. Ottenere la sapienza di Dio è forse così arduo?

No! – risponde il nostro autore – essa può essere trovata facilmente da chiunque la cerchi (v. 12), anzi, è essa stessa che previene chi la ama, mette in atto mille malie per farsi notare, per farsi conoscere (v. 13). Fin dal mattino va in ricerca di un uomo saggio per allietarlo con la sua bellezza e, per sedurlo, si fa incontrare sulla porta della sua casa (v. 14).

Di alcuni è essa stessa ad invaghirsi, rimane affascinata perché “sono degni di lei”. Quando li scopre non li abbandona più, li segue ovunque, li accompagna lungo tutte le strade (v. 16).

Il brano si conclude proclamando beato e senza affanni chi fa sua la sapienza di Dio, chi affida ad essa la propria vita (v.15).

Seconda Lettura (1 Ts 4,13-18)

13 Non vogliamo poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. 14 Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui. 15 Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti. 16 Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; 17 quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore. 18 Confortatevi dunque a vicenda con queste parole.

Nelle prime comunità cristiane si era diffusa la convinzione che molto presto Gesù sarebbe ritornato per prendere con sé i discepoli e introdurli nel regno del Padre. Anche Paolo condivideva questa idea. Da dove era sorta, com’era nata?

È spontaneo e naturale immaginare che la propria generazione sia l’ultima e che il mondo finisca con noi. Fin qui nulla di strano; i guai cominciano quando compaiono i cosiddetti millenaristi che, approfittando dell’ingenuità della gente, annunciano eventi spaventosi e fanno perdere la testa a qualcuno, convincendolo che sono giunti “gli ultimi giorni”. Le conseguenze di questi fanatismi possono anche essere tragiche.

Al tempo di Paolo l’attesa dell’imminente fine del mondo era alimentata anzitutto dai rabbini. Essi dicevano che, a causa delle innumerevoli disgrazie che avevano colpito il loro popolo e delle tante sofferenze, umiliazioni, violenze che ogni giorno Israele continuava a sopportare, Dio sarebbe presto intervenuto per dare inizio al suo regno. Ma anche alcune frasi di Gesù, interpretate alla lettera e in modo scorretto, avevano contribuito a suscitare quest’aspettativa (Mt 24).

A Tessalonica l’attesa dell’imminente fine del mondo cominciava a creare seri problemi, tanto che Paolo sentì il bisogno di intervenire. Alcuni, convinti che rimanesse ormai poco tempo da vivere e che le scorte di cibo potessero essere sufficienti, avevano smesso di lavorare, erano divenuti dei perdigiorno, screditando così tutta la comunità.

C’era anche un problema teologico che suscitava perplessità e interrogativi: riguardava la sorte dei defunti. Ci si chiedeva: se il Signore verrà a prendere noi, i vivi, che ne sarà dei nostri parenti e amici che sono morti?

Nella lettura di oggi viene chiarito il secondo problema. A quello dell’astensione dal lavoro risponderà una seconda lettera, scritta alla medesima comunità.

Paolo comincia richiamando alcune verità fondamentali: di fronte alla morte, pagani e cristiani si trovano su posizioni non solo distanti, ma opposte; i primi “non hanno speranza” e quindi, di fronte alla morte, non possono far altro che disperarsi: per loro è la fine di tutto. I cristiani invece credono nella vita eterna, sanno che la vita di Dio, ricevuta nel battesimo, non è interrotta dalla morte; pur soffrendo per il distacco da una persona cara, non si rattristano “come coloro che non hanno speranza” (v. 13).

La seconda verità cui i tessalonicesi devono fare riferimento è la risurrezione di Cristo (v.14). Gesù ha vinto la morte, è entrato nella gloria del Padre e condurrà con sé tutti coloro che, nel battesimo, sono stati uniti a lui.

La terza verità consolante (vv.15-17) è che, alla venuta di Cristo, non ci sarà alcuna differenza fra coloro che sono già morti e coloro che saranno trovati ancora in vita: tutti verranno raccolti e staranno per sempre con il Signore.

In queste verità – che costituiscono il centro della fede – i cristiani devono trovare la risposta all’enigma che da sempre ha angosciato gli uomini, quello della morte.

Vangelo (Mt 25,1-13)

1 Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. 2 Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; 3 le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; 4 le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi. 5 Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono.
6 A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! 7 Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. 8 E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. 9 Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene.
10 Ora, mentre quelle andavano per comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. 11 Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! 12 Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco.
13 Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.

Nella parabola di oggi ci sono alcuni dettagli strani, poco verosimili, addirittura contraddittori. Ne elenco alcuni: come mai le vergini stolte non entrano alle nozze col poco olio che ancora rimane loro? Cosa passa loro per la mente di andare a comperarne al mercato? A mezzanotte non ci sono mercati aperti. Le vergini sagge sono introdotte con grande onore alla festa, ma a noi verrebbe voglia di scacciarle: non sapremmo che farcene di amiche tanto egoiste. La raccomandazione con cui si conclude il racconto: “vigilate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” (v. 13) non c’entra affatto con la parabola, perché anche le vergini sagge hanno dormito e nessuna è stata vigilante.

Anche la figura dello sposo (che rappresenta chiaramente Cristo) non è per nulla simpatica. È un tipo strano: arriva ad un ora impossibile, poi, proprio nel giorno in cui dovrebbe mostrarsi affabile con tutti, inizia a minacciare e a scacciare le persone per errori da niente. Al suo banchetto tutti noi parteciperemmo con apprensione.

Per comprendere questi particolari strani, bisogna tener presente anzitutto che ci troviamo di fronte ad una parabola e, nelle storie, non tutto è logico; a volte vengono introdotti elementi che hanno come unico scopo provocare la fantasia dell’ascoltatore, mantenerlo interessato e attento, per fargli assimilare più facilmente il messaggio. I particolari drammatici della nostra parabola sono dovuti – come ho già avuto modo di dire altre volte – al tipico gusto orientale per le immagini impressionanti. Non è su di essi che si deve fissare l’attenzione, ma sull’insegnamento centrale.

C’è un altro elemento importante da tenere presente per comprendere la parabola: il racconto iniziale di Gesù è stato ritoccato da Matteo che l’ha adattato ai bisogni catechistici delle sue comunità. Vedremo come.

La festa di nozze in Israele era molto solenne e durava circa una settimana. Nel primo giorno lo sposo si recava alla casa dei suoceri a prendere la sposa per portarla con sé. Ad accoglierlo c’erano le damigelle – le ragazze nubili del villaggio – che, cantando, danzando e, se era notte, impugnando fiaccole, accompagnavano l’amica che si sposava fino alla sua nuova dimora dove si svolgeva la festa di nozze.

Gesù prende spunto da questa cerimonia – cui ha certo assistito e partecipato spesso – per comporre una parabola con cui mediare un suo messaggio.

Se si tiene presente che, sia il numero cinque sia la vergine sono simboli del popolo di Israele e che il numero dieci indica la totalità, è facile cogliere il significato che la parabola ha avuto sulla bocca di Gesù. Le dieci vergini rappresentano il popolo di Israele che attende il messia (lo sposo): una parte di questo popolo (le cinque vergini sagge) è preparata ad accoglierlo ed entra nella comunità cristiana, un’altra parte invece (le cinque vergini stolte) non è attenta ai progetti di Dio, è infedele e resta fuori dalla sala del banchetto.

Cinquant’anni dopo, quando Matteo scrive il suo vangelo, il contesto storico, culturale e religioso è mutato, sono sorte comunità cristiane nel mondo pagano, i problemi con cui i discepoli si devono confrontare sono diversi e, nella nuova situazione, si sente più che mai il bisogno della parola illuminante del Maestro. Matteo – da vero pastore d’anime attento ai bisogni spirituali della sua chiesa – riprende la parabola di Gesù e la ripropone, adattandola alla nuova realtà.

Quali erano i problemi delle comunità cristiane alla fine del I secolo d.C.?

Abbiamo visto nella seconda lettura che, nei primi decenni di vita della chiesa, si era diffusa la convinzione che il Signore sarebbe tornato presto “sulle nubi del cielo” per prendere con sé e introdurre nella gloria i suoi discepoli. Ma non era accaduto nulla, l’attesa febbrile era andata delusa, erano sorti i primi dubbi, erano subentrati nelle comunità la stanchezza e lo scoraggiamento e, come conseguenza, si registravano fra i cristiani molte defezioni. Qualche apostata rivolgeva anche battute ironiche ai suoi antichi fratelli di fede: “Dov’è la promessa della venuta del Signore? Dal giorno in cui i nostri padri hanno chiuso gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione” (1 Pt 3,4).

Delusi per il mancato ritorno del Signore, molti riprendevano la vita dissoluta che avevano condotto prima del battesimo, tornavano a interessarsi del commercio e degli affari, assumevano di nuovo atteggiamenti arroganti nei confronti dei loro dipendenti e sfruttavano gli schiavi, proprio come se non avessero mai udito il vangelo di Cristo. Erano sprofondati in un pericoloso sonno spirituale, erano in balìa del più completo ottundimento della coscienza.

È per richiamare queste persone che hanno lasciato spegnere in loro la fiaccola della fede, è per scuotere chi permette che la propria fede si riduca ormai a un lucignolo fumigante che Matteo riscrive la parabola. La scena è quella del giudizio di Dio, le tinte sono cupe, il linguaggio è duro, ma è la situazione che lo richiede. C’è anche l’aggiunta di un’esortazione che Gesù ha certamente pronunciato in altra occasione – “Vigilate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora!” (v. 13) – ma l’evangelista ritiene opportuno collocarla in questo contesto.

Nella prima parte della parabola (vv. 1-5) vengono introdotti i personaggi e descritti i preparativi per la festa.

Nella nuova versione – quella adattata da Matteo alla sua comunità – le dieci vergini non indicano più Israele, ma la chiesa che attende il ritorno del suo Signore, del suo Sposo. Ha così una spiegazione logica anche il fatto che non compaia la sposa: è la comunità cristiana la sposa, rappresentata dalle dieci vergini.

“Cinque di esse erano stolte e cinque sagge” (v. 2).

Qui viene ripreso un tema caro a Matteo: nella comunità cristiana convivono il male e il bene; il grano e la zizzania crescono nello stesso campo; i pesci buoni e quelli cattivi si trovano nella stessa rete; gente pulita e gente sporca siede alla stessa mensa; i sapienti e gli stolti sono affiancati.

Si noti anche che le vergini stolte sono nominate per prime, perché sono loro che destano preoccupazioni. Rappresentano i cristiani a rischio, quei discepoli che si sono assopiti e che si comportano come ragazze frivole, vanesie e svampite, che perdono la testa per i vestiti, i monili, i profumi, il look e trascurano l’essenziale. Puntano la vita su ciò che è caduco, trascurano i valori autentici, dimenticano l’unica cosa necessaria, quella che Maria aveva scelto stando ai piedi del Signore e divenendo sua discepola (Lc 10,38-42).

Le vergini vigilanti sono invece i cristiani che non si lasciano sedurre dalle vanità e rimangono concentrati su ciò che è importante nella vita.

La parabola è riproposta ai cristiani di oggi, per aiutarli a scoprire e riconoscere la “vergine stolta” che si trova in ognuno di loro. Spesso è lei che – senza che se n’avvedano – li prende per mano, li consiglia, li guida, dà suggerimenti e orienta verso scelte insensate.

Nella seconda parte della parabola (vv. 6-9) c’è, anzitutto, il grido di qualcuno che, più vigilante degli altri, intuisce per primo che sta per giungere lo sposo, poi vengono messi a confronto i due gruppi e il modo opposto con cui hanno vissuto il tempo dell’attesa.

Il comportamento sconcertante delle vergini sagge, che rifiutano il loro olio alle compagne, contiene un messaggio prezioso. In passato si udiva ripetere dai maestri spirituali la frase: “L’importante è morire in grazia di Dio”, quasi bastasse un buon sentimento, un buon pensiero al termine della vita, per rimettere a posto un’esistenza gestita male. Una vita rovinata non viene ricostruita all’ultimo minuto e nessuno può prestare parte della sua. L’importante dunque non è morire bene, ma vivere bene. Dio – è vero – trova sempre e comunque il modo di salvare l’uomo, ma alla fine ognuno si ritroverà con ciò che ha fatto: con un palazzo splendido e solido o con un castello di cartapesta, che non resisterà al fuoco del giudizio di Dio, quando egli “metterà alla prova la qualità dell’opera di ognuno” (1 Cor 3,13-17).

La terza parte (vv. 10-12) contiene la scena di giudizio: arriva lo sposo, alcuni sono ammessi alla festa, altri sono rifiutati.

In Matteo le parabole si concludono spesso in modo drammatico, con minacce e castighi. Questi non sono introdotti per terrorizzare, ma per mettere in guardia da comportamenti errati che conducono al fallimento. Sono un richiamo all’importanza del momento presente, l’unico che ci è dato e che neppure Dio ci può far rivivere. Se lo si investe male, è perso per sempre.

La chiusura della porta indica la fine di tutte le opportunità. Da qui l’urgenza di stabilire come impiegare bene la vita e l’immagine della lampada accesa suggerisce il modo.

Verrà approvato da Dio chi avrà fatto scelte evangeliche, sarà stato perseverante e avrà mantenuta accesa nella mente e nel cuore la luce della fede, anche nei momenti in cui le prove e le difficoltà saranno andate al di là del previsto. Verrà condannata e giudicata insensata, invece, la scelta di chi, per un po’, avrà seguito le proposte di Cristo, ma poi, stanco, avrà ripiegato su altri valori, su altri interessi.

Solo questo è il messaggio della parabola, il resto è drammatizzazione per renderlo incisivo, non è la descrizione di ciò che Gesù farà alla fine del mondo con chi si sarà comportato da stolto.

L’epilogo (v. 13) è un ultimo richiamo alla vigilanza: lo Sposo può venire da un momento all’altro ed è necessario essere sempre pronti ad accoglierlo.

Sarebbe un errore immaginare questo mondo come una sala d’attesa in cui, seduti, pazienti e magari sonnecchiando, i cristiani aspettano che il Signore venga a prenderli per introdurli nel mondo futuro.

Questa concezione (che era quella di alcuni cristiani di Tessalonica) ha dato origine al disimpegno, all’immobilismo, alla disaffezione, al disinteresse per i problemi del mondo e delle realtà terrene e questi atteggiamenti sono quanto di più antievangelico si possa immaginare.

Gesù non viene solo al termine della nostra vita, viene in ogni istante e vuole trovare i suoi discepoli impegnati nel servizio, nel dono di sé al fratello. Nella loro stanza, la lampada deve essere sempre accesa, come punto di riferimento e richiamo di speranza per il povero in cerca di aiuto, per l’emarginato e lo straniero che invocano amore e giustizia, per la donna che chiede rispetto, per chi è vittima di violenza e anela alla pace, per chi ha sbagliato e ha bisogno di comprensione e di perdono.


AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: Settimana News

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