Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 24 Ottobre 2021

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Un cieco che sa ascoltare

Nel cammino verso Gerusalemme, Gesù giunge a Gerico. E mentre riparte, insieme anche ai discepoli e a una folla numerosa, Marco fa entrare in scena un cieco che mendicava ai lati della strada. Di lui si ricorda il nome: Bartimeo, che significa “figlio di Timeo”. Significa forse figlio dell’impuro (se si ritiene che si tratti di un termine aramaico)? O figlio di Onorato (se si ritiene che il nome sia di origine greca: si pensi al dialogo platonico Timeo)? In questo secondo caso si tratterebbe di un patronimico pesante da portare e che stride clamorosamente con la condizione di mendicità di quest’uomo.

L’azione che porta all’incontro tra Bartimeo e Gesù nasce da un’annotazione che potrebbe apparire periferica: “Sentendo che era Gesù Nazareno, (Bartimeo) cominciò a gridare …” (Mc 10,47). Se questa è la premessa che rende possibile l’incontro, questo si conclude con il riferimento alla fede di Bartimeo. Dietro a quel “sentendo” (akoúsas) dobbiamo pertanto intravedere la struttura narrativa della fede. Le narrazioni evangeliche presentano l’insorgere della fede in Gesù in persone che entrano in contatto con lui a partire da una voce carpita, da un sentito dire, da una chiacchiera. Vediamo esemplificato nella vicenda di Bartimeo ciò che i vangeli narrano di altre persone: una donna emorroissa tocca il lembo del mantello di Gesù “avendo udito parlare di lui” (Mc 5,27); una prostituta entra nella casa di Simone il fariseo e si avvicina a Gesù con gesti di affetto “avendo saputo che Gesù si trovava in casa di Simone” (Lc 7,37).

E di entrambe Gesù sottolineerà la dimensione di fede (Mc 5,34; Lc 7,50). Sempre emerge la dimensione relazionale della fede che è anzitutto fiducia, l’umanissima fiducia nella persona di Gesù che conduce la persona a gesti e parole coraggiose di apertura e affidamento: il cieco Bartimeo grida e balza verso Gesù nella convinzione di poter trovare guarigione (Mc 10,47-50). La fiducia porta a vincere gli ostacoli dall’opposizione e dai rimproveri della folla che lo volevano zittire (Mc 10,48). E Gesù svela la fiducia che ha mosso Bartimeo e che gli consente di rendere operante la potenza di Dio che lo abita: “La tua fede ti ha salvato” (Mc 10,52).

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La fede in Gesù sorge in un contesto vitale differente per ciascuno a dire che, se la fede è “comune” (Tt 1,4), essa si personalizza in storie differenti e sempre nuove: la storia di una lunga malattia nel caso dell’emorroissa, la vergogna di una donna che si prostituisce nel testo lucano, la penosa condizione di un cieco costretto a mendicare nel caso di Bartimeo. È negli anfratti dell’esistenza quotidiana, solamente accennati nei testi evangelici, che si radica la storia della fede di ciascuno e la sua struttura narrativa. Senza quelle voci che, nella condizione di angoscia e bisogno di queste persone si trasformano in trasmissione di una notizia potenzialmente salvifica, l’accesso alla fede in Gesù non sarebbe stato possibile.

Anche alla luce di quanto appena detto, appare evidente che il nostro testo evangelico, più che un racconto di miracolo, presenta un cammino esemplare di fede. Del resto, per Marco il cieco guarito è il tipo del discepolo, come è il tipo del catecumeno che, dopo essersi spogliato degli abiti (simbolicamente, dell’uomo vecchio: Mc 10,50), conosce l’immersione battesimale scendendo nel buio delle acque e riemergendo da esse alla luce che gli consente di vedere chiaramente per camminare nella vita nuova tracciata da Gesù Cristo (il battesimo era chiamato anticamente “illuminazione”: cf. Mc 10,52). Il cammino di fede nasce dall’ascolto (Mc 10,47), diviene invocazione e preghiera (Mc 10,47-48), discernimento e accoglienza di una chiamata (Mc 10,49), incontro personale con il Signore (Mc 10,50-52a), e infine, sequela di Cristo (Mc 10,52b). Questo cammino implica un dinamismo spirituale per cui l’uomo passa dalla stasi alla mobilità, dall’emarginazione alla comunione, dalla cecità alla fede. La salvezza poi, che consiste nella relazione con Gesù, viene esperita dal credente non tanto come stato a cui si perviene e in cui ci si installa, ma come cammino in cui si persevera. Al termine dell’episodio, Bartimeo è un discepolo che seguiva Gesù “lungo la strada” (Mc 10,52).

I discepoli e la folla che si situano tra Gesù e il cieco divengono simbolo della comunità cristiana che ha ricevuto dal Signore il mandato di farsi ministra della sua chiamata (Mc 10,49: “Chiamatelo!”), ma rappresentano anche la possibilità per la comunità cristiana di divenire ostacolo all’incontro degli uomini, in particolare dei più emarginati e demuniti, come Bartimeo. Molti infatti sgridavano il cieco per farlo tacere (Mc 10,48). E così rivelano di essere loro i ciechi: credono di vederci, di sapere chi è Gesù e come devono comportarsi coloro che lo seguono, credono di difendere Gesù zittendo il cieco che grida. Ma la sequela di Cristo e l’ascolto della parola del Signore sono autentici se non sono scissi dall’ascolto del grido di sofferenza dell’uomo.

Così, il sofferente, e in questo caso, il cieco, diviene il maestro che può aprire gli occhi a coloro che credono di vederci. Molte sono le situazioni di cecità dei discepoli. Vi è la cecità per desiderio di primeggiare (cf. Mc 10,35-40): cecità che produce una chiusura nel proprio progetto che diviene la lente che inficia la visione di tutto il resto e porta a scoprirsi anche in modo ridicolo davanti al resto della comunità, come appare dai dieci discepoli che si sdegnarono di fronte alle pretese sfacciatamente avanzate da Giacomo e Giovanni verso Gesù. L’ambizione rende ciechi. Inoltre vi è la cecità per non-ascolto della Parola e incomprensione di Gesù, per chiusura nell’ostinatezza delle proprie convinzioni e durezza di cuore (cf. Mc 8,14-21, dove c’è la discussione dei discepoli sui pani a cui Gesù reagisce dicendo: “Avete occhi e non vedete? Non capite? Non comprendete? Non vi ricordate?” e quell’episodio è seguito dal racconto di guarigione di un cieco: Mc 8,22-26). È la cecità di chi non sa ascoltare, vedere e comprendere da ciò che vede e ascolta in Gesù.

Vi è poi la cecità per troppo zelo: in Mc 9,38-40 lo zelo diviene intolleranza verso chi opera guarigioni pur non facendo parte del gruppo dei discepoli, mentre in Mc 10,13-16 la cecità si manifesta come intolleranza verso i bambini che si avvicinano a Gesù. Vi è la cecità per ristrettezza di orizzonti e meschinità di vedute così che si diviene scrupolosi osservanti dei dettagli della Legge dimenticando le cose davvero importanti e basilari (cf. Mt 23,23-24, dove scribi e farisei sono apostrofati come “guide cieche” che pagano la decima delle erbe più insignificanti acquistate al mercato e si dimenticano della realtà più gravi e importanti della legge come la misericordia e la giustizia). Vi è poi la cecità di chi non ama il fratello (cf. 1Gv 2,11). Per quanto metaforicamente intesa, la cecità produce effetti spesso disastrosi nella comunità cristiana. Essa è all’origine di molti mali comunitari, di tensioni, di conflitti, di giudizi reciproci. E quando non si vede più il proprio male, ma si proietta il male e la causa del male sempre e solo sugli altri, allora si esce dall’adesione alla realtà e dall’umiltà.

Insomma possiamo vedere sintetizzate nella cecità due atteggiamenti che oscillano tra la stupidità e l’acquiescenza inconsapevole. La stupidità è la fiducia irragionevole posta in se stessi: chi rimprovera il cieco perché taccia, chi rimprovera i bambini perché non disturbino il Maestro, chi critica la donna perché ha sprecato il prezioso olio di unzione, chi non sa discernere che le decime sono meno importanti della giustizia e della misericordia, è in situazione di stupidità. Che si manifesta come certezza indubitabile del proprio agire e parlare. Agire e parlare che è sempre contro un altro a nome di un terzo.

Contro il cieco in nome di Gesù, contro i bambini in nome di Gesù, contro la donna di Betania in nome dei poveri. Dove la radice della cecità stupida è nell’estraniamento della persona da sé, nell’inconsistenza di chi riesce ad agire solo a nome di altri. Al tempo stesso colpisce che coloro che hanno speso energie e zelo nel rimproverare Bartimeo, obbediscano poi immediatamente e senza fiatare quando Gesù li smentisce apertamente dicendo loro: “Chiamatelo”. Ecco allora che gli zelanti che stavano rimproverando, diventano i docili esecutori dell’ordine, e dicono al cieco: “Coraggio! Alzati, ti chiama”. Con sconcertante cambiamento di tono e di attitudine essi, come se niente fosse, si adeguano a ciò che Gesù dice ma come se questo fosse solo un ordine da eseguire e non un’indicazione per scoprire il buio interiore che li abita e che impedisce loro di vedere.

Quando poi Bartimeo si sente chiamato da Gesù, la disperazione che lo aveva spinto a gridare si muta in prontezza di risposta, in decisione nell’obbedire al Signore sbarazzandosi di tutto ciò che poteva intralciare l’incontro con lui. Al contrario dell’uomo ricco che non ha saputo liberarsi della zavorra della ricchezza (cf. Mc 10,21), il cieco getta via il mantello su cui erano le monete ricevute in elemosina e così mostra la sua disponibilità a seguire il Signore nel cammino del dono di sé. Esattamente come avverrà per Paolo, quando la chiamata del Signore lo renderà cosciente della sua cecità (cf. At 22,11-13) e lo condurrà a gettare via tutto ciò che prima costituiva per lui un guadagno per seguire Cristo in modo risoluto (cf. Fil 3,7-14).


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose