Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 6 Marzo 2022

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Sì, sì. No, no

Nell’annata liturgica C la prima domenica di Quaresima presenta il racconto delle tentazioni nella redazione lucana (Lc 4,1-13). La disposizione lucana delle tre tentazioni, diversa da quella di Matteo (4,1-11), vede la successione deserto – salita in alto – Gerusalemme, e questo è esattamente il percorso compiuto da Gesù nel terzo vangelo. Ovvero, Luca vuol significare che la realtà della tentazione ha accompagnato Gesù per tutta la sua vita, durante tutto il suo ministero iniziato nel deserto e proseguito salendo verso Gerusalemme, dove si è compiuto. Questo racconto mostra in azione la fede di Gesù e la fede appare come lotta e scelta, combattimento e decisione, luogo di libertà e di obbedienza al tempo stesso. Gesù, in questa pagina può davvero apparire come il prototipo del monaco di cui si dirà che è “colui che possiede la libertà e le Scritture”.

La Scrittura, anzitutto, a cui Gesù obbedisce, che ascolta e legge fino a farla divenire parola sua, suo eloquio, sua parola vivente, orale, nel dialogo con il tentatore; quindi, la libertà, che appare in questa pagina come capacità di dire di no, di resistere, di restare ancorato a un sì e di negare e, ovviamente anche, di negarsi, possibilità altre. La tentazione è un possibile praticabile che si affaccia al nostro cuore. La fede di Gesù è tutta nel pronunciato verso Dio, il Padre e nel no opposto al tentatore. In Lc 10,21, la professione di fede di Gesù è nient’altro che un atto di amore che sigilla una vita: “Sì, o Padre”; amare è dire di sì incondizionatamente a una persona. Da quel sì di Gesù discendono anche i no. La vita di fede di Gesù è infatti anche e contemporaneamente nel no opposto al tentatore, al diabolos, come lo chiama Luca, il “divisore”. Ma ciò che colpisce è che il no che Gesù dice è sempre un sì a Dio, è cioè interno al sì che motiva e fonda il suo vivere: nel testo evangelico odierno Gesù per tre volte cita la Scrittura, ripetendo il suo sì a Dio, e questo diviene il no al diavolo. Mi pare si possa dire che la reazione di Gesù esemplifica e mette in atto ciò che Gesù stesso esprime ai destinatari del discorso sulla montagna: “Il vostro parlare sia: ‘Sì, sì’, ‘No, no’, il di più viene dal Maligno” (Mt 5,37). Gesù denuncia un superfluo diabolico. La tentazione è questo “di più” che il diavolo gli prospetta. Il parlare di Gesù è un “no” netto a Satana e un “sì” ancor più radicale a Dio.

Ecco dunque come la fede diventa parola e scelta, diviene capacità di dire di sì e di no e dunque di scegliere, di prendere decisioni. Davvero, al cuore delle tentazioni, come ha ben compreso Dostoevskji nella Leggenda del Grande Inquisitore, vi è il problema della libertà. Vi è il rifiuto da parte di Gesù delle tre tentazioni del miracolo, dell’autorità e del mistero, tre tentazioni o forse i tre elementi costitutivi di ogni tentazione. Questi tre elementi – il miracolo, l’autorità e il mistero – possono essere facilmente usati per manipolare il consenso di una persona, per ergersi a padroni della sua coscienza, divenendo così, secondo le ciniche considerazioni del grande Inquisitore, i veri benefattori di quell’umanità che “non cerca Dio, ma miracoli” e che si vedrebbe così liberata “dal grave fastidio e dal terribile tormento di dovere personalmente e liberamente decidere”. Dice il grande Inquisitore: “tu non volesti privar l’uomo della libertà e respingesti l’invito a mutare le pietre in pane, perché, così ragionasti, quale libertà può mai esserci, se l’ubbidienza è comprata con pani?”. E legando le tentazioni nel deserto alle tentazioni sulla croce quando a Gesù fu prospettato: scendi dalla croce e noi crederemo, dice ancora l’Inquisitore: “Tu non volesti asservire l’uomo con miracolo e avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio”. Sì, la tentazione è la via alla libertà.

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Luca annota che Gesù, dopo un lungo digiuno di quaranta giorni, ha fame (Lc 4,1-2). Di fronte al bisogno, il pane è necessario, se il necessario è ciò che consente all’uomo di vivere. E la Scrittura è talmente cosciente di questo che arriva a comprendere e giustificare il furto a causa della fame: “non si disapprova un ladro, se ruba per soddisfare l’appetito della fame” (Pr 6,30). Qui, il diavolo non prospetta un furto a Gesù, ma qualcosa di più sottile: usare il proprio potere per saziare il proprio bisogno mutando le pietre in pane (Lc 4,3). Anzi, Luca parla di “pietra” (e anche di “pane”) al singolare, a differenza di Matteo, e questo forse per sottolineare il bisogno di Gesù solo e che il gesto prodigioso avrebbe avuto come fine la sua persona e nessun altro.

I “miracoli” di Gesù, o meglio, i suoi “gesti di potenza”, i “segni” che egli compie, hanno sempre una struttura dialogica e non sono mai a servizio di chi li compie, ma sono sempre concepiti in ambito relazionale. Un gesto di potenza volto alla propria sopravvivenza sarebbe blasfemo. E in effetti, anche in presenza della fame, Gesù non sovverte la creazione per soddisfare il proprio bisogno: egli non assolutizza il proprio bisogno, non ne cerca una soddisfazione im-mediata e non cede alla tentazione del miracolo. Il miracolo, qui, è qualcosa che viene dal Maligno e a cui Gesù si oppone. Così egli dimostra che il necessario è ciò che consente all’uomo di vivere umanamente davanti a Dio. Cioè, senza tradire la propria umanità e il volto di Dio. In realtà, la tentazione tendeva a dichiarare superfluo l’umano, a farne a meno, a evitarlo, a considerarlo obsoleto e irrilevante. E a rendere inutile Dio facendo assurgere a dio il proprio bisogno.

Di fronte poi alla vertigine dell’altezza a cui lo conduce il diavolo (in Luca non si parla di un monte, come in Matteo, ma solo dell’azione con cui il diavolo lo “conduce su, in alto”), alla visione di “tutti i regni della terra abitata in un attimo di tempo” (Lc 4,5) e alla promessa di dargli “tutto questo potere e la loro gloria” (Lc 4,6), Gesù non si sottrae ai limiti di spazio e tempo costitutivi dell’umanità. Luca usa qui un apax neotestamentario, stigmé, che indica una frazione infinitesimale di tempo, e in questo modo ci dà l’immagine della tentazione come miraggio, come abbaglio, come allucinazione. Gesù non legge quella capacità di vedere il mondo intero e la sua gloria in un istante come esperienza spirituale particolarissima, come dono di Dio, come azione della grazia, ma, invece come visione distorta, come visione irreale della realtà, come allucinazione. Perché è sempre la concreta realtà la misura dell’autenticità dell’esperienza spirituale. Gesù non si lascia affascinare dalla prospettiva di una riuscita di sé nella via della gloria e del potere.

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Gesù non cede alla tentazione del potere, non si lascia trascinare dal delirio dell’onnipotenza, dal fascino perverso del “tutto”. Gesù non si fa dio, non ambisce il tutto, ma custodisce il senso del limite, dell’unicità di Dio e della distanza rispetto a Lui: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto” (Mt 4,10). Primo Levi ha scritto che l’abbaglio del potere e del prestigio porta noi umani a “dimenticare la nostra fragilità essenziale”. Gesù non dimentica la propria fragilità. Ma ciò che mi sembra ancor più “diabolico” in questa tentazione è che essa tende a rendere commerciabile Dio. Il diavolo dice che anche Dio può essere comprato: anche Dio ha un prezzo. Il diavolo propone un do ut des, vantaggiosissimo per Gesù: che sarà mai un gesto di adorazione che può presto essere dimenticato in cambio di potenza e ricchezza, forza e gloria che resteranno e che scongiurano la morte? In realtà qui abbiamo l’attentato più radicale all’immagine di Dio, alla fede e alla vita spirituale: l’immissione sul mercato. Gesù rifiuta la corruzione che consiste nell’accordare un prezzo alla fede, nel renderla merce di scambio.

A Gerusalemme infine (Lc 4,9-12) Gesù rifiuta di fare del tempio lo sgabello della sua affermazione personale, rigetta la tentazione del prodigioso, dello spettacolare, dello stra-ordinario e non si sottrae al limite del proprio corpo, non impone la propria messianicità alla gente con l’evidenza di una eccezionale ostentazione di forza prodigiosa: gettarsi dal tempio ed essere salvato dagli angeli. Gesù non abusa, non violenta le coscienze, ma le consegna alla loro libertà. Anche in questo caso la proposta del diavolo tendeva a svilire l’umano, a ingannarlo, a illuderlo con il miraggio dell’immortalità, dell’infrangibilità. E a scalzare Dio dal suo posto di Signore per renderlo servo dell’ego della persona umana. Anche lo straordinario viene rifiutato da Gesù come superfluo, cioè, diabolico, capace di stravolgere il volto dell’uomo e il volto di Dio.

La tentazione è dunque esorcizzazione della fragilità, della debolezza e della mortalità della condizione umana. Possedere beni e gloria, controllare le coscienze e spadroneggiare su di esse, avere un rapporto di dominio e controllo sulle cose e sulla realtà: tutto questo viene fatto emergere da Gesù come illusione. La tentazione è un abbaglio che acceca. Potremmo dire che l’umiltà, nel senso etimologico di adesione all’humus, alla terrestrità della condizione umana, è la prima forma di custodia della verità dell’umano e di fuga dalla promessa menzognera di vita insita nel potere, mondano o religioso che sia.4


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose