p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 5 Dicembre 2021

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Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 5 dicembre 2021.
Se sei interessato a tutti i sui commenti al Vangelo, puoi leggerli qui.

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Ti chiamerò con un nome nuovo

Le statistiche dicono che il 98% delle donne non si piace e tenta in ogni modo (imponendosi diete, facendo aerobica, scegliendo un nuovo look, ricorrendo alla chirurgia estetica) di migliorare la propria immagine. Gli antichi – per i quali il nome formava un tutt’uno con la persona – avrebbero definito questi sforzi ricerca di darsi un nome nuovo, tentativi di rifarsi il nome.

Dio ama cambiare connotati e nome alle persone, alle città, ai popoli. Ha chiamato Abramo, Sara, Giacobbe, Simone e ha dato loro un nome nuovo. Ha trasformato Gerusalemme – la città in rovina, “la schiava”, “la vedova triste e avvizzita” – in una città chiamata “Leggiadra”, “Gioiello”, “Pace della giustizia e gloria della pietà”.

Noi forse ci sentiamo irrimediabilmente incatenati a un nome che sappiamo di meritare, anche se nessuno ce l’ha mai rivolto: “Alcolizzato”, “Tossicodipendente”, “Schiavo del gioco”, “Corrotto sessuale”, “Infedele”, “Disonesto”, “Inaffidabile”… E’ la condizione infelice dalla quale Dio ci vuole liberare. Egli viene per rivelarci il nome con il quale ci chiama da tutta l’eternità.

Con quale nome potremmo indicare la nostra nazione, la nostra comunità cristiana, la nostra famiglia? Le chiameremmo: luogo di pace, di condivisione, di giustizia, di fratellanza o attendiamo che il Signore le visiti e dia loro un nome nuovo?

Dando all’uomo la libertà Dio ha rischiato molto: si è collocato nella condizione e nell’eventualità di vedere il suo amore rifiutato. Ma se ha deciso di giocare questa partita è difficile immaginare che possa uscirne sconfitto. Un giorno chiamerà ogni uomo con il nome nuovo che il suo amore avrà indicato.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio”.

Prima Lettura (Bar 5,1-9)

1 Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione,
rivèstiti dello splendore della gloria
che ti viene da Dio per sempre.
2 Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio,
metti sul capo il diadema di gloria dell’Eterno,
3 perché Dio mostrerà il tuo splendore
ad ogni creatura sotto il cielo.
4 Sarai chiamata da Dio per sempre:
Pace della giustizia e gloria della pietà.
5 Sorgi, o Gerusalemme, e sta in piedi sull’altura
e guarda verso oriente; vedi i tuoi figli riuniti
da occidente ad oriente,
alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio.
6 Si sono allontanati da te a piedi, incalzati dai nemici;
ora Dio te li riconduce
in trionfo come sopra un trono regale.
7 Poiché Dio ha stabilito di spianare
ogni alta montagna e le rupi secolari,
di colmare le valli e spianare la terra
perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio.
8 Anche le selve e ogni albero odoroso
faranno ombra ad Israele per comando di Dio.
9 Perché Dio ricondurrà Israele con gioia
alla luce della sua gloria,
con la misericordia e la giustizia
che vengono da lui.

In Israele, la donna che perdeva il marito o un figlio indossava gli abiti del lutto, si copriva il capo con un velo. Affranta dal dolore si sedeva per terra, non preparava il cibo, non si lavava e non si ungeva con profumi. Così manifestava la sua disperazione.

La lettura paragona la città di Gerusalemme ad una vedova triste alla quale, con brutale violenza, sono stati strappati dalle braccia i figli: siede sconsolata, ricoperta della veste di lutto e rifiuta ogni parola di conforto.

Il riferimento è a uno degli eventi più drammatici della storia d’Israele: la distruzione della città santa, la devastazione del suo territorio e la deportazione dei suoi abitanti. Come una mamma, Gerusalemme ha visto i suoi figli allontanarsi in catene, sospinti da soldati crudeli. Era convinta che non li avrebbe mai più rivisti.

Passano molti anni – forse cinquanta – e un giorno Dio fa sorgere fra gli esiliati un profeta incaricato di recare un messaggio di gioia a colei che un tempo “era la grande fra le nazioni, la signora tra le province” e che ora “è divenuta come una vedova” (Lam 1,1).

Le dice: Gerusalemme, è finito il tuo lutto! Deponi gli abiti laceri, avvolgiti di un manto splendente, il Signore sta per porre sul tuo capo un diadema di gloria.

Non si è mai visto una vecchia avvizzita ringiovanire e tornare ad essere una ragazza stupenda e incantevole. Eppure con Gerusalemme questo accadrà – dice il profeta – su di essa risplenderà la gloria che viene da Dio (v.1).

Si badi bene: non la gloria che noi pensiamo di poter dare a Dio (come se egli avesse bisogno dei nostri applausi), ma la gloria che viene da lui. E’ la manifestazione del suo amore mediante il suo intervento in nostro favore. Questa è la sua gloria: la vita dell’uomo.

La trasformazione del lutto in gioia – dice Baruc – sarà sotto gli occhi di tutti. Dio manifesterà lo splendore della Gerusalemme rinnovata “ad ogni creatura sotto il cielo” e questo sarà il segno che nulla è impossibile per il suo amore.

Osea – il profeta che per primo ha impiegato l’immagine di Israele sposa del Signore – alludeva a un altro prodigio. Dio – diceva – si fidanzerà di nuovo con Israele, l’adultera, abolirà completamente il suo passato, con il suo amore le ridarà addirittura la sua verginità (Os 2,21-22).

Come segno della trasformazione avvenuta, Gerusalemme riceve nomi nuovi: è chiamata Pace della giustizia e Gloria della pietà (v.4).

Per un semita il nome non è una semplice designazione convenzionale, è sempre intimamente legato alla persona, s’identifica addirittura con chi lo porta. Fare un censimento significa asservire colui che viene schedato (2 Sam 24), cambiare il nome indica l’attribuzione di una nuova personalità (Gn 17,5).

Gerusalemme riceve nomi nuovi che indicano il suo destino: diverrà il luogo dove regnerà la vera pace, non quella apparente che è solo oppressione legalizzata, ma quella che è frutto della giustizia, cioè dalla realizzazione del progetto di Dio. Sarà “gloria della pietà” perché la sua fama non le deriverà dal prestigio politico o dai successi militari, ma dalla sua pietà, cioè, dalla fedeltà al suo Dio.

Baruc continua: Gerusalemme, non stare più seduta nella polvere della terra, corri veloce fin sulla cima del monte, volgi lo sguardo verso oriente e contempla i tuoi figli che stanno tornando. Li hai visti allontanarsi a piedi, umiliati e percossi dai nemici, ora tornano in trionfo; sono accompagnati dai loro antichi aguzzini che ora tributano loro onori (vv.5-6).

E’ il miracolo operato dal Signore. Dio ha deciso di rendere piano ogni monte e di colmare ogni valle in modo che gli Israeliti possano ritornare dalla loro madre, senza fatica. Anche gli alberi che producono resine odorose piegano i loro rami per fare ombra e proteggere dai raggi del sole il gruppo dei deportati che ritorna. Dio stesso li guida, come ha accompagnato i loro padri quando uscivano dall’Egitto.

La lettura è un invito alla gioia e alla speranza perché il Signore “ha stabilito di spianare ogni alta montagna e le rupi secolari, di colmare le valli e spianare la terra” (v.7). Ha stabilito, ha preso una decisione irrevocabile. Non si darà pace finché non avrà smosso tutte le montagne, sgretolato tutte le rupi, visitato tutti gli abissi.

Seconda Lettura (Fil 1,4-6.8-11)

Fratelli, 4 prego sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera, 5 a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del vangelo dal primo giorno fino al presente, 6 e sono persuaso che colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù.
8 Dio mi è testimonio del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. 9 E perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, 10 perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, 11 ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.

Quando ci troviamo in qualche difficoltà noi ci rivolgiamo a Dio e lo supplichiamo di concederci ciò di cui abbiamo bisogno.

Gli Israeliti non pregano così; essi iniziano sempre le loro invocazioni con una “benedizione” nella quale elencano le ragioni per cui devono dare lode e ringraziare il Signore; solo dopo presentano a lui anche le loro richieste. Dicono, per esempio: “Benedetto sei tu Signore che t’impietosisci di fronte al dolore dell’uomo… Ora io sto soffrendo…”.

Il brano della lettera ai Filippesi riportato nella nostra lettura è l’esempio di una di queste preghiere giudaiche composte di due parti.

Nella prima (vv.4-6) Paolo rende grazie a Dio. Lo “benedice” per ciò che ha realizzato nella comunità di Filippi, la prima comunità cristiana d’Europa. Essa – dice – è molto generosa, ha aiutato anche economicamente gli annunciatori del Vangelo, conduce una vita integra e colma di soddisfazione e di gioia il suo cuore di apostolo.

Prima di rivolgere a Dio la supplica, non può fare a meno di esprimere la propria commozione interiore di fronte ad un’elargizione di grazia tanto abbondante. Egli dichiara il proprio affetto a coloro che gli sono tanto cari “nell’amore di Cristo Gesù” (v.8).

Nella seconda parte (vv.9-11) chiede a Dio di far crescere sempre più fra i Filippesi l’amore e la comprensione di ciò che è realmente buono e conforme al Vangelo.

Forse la nostra comunità sente di non meritare gli elogi che Paolo rivolge a quella dei Filippesi, tuttavia dobbiamo coltivare la fiducia e l’ottimismo. “Colui che ha iniziato in noi quest’opera buona, la porterà certamente a compimento” (v.5), come ha fatto a Filippi. E’ opera sua, non nostra. A noi chiede soltanto di lasciarlo agire, di lasciarci condurre dalla sua Parola.

Vangelo (Lc 3,1-6)

1 Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, 2 sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. 3 Ed egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, 4 com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia:
“Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri!
5 Ogni burrone sia riempito,
ogni monte e ogni colle sia abbassato;
i passi tortuosi siano diritti;
i luoghi impervi spianati.
6 Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”.

Il riferimento cronologico con cui Luca inizia il suo racconto (vv.1-2) è preciso e importante perché permette di datare l’inizio della vita pubblica di Gesù. In Palestina l’anno comincia il 1° ottobre e allora l’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio si situa tra il 1° ottobre del 27 e il 30 settembre del 28 d.C., data che si accorda perfettamente con Gv 2,20.

Luca vuole che sia chiaro a tutti che non sta iniziando a raccontare una favola, un mito esoterico nato dalla fantasia e dall’immaginazione stravagante di un sognatore. Egli intende riferirsi a fatti concreti. L’intervento di Dio nella storia dell’umanità è avvenuto in un momento ed in un luogo ben definiti. Tuttavia, se obiettivo dell’evangelista fosse solo quello di indicare la data d’inizio della vita pubblica di Gesù, egli potrebbe fermarsi dopo questa prima indicazione. Invece prosegue e ne aggiunge altre: segnala i nomi dei governatori della Palestina e dei territori vicini e quelli dei sommi sacerdoti Anna e Caifa. In tutto 7 personaggi e per arrivare a questa cifra deve inserire anche Anna che sommo sacerdote non è più, da tredici anni, anche se continua a svolgere un ruolo importante.

Il numero 7 ha chiaramente un significato simbolico: quello della totalità. Insieme ai nomi e alle funzioni delle persone menzionate, indica che tutta la storia – sacra e profana, giudaica e pagana – è coinvolta nell’avvenimento che sta per essere raccontato. E’ un inizio che riguarda tutti i popoli e tutte le istituzioni civili e religiose.

Dopo l’introduzione storica, ecco entrare solennemente in scena il primo personaggio, il Battista: “La parola di Dio scese su Giovanni figlio di Zaccaria, nel deserto” (v.2). Sono le parole con cui nell’AT viene presentata la vocazione dei grandi profeti (Ger 1,1.4).

Tutto inizia nel deserto (v.2), un luogo carico di ricordi e di profonde risonanze emotive per gli Israeliti. Nel deserto essi hanno appreso molte lezioni: hanno imparato a staccarsi da tutto ciò che è superfluo perché costituisce un peso inutile da portare lungo il cammino, hanno imparato ad essere solidali e a condividere i loro beni con i fratelli, hanno imparato, soprattutto, a fidarsi di Dio.

Al tempo di Gesù, è nel deserto che si ritirano coloro che vogliono ripetere l’esperienza spirituale dei loro padri, coloro che vogliono sfuggire all’ipocrisia di una religione fatta di formalismi e di pratiche puramente esteriori. E’ nel deserto che vanno a vivere coloro che rifiutano la società corrotta, ingiusta ed oppressiva che si è installata nella loro terra. Fra queste persone “contestatrici” c’è anche Giovanni, figlio di Zaccaria (Lc 1,80).

Luca non dice nulla del suo modo di vestire, non parla del suo cibo, ma, da quanto ci riferisce Matteo (3,4), sappiamo che il Battista non usava la lunga tunica bianca dei sacerdoti del tempio, indossava un abito ruvido, come faceva il profeta Elia (2 Re 2,13-14); non mangiava i prodotti della città, si alimentava di ciò che il deserto spontaneamente offriva. Il Battista voleva essere e apparire straniero nella sua stessa terra; era un israelita, ma il suo comportamento lo distingueva nettamente dalle persone del suo popolo.

Come Giovanni, anche i cristiani, pur stando nel mondo, vivono la spiritualità del deserto. In un mondo in cui si considera normale il ricorso alla violenza, alla ritorsione e anche alla guerra essi pronunciano solo parole di pace e di perdono; in un mondo in cui si proclamano beati coloro che accumulano beni anche sfruttando i più deboli essi annunciano il servizio gratuito al povero e la condivisione; in un mondo in cui si ricerca il piacere a tutti i costi predicano la rinuncia e il dono di sé.

Dal deserto, luogo della sua vocazione, Giovanni si sposta verso la regione del Giordano, la percorre in lungo e in largo annunciando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. La sua predicazione – è bene anticiparlo subito per non equivocare certe sue espressioni – era un messaggio di gioia e di consolazione per tutti, come Luca ci terrà a sottolineare qualche versetto più avanti (Lc 3,18).

Nell’antichità il fiume Giordano – che attraversa una regione desolata – non ebbe mai alcuna importanza né come via di comunicazione (non è navigabile) né per l’irrigazione. Nessuna grande città è mai sorta lungo le sue sponde. La sua importanza è sempre stata quella di costituire un confine fra diversi popoli. Per prendere possesso della terra promessa, Israele, che veniva dall’Egitto, ha dovuto attraversarlo (Gs 3).

E’ questo territorio di confine che viene scelto dal Battista per la sua missione. Nel rito del battesimo che amministra egli vuole che ognuno ripeta il gesto di entrare, attraversando il Giordano, nella terra della libertà. Vuole preparare un popolo disposto ad accogliere la salvezza di Dio, pronto ad entrare nella vera Terra Promessa. Per questo chiede a tutti di prendere la decisione risoluta di cambiare radicalmente modo di pensare e di vivere.

Per chiarire meglio il compito che Giovanni è chiamato a svolgere, Luca cita una frase del profeta Isaia: “Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (v.4).

Non si può non notare una contraddizione con quanto abbiamo ascoltato nella prima lettura. Là Baruc affermava: “Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna, di colmare le valli e spianare la terra, perché Israele proceda sicuro” (Bar 5,7). Il suo era un canto fiducioso alla salvezza che Dio certamente avrebbe portato a compimento.

Nel libro degli oracoli del profeta Isaia invece si chiede agli Israeliti di preparare essi stessi la via del Signore. Il profeta rivolge loro l’invito ad impegnarsi per abbassare ogni colle e spianare i luoghi impervi. La salvezza viene da Dio ed è solo opera sua, ma può essere ottenuta solo da chi toglie gli ostacoli che si frappongono alla sua venuta.

I due profeti non si contraddicono, ma si completano. Il primo sottolinea l’opera irresistibile dell’amore di Dio. Egli – dice – riuscirà comunque, con il suo amore fedele, a ricondurre il suo popolo dalla terra di schiavitù alla libertà (Bar 5,7-9). E’ come un uomo follemente innamorato: nessun ostacolo è per lui insormontabile lungo il cammino che lo porta all’incontro con la donna amata. Non c’è monte elevato, non c’è valle profonda e oscura che possano impedirgli di realizzare il suo sogno di amore.

Il secondo profeta mette in risalto invece l’opera dell’uomo. E’ vero che il successo dell’amore di Dio è comunque assicurato, ma l’uomo può perdere tanti istanti, tanti giorni, tanti anni di felicità e di gioia lontano dal suo Signore. Per questo è urgente che egli apra il proprio cuore, che tolga presto tutti gli ostacoli che si frappongono all’incontro con lui.

A differenza degli altri evangelisti che si limitano a citare un versetto di Isaia, Luca continua la citazione: “…Ogni burrone sia riempito, ogni colle sia abbassato. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio” (vv.5-6). Se egli aggiunge anche questi versetti significa che gli stanno particolarmente a cuore. Vediamo di coglierne la ragione.

I burroni da riempire, i monti da appianare, i colli da abbassare, i passi tortuosi da rendere diritti e i luoghi impervi da spianare vanno senza dubbio intesi non in senso materiale, ma come simboli di un’altra realtà.

I monti e i colli rappresentano, nel linguaggio biblico, la superbia, l’alterigia, l’arroganza di chi vuole imporsi, dominare sugli altri (Cfr. Is 2,11-17). Il regno di Dio è incompatibile con questi atteggiamenti altezzosi e tracotanti, non può giungere là dove regna lo spirito competitivo, dove si cerca in tutti i modi di sopraffare gli altri, dove si accettano le caste, dove si pretendono inchini, prostrazioni, ossequi, riverenze. Nel mondo nuovo entra solo chi accoglie la logica opposta: il dono di sé, l’umile servizio reciproco, la ricerca dell’ultimo posto. “Chi è più grande deve diventare come il più piccolo e chi governa come colui che serve” (Lc 22,26).

Poi ci sono gli abissi da riempire. Sono le scandalose diseguaglianze economiche denunciate dai profeti.

I passi tortuosi infine sono le astuzie, le scelte insensate, le situazioni ingiuste che devono essere riviste e rese conformi alle vie di Dio. “Voi dite: non è retto il modo di agire del Signore. Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?” (Ez 18,23).

La conversione che il Battista richiede è radicale. Come sperare che l’uomo la possa attuare?

Nella traduzione italiana i verbi compaiono in forma iussiva (“sia riempito”, “sia abbassato”, “siano diritti”), come se si trattasse di un’ingiunzione.

Se è questo il senso delle parole del profeta è l’uomo che, mediante i propri sforzi e il proprio impegno, deve realizzare l’immane impresa. Così abbiamo solide ragioni per ritenere che non verrà mai portata a compimento.

In realtà, nel testo originale greco, i verbi sono al futuro passivo: “Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e colle sarà abbassato, e saranno le cose storte diritte…”.

Così – ammettiamolo con gioia! – il discorso cambia. Non si tratta di ordini impartiti da Dio, ma di una promessa che egli fa: il mondo basato su principi nuovi sorgerà, anche se agli uomini può sembrare un miraggio, e sarà opera mia.

L’ultima parte della citazione è particolarmente importante: Ogni carne vedrà la salvezza di Dio! (v.6).

Non “ogni uomo”, ma “ogni carne” – dice il testo originale. Carne, in senso biblico, non sono i muscoli, ma tutto l’uomo considerato nel suo aspetto di essere debole, fragile, esposto a tanti fallimenti. L’uomo è carne perché si ammala, commette errori, soffre solitudine e abbandono, invecchia e muore. Ecco ora la promessa: in ogni debolezza dell’uomo si manifesterà la salvezza di Dio; non vi sarà abisso di colpa tanto oscuro e profondo che non venga visitato e illuminato dal suo amore.

Luca colloca questa affermazione all’inizio del suo Vangelo, la sceglie quasi come titolo della sua opera perché contiene una solenne dichiarazione: Dio non riserva la sua salvezza ad alcune persone privilegiate, ma vuole che sia offerta a tutti. Nessuno sarà escluso.

È un’eco della profezia di Simeone: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti” (Lc 2,30-32).


AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: per gentile concessione di Settimana News