Nico Guerini – Commento al Vangelo di domenica 1 Novembre 2020

Una santità che fluisce nel quotidiano

A volte capita che un dettaglio apparentemente poco importante suggerisca il piano di un’intera omelia. Quando pensiamo ai santi, è istintivo vederli come figure eroiche ed eccezionali, con la conseguenza che si tratti di figure rare e inusuali. Niente di strano. Del resto, si sa che nel processo istruito per la canonizzazione, con cui si iscrive una persona in una lista ufficiale, un “canone”, appunto, nella quale essa viene presentata come un modello di vita cristiana, una delle fasi conclude con la dichiarazione della “eroicità” con cui la persona ha esercitato le virtù, il che le vale il titolo di “venerabile”.

Ora, l’equazione santo, dunque raro, mi pare messa radicalmente in crisi da quanto troviamo oggi nella prima lettura (Ap 7,2-4.9-14), dove si dice che il sigillo impresso sulla fronte dei servi del nostro Dio produce un numero che equivale a «centoquarantaquattromila segnati provenienti da ogni tribù dei figli di Israele». Nonostante questa cifra enorme, si afferma che a questa folla va aggiunta «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua», il che permette di allargare l’orizzonte di questo popolo a dimensioni sbalorditive.

La conseguenza è che, se vogliamo salvare le proporzioni, dobbiamo pensare che esista un numero incredibile di “santi” oltre quelli che sono conosciuti e ammirati per aver operato miracoli non solo dopo la morte, ma anche in vita, santi per niente vistosi, che però contano, anche solo per dirci che, in un mondo spesso segnato da mali e disastri, da guerre orribili e da sconvolgimenti della natura, rimane una luce di bene che ci conforta e ci incoraggia. E di questo abbiamo bisogno, proprio perché, mentre il male è molto visibile, il bene è più sommerso e nascosto.

Una santità “normale”

Peraltro, proprio il libro dell’Apocalisse, noto per gli scenari di sventure cosmiche, fu scritto come libro di consolazione per cristiani perseguitati, per incoraggiarli a tener duro nelle varie tribolazioni che li affliggevano. In effetti, a chi vuole sapere chi siano e da dove vengono queste folle che stanno nella gloria del cielo, viene risposto: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

Scrivo quando è ancora fresca la memoria di tre figure che sono in certo senso la riprova della verità di quanto sto dicendo. Sono il giovane Willy Monteiro Duarte, ucciso con violenza brutale per aver cercato di difendere un suo amico da un’aggressione; don Roberto Malgesini, ucciso da uno che aveva beneficato: due figure del tutto sconosciute prima dell’incidente, e, infine, l’adolescente Carlo Acutis, morto a causa di una leucemia fulminante e da poco beatificato, del quale in tutti gli scritti che ne parlano si ripete costantemente che era un ragazzo “normale”. Di tutti loro si è scoperto dopo la morte quanto fosse virtuosa la loro vita, e quanto fosse evangelico l’ideale per il quale hanno vissuto.

Ma basterebbe anche solo ricordare il grandioso slancio di generosità che la reazione alla pandemia ha come scatenato in tanti operatori sanitari, preti e altri volontari prima sconosciuti: ancora una volta è la tribolazione che rivela i “santi anonimi”!

A proposito, mi torna alla memoria sant’Alfonso Rodriguez (1533-1617), un fratello laico gesuita, di cui si fa memoria il 30 ottobre. Esercitò per 40 anni l’ufficio di portinaio nel convento di Maiorca, dove si sa che molti lo accostavano per avere consiglio e conforto: tutto qui.

In occasione della canonizzazione nel 1888, i gesuiti inglesi chiesero al confratello G.M. Hopkins (1844-1889), professore di greco e latino nella neonata Università Cattolica di Dublino, noto anche come poeta, di scrivere un sonetto per celebrare la circostanza.

Il compito non era facile. Hopkins era colpito da figure eroiche e gloriose: cosa poteva dire per un confratello portinaio, anche se santo? Eppure se la cavò bene, anzi, il sonetto traduce in lui una sorta di conversione che lo portò a celebrare un tipo di santità che pare gli fosse ignoto. Dopo essere partito dalla constatazione che «l’onore lampeggia da un’impresa», e che per la vittoria di un «guerriero» occorrono «squilli di trombe», arriva nelle due terzine finali a ribaltare questa sua visione delle cose: «E però Dio (che scolpisce montagne e continenti, / la terra, e tutto; lui che goccia a goccia incrementa / venature di viole ed alti alberi fa sempre più alti) // poté affollar di conquiste una carriera nel fluire / di anni e anni di un mondo senza eventi / mentre a Maiorca Alfonso custodiva la porta».

Hopkins capisce questa nuova visione delle cose guardando Dio come modello supremo di santità, riassunto in alcuni estremi opposti e complementari che ne dipingono il volto: la creazione di montagne e continenti, da una parte, e la cura delle piccole viole e degli alberi maestosi dall’altra, un Dio scultore accostato a un Dio ortolano, un Dio-Michelangelo in contrappunto con un Dio-Beato Angelico.

Il punto chiave è detto nella stessa prima lettura, in uno dei grandi cori che costellano l’Apocalisse, che i santi salvati gridano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». Colui che siede in gloria è colui che è stato ucciso, e questa è una grandiosa promessa per tutti quelli che «vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

Si ascolti in proposito la musica grandiosa con cui Handel conclude il Messia, Worthy is the Lamb, su un altro coro dell’Apocalisse: «Degno è l’Agnello che è stato immolato di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione. A colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli» (Ap 5,12-13). La forza con cui vengono scolpiti e martellati i sette sostativi che esaltano l’Agnello ha un tale contagio che si è costretti a dire: «È vero, è proprio così».

Ammirare e imitare

Riconoscere i moltissimi santi nascosti per vivere alla loro ombra è ovviamente questione di sguardi. Quanto ciò sia importante è ripetuto nel verbo che apre la seconda Lettura (1Gv 3,1-3): «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!».

Si ascolti la Cantata 64 di J.S. Bach, dove la frase iniziale, Sehet, welch eine Liebe (vedete quale amore) è ripetuta più volte dal coro che rimarca con insistenza proprio il verbo Sehet (vedete).

È difficile diventare santi se non si sta costantemente nella contemplazione di questa verità, che genera e sostiene la nostra speranza, mediante la quale ci purifichiamo dall’effetto desolante e paralizzante che produce la visione quotidiana di un mondo nel quale molte cose non funzionano.

I santi, prima di essere cercati perché ci facciano delle grazie, cosa peraltro del tutto legittima, visto che sono descritti come nostri «amici» che intercedono per noi (Prefazio), vanno pure ammirati per essere poi imitati, dato che la stessa orazione ricorda che essi sono pure «modelli di vita»!

Fin dall’adolescenza sono stato un ghiotto lettore di vite di santi, noti e meno noti, ufficialmente canonizzati e no: mi chiedo quanti siano ancora oggi coloro che si nutrono di tale letteratura.

Beatitudini: otto strade di santità

Il brano di vangelo (Mt 5,1-12a) elenca le otto Beatitudini, cioè quelle situazioni e disposizioni interiori che, anche se a prima vista appaiono in controtendenza con il modo di ragionare usuale, o “mondano”, sono la scelta giusta, e dunque quella che produce la gioia vera.

La prima, quella che riguarda i «poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli», sta in testa alla lista perché le contiene e le riassume tutte.

Si possono rileggere velocemente le Beatitudini contrapponendole a ciò che in non pochi è la via del successo: il senso e il valore del pianto contro la baldoria stolta e superficiale, la mitezza che guadagna molto più della strafottenza, la fame e sete di giustizia contro l’ingordigia e l’avidità, la misericordia che vince l’istinto di vendetta, la semplicità e purezza di cuore contro l’astuzia e l’inganno, l’opera di pace contro ogni forma di guerra, e alla fine, per quanto strano possa sembrare, la “persecuzione”, anche quella meno vistosa che risulta spesso anche solo dal fatto che, se si seguono le strade indicate da Gesù, si viene considerati ingenui e “fuori dal mondo”.

Si noti che solo alla prima e all’ultima è garantita la ricompensa nel presente, mentre per le altre si usa il verbo al futuro. Il presente indica la sicurezza di ottenere quanto promesso, il futuro serve a tenere sveglia l’attesa, anche perché la beatitudine promessa si può pure sperimentare, anche se in modo parziale e occasionale, anche in questa vita, e questo perché «fin d’ora siam figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato» (Seconda Lettura). Per cui, alla fine si può dire che la tribolazione si risolve nella pazienza con cui sopportiamo le avversità e portiamo il peso di situazioni non di rado faticose e ingrate: è questa la santità che irradia nel fluire silente del quotidiano.

Su questo, vale la pena ricordare che Matteo, mentre apre l’insegnamento di Gesù con la pagina delle Beatitudini, lo conclude con la visione del Giudizio, che sarà fatto in base alle opere di misericordia (Mt 25,31-46), incluse quelle che abbiamo compiuto senza rendercene conto!

Torna opportuna una citazione significativa dell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, al n. 7: «Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”».

I santi ci sono necessari, la loro presenza nella nostra vita è cruciale. Perché i santi sono la prova concreta che il vangelo è bello, il vangelo è vero, il vangelo è praticabile. Come è stato detto da qualcuno: «Il vangelo è una splendida partitura, ma la musica la fanno i santi!».

FonteSettimana News

Commento a cura di Nico Guerini


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