Luciano Manicardi, Commento al Vangelo di domenica 21 Giugno 2020

Il coraggio della parola libera

All’interno del discorso missionario contenuto nel capitolo decimo del vangelo secondo Matteo, il brano evangelico odierno si situa immediatamente dopo le parole sapienziali di Gesù che proclamano che un discepolo non è da più del suo maestro, anzi, è già tanto se un discepolo diventa come il suo maestro (Mt 10,24-25).

In particolare, introduce la nostra pagina evangelica l’avvertimento forte di Gesù: “Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia”. Ovvero, se il maestro è stato calunniato e osteggiato così avverrà anche al discepolo. Questo si devono aspettare i discepoli: un trattamento non certo migliore di quello riservato al loro Maestro e Signore. Qui si inserisce il ripetuto avvertimento a non avere paura (vv. 26.28.31) e, piuttosto, a temere il Signore (v. 28b). Il discepolo è colui che è stato istruito dal suo maestro, che ha ricevuto, anche nel nascondimento e nel segreto, insegnamenti e istruzioni: ma ora, ciò che il discepolo ha ascoltato nel piccolo gruppo deve essere annunciato in pubblico, apertamente. Dunque la prima conseguenza che deriva dall’essere il discepolo all’altezza del suo maestro, è che annunci il vangelo con franchezza, senza vergognarsene, senza ritrosie e timidezze, senza paura di chi gli si oppone e lo contrasta con intimidazioni e minacce (vv. 26-27).

I discepoli di Gesù, e con loro i seguaci di Gesù nella storia, sono qui invitati alla parresía. Ovvero al coraggio e alla libertà di parola, alla franchezza che non esita a dire tutte le esigenze del vangelo costi quel che costi. Anche se questo comportasse opposizioni, emarginazione, persecuzione, martirio. I profeti, sono spesso stati dei martiri della parola. Ora, che cos’è la parresía? Si tratta di una modalità di parola liberata dalla paura. È un discorso, una parola, che mantiene un rapporto vitale con la verità e che dalla parola trae vigore e nutrimento. È un discorso che intrattiene una determinata relazione con la propria vita attraverso il pericolo, il rischio della vita stessa. È un discorso che osa la critica e che non teme di scontentare o di ferire. La parresía sceglie il caro prezzo della libertà optando per la critica piuttosto che per l’adulazione o l’accomodamento, per il rischio di rimetterci in proprio e perfino di morire piuttosto che per le sicurezze e le comodità, per la verità piuttosto che per la menzogna e la falsità, per il rigore etico piuttosto che per il proprio interesse o per l’apatia morale. Questo viene richiesto al discepolo inviato in missione, sulle tracce del suo Signore e Maestro, affinché si avveri la sua parola: “Dove sono io, là sarà anche il mio servo” (Gv 12,26).

L’avvertimento ripetuto come un ritornello da Gesù in queste istruzioni ai suoi discepoli è quello a non temere, a non avere paura. Paura di coloro a cui viene annunciato il vangelo in contesti indifferenti o ostili, paura di coloro che possono perfino uccidere gli evangelizzatori. Si tratta di nemici esterni che, ancor prima di privare fisicamente della vita, hanno potere di influenzare in profondità il cuore e la psiche di una persona fino a privarla della libertà o a inibirla o limitarla o condurla ad autocensurarsi. Sono persone la cui sola presenza, le cui parole, i cui comportamenti, possono suscitare risonanze interiori destrutturanti e distruttive in altri che si trovano così a vivere una sorta di soggiogamento, di perdita di libertà, di annichilimento, di confusione, di dipendenza. Sì, sono tante le maniere in cui viene tolta la vita a una persona. A volte poi, il nemico è interiore, la paura abita già nel cuore umano e gli altri sono solo l’occasione del suo manifestarsi. La paura è un’emozione primordiale che ci avverte di qualcosa che sentiamo come minaccioso e pericoloso per noi e che ci induce a spostarci, nasconderci, fuggire. Ma nello spazio cristiano essa è chiamata a misurarsi con la forza dell’amore e con la responsabilità. Sicché gli altri, che possono essere motivo di paura e di soggiogamento, possono diventare fonte di coraggio, possono diventare, grazie all’amore evangelico, occasione di vittoria sulla paura. L’amore è coraggioso: per amore io posso intraprendere azioni o sopportare situazioni dure e difficili che mettono a rischio anche la mia vita. Ma tutto in vista di ciò che amo: lo sguardo coraggioso è vinto dall’oggetto amato più che dalla constatazione dei rischi. Ha scritto Agostino: “Il coraggio è un amore che sopporta facilmente ogni cosa in vista di ciò che ama” (I costumi della Chiesa cattolica I,15,25). Nel dialogo tra il pauroso per antonomasia, don Abbondio, e il Card. Federigo, il secondo rimprovera la pusillanimità del primo dicendogli: “L’amore è intrepido. Se per tant’anni di ufficio pastorale, avete amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre gioie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido”. Il coraggio si radica nell’amore e così può vincere la paura, può cioè superarla, far sì che non abbia l’ultima parola.

Le parole di Gesù costruiscono un percorso che conduce dall’esortazione a non avere paura all’invito alla fiducia, all’abbandono fiducioso. Vincere la paura dell’annuncio della parola evangelica (vv. 26-27), vincere la paura di chi può uccidere il corpo (v. 28), soprattutto osare la fiducia nel Dio che ha cura di noi (vv. 29-31). Il percorso disegna così un itinerario dalla paura alla fede, o meglio ancora, alla fiducia. La fiducia, la dimensione dell’abbandono confidente, “come un bambino in braccio a sua madre” (Sal 131,2) è sottolineata anche dall’immagine di un Dio che si preoccupa perfino dei passeri e che si interessa anche dei capelli di una persona. Quanto più, dunque, della vita dei suoi discepoli! Del resto, in bocca a Gesù, l’espressione “non temere” è più una promessa che un comando ed esprime già fiducia in colui a cui è rivolta. Essa significa: “tu puoi superare la paura contando sulla mia presenza, sulla mia promessa, sul mio aiuto”. Il cristiano, che fonda la sua fede sul Risorto che ha detto: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20) trova in questa relazione il fondamento del suo coraggio, che lo conduce al dono di sé per amore come difficile ma liberante risposta alla paura.

Sì, la fede è coraggiosa e ispira coraggio. Non incoscienza e non temerarietà. Il coraggio esprime la fede. Il capitolo undicesimo della lettera agli Ebrei ripercorre la storia della salvezza non dal punto di vista dell’intervento di Dio, ma della risposta dell’uomo, cioè della fede, e fa emergere la fede come coraggio: dei protagonisti della storia di salvezza si dice che “per fede, trassero forza dalla debolezza” (Eb 11,34). Il coraggio della fede consiste non nel negare la debolezza, ma nel riconoscerla e trasformarla assumendola. È la paura, invece, che, nella sua forma più vera e letale è paura della debolezza e tentativo di negare e rimuovere fragilità e vulnerabilità cercando sicurezza e protezione a ogni costo o perseguendo il controllo di tutto ciò che ad esso sfugge. Il vero nemico della fede “è la paura della fragilità, che non si vuole accettare, la paura dell’intimità che non si vuole condividere, la paura di dare fiducia senza sapere se ne varrà la pena” (Giovanni Cucci).

Le parole di Gesù che invitano i discepoli a “non temere” e che fondano tale invito sembrano voler tener vivo nei discepoli il ricordo della sua vicinanza, della sua cura, del suo amore per loro. Solo così essi potranno nutrire fiducia anche nelle tribolazioni e nelle inimicizie e vincere la paura con l’amore. Perché infatti, è così importante per il discepolo non aver paura di chi gli può nuocere? Non solo perché avendo paura si vive in dipendenza da coloro che ci vogliono fare del male e si accresce il loro potere su di noi, ma soprattutto perché, se si ha paura dell’altro, ci si impedisce di amarlo. L’inviato del Signore, temendo colui che lo perseguita, si sottrae alla testimonianza del Cristo che può cambiare l’odio dell’altro amandolo. Come annunciare la buona notizia del vangelo se ho paura dell’altro? Come predicare la conversione, se mi mostro paralizzato dalla paura? Come può una chiesa che si nutre di paura e di diffidenza nei confronti del mondo, annunciare al mondo la gioiosa notizia della salvezza?

Dietrich Bonhoeffer, commentando le parole di Gesù “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro (lett. “senza il Padre vostro”)” (Mt 10,29), ha scritto: “Certamente, non tutto quello che accade è semplicemente ‘volontà di Dio’. Ma alla fine comunque nulla accade ‘senza che Dio lo voglia’ (Mt 10,29); attraverso ogni evento cioè, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio”. Questa fiducia nella presenza di Dio anche nel non-divino, nell’enigmatico, nelle ostilità e nelle persecuzioni, nelle sofferenze sopportate per il vangelo, dice la sua paternità fedele nei nostri confronti e sconfigge la paura. Aiuta a non scoraggiarsi nelle inevitabili tribolazioni. E anche per questa via ci viene mostrata la dimensione di coraggio insita nella fede. La fede rende coraggiosi.

A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose


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