Luciano Manicardi, Commento al Vangelo di domenica 13 Dicembre 2020

Che dici di te stesso?

Il brano evangelico della terza domenica di Avvento – la domenica Gaudete, tradizionalmente posta sotto il segno della gioia per l’approssimarsi della memoria dell’evento dell’incarnazione –, in questa annata liturgica B è formato da uno stralcio del prologo del IV vangelo, 1,6-8, e dai vv. 19-28 sempre del primo capitolo, che danno inizio al racconto giovanneo. Ciò che unisce i due brani è il tema della testimonianza di Giovanni il Battista nei confronti di Gesù: il IV vangelo ama presentare Giovanni con la categoria della testimonianza. Dopo aver presentato il Verbo, la Parola che era presso Dio e che è vita e luce degli uomini, l’autore del IV vangelo sente il bisogno di parlare di Giovanni il Precursore, di colui che venne come lampada a preparare la strada alla Luce, a Cristo luce del mondo. Il IV vangelo ci mostra l’inestricabile rapporto tra il Messia e chi lo precede, tra la Luce e chi l’annuncia senza essere la luce, tra la Parola e la voce che non è il Logos, tra colui che dirà Io sono (Gv 4,26; 6,20.35.41.48.51; 8,12; ecc.) e colui che dice Io non sono (“Io non sono il Cristo”: Gv 1,20). Il rapporto tra Giovanni e Gesù può essere evocato con l’espressione: lucem demonstrat umbra, cioè: l’ombra è la prova della luce. Sono due dimensioni che non possono stare l’una senza l’altra, come non può stare l’ombra senza ciò di cui è ombra, ma sono in vitale relazione reciproca. Né si tratta di due dimensioni assolute, perché come è invivibile il buio pesto, così è altrettanto insopportabile la luce abbagliante. Giovanni dunque come ombra del Messia, cioè come colui che lo accenna, lo abbozza, lo prefigura.

Nei vv. 6-8 Giovanni è presentato come uomo mandato da Dio. Non si narra la vocazione, non si danno notazioni biografiche, non si accenna alla situazione storica: si dice solo che è stato inviato da Dio. Anche Giovanni avrà avuto un percorso, un cammino esistenziale, ma il IV vangelo non ne dice nulla, e si limita all’essenziale: era un uomo di Dio. Questo essere inviato da Dio lascia tuttavia spazio ad almeno tre cose che di lui si possono dire: il nome, la missione, ciò che lui non è. Questo è racchiuso nei vv. 6-8.

Anzitutto il nome: “Il suo nome: Giovanni” (Gv 1,6). Il nome Jochanan significa “Il Signore fa grazia”. Il suo nome rinvia alla grazia di Dio, al piegarsi di Dio sull’uomo che è l’atto misericordioso di Dio fonte di ogni vocazione e missione. È l’atto sovrano con cui il Signore guarda dall’alto la creatura e se ne prende cura. Ed è ciò che, intuito dall’uomo, sta alla radice della sua vocazione e della sua missione.

Quindi la missione: egli venne per la testimonianza, per dare testimonianza alla luce (Gv 1,7). Giovanni viene come testimone. Egli è il paradossale testimone che precede il Messia. Così Giovanni diviene figura di ogni credente che è chiamato a essere testimone, ma certo, testimone che segue il Messia, che viene dopo il Signore.

Infine ciò che lui non è: “Non era lui la luce” (Gv 1,8). Egli era solo il testimone della luce. In verità, non solo Giovanni, ma nessuno è la luce vera che illumina ogni uomo, se non il Cristo, e nessuno può dire in verità “Io sono”, nemmeno la chiesa, ma solo il Cristo. Giovanni ci insegna che l’identità di ogni persona implica un limite, un negativo, un “non”. Ogni identità è parzialità, è rigetto di onnipotenza e accoglienze di un limite.

Ma se questa è la presentazione nel prologo, ecco che l’inizio della parte in prosa del IV vangelo ci mostra Giovanni come colui che rende attivamente testimonianza al Veniente. Come rende testimonianza? “Questa”, dice il vangelo, “è la testimonianza di Giovanni quando i Giudei mandarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti per interrogarlo”. Se Giovanni è stato mandato da Dio (1,6), sacerdoti e scribi sono mandati dai Giudei (1,19), più precisamente, dai farisei (1,24). Il contrasto si impone. E nell’interrogatorio di Giovanni il Precursore che apre il IV vangelo già si intravede l’interrogatorio che Gesù stesso subirà ad opera del mondo e che attraversa l’intero IV vangelo per sfociare nel processo vero e proprio.

Giovanni poi appare come testimone anzitutto in quanto responsabile: egli risponde alle domande che gli sono poste. E risponde anzitutto di se stesso. Per poter parlare di Cristo occorre saper rispondere di sé: “Che cosa dici di te stesso?” (1,22). Non di argomenti teologici, ma di te stesso, non degli altri, ma di te stesso, non del mondo, ma di te stesso. Se il testimone è colui che suscita domande negli altri, non tanto colui che prende la parola per indirizzarsi agli altri, ma piuttosto una persona la cui vita è tale che agli altri accade, vedendolo, di interrogare se stessi sulla propria vita e di interrogare il testimone sull’origine della sua diversità, ecco che Giovanni non si sottrae alla domande che lo vagliano, lo mettono in crisi e indagano la sua singolarità. Giovanni non si difende da queste domande, ma le affronta e vi risponde senza mentire. “Egli confessò e non negò e confessò” (1,20): egli non mentì. Giovanni accetta di rispondere di se stesso, accoglie le domande su di sé non come aggressione o intrusione, ma come occasione di chiarezza su di sé e di verità davanti a tutti. Perché la missione è pubblica e il ministero, ogni ministero ecclesiale, non lo si vive nel nascondimento, come nella logica chiusa della setta, ma è giustamente esposto al giudizio e alla critica altrui. La testimonianza cristiana nasce nello spazio della responsabilità, dove responsabilità è capacità di rispondere di sé, del proprio ministero, delle motivazioni e delle modalità del proprio servizio. È la non-libertà che implica il rifiuto del dialogo, del confronto, della domanda, del presentare ad altri il proprio ministero e la propria condotta. La non-libertà che rifiuta tutto questo diventa irresponsabilità e impossibilità di testimoniare, perché a quel punto non si conosce in verità né se stessi né colui di cui si dovrebbe testimoniare. Giovanni ci insegna che non abbiamo altra via verso la nostra verità personale e la verità della nostra relazione con il Signore, che non passi attraverso la crisi, la messa al vaglio di sé, il confronto con l’altro che ci interroga.

E tre sono essenzialmente le domande poste a Giovanni: “Chi sei?” (ripetuta tre volte: 1,19.21.22). Poi: “Che dici di te stesso?” (1,22). Infine: “Perché battezzi?” (1,25). Alla domanda “chi sei?” del v. 19 il narratore aggiunge che Giovanni “confessò e non rinnegò, e confessò” dove la triplice ripetizione forse si riferisce alle tre risposte immediatamente successive: “Io non sono il Cristo”, poi, alla domanda se lui sia Elia, “Non lo sono”, infine, alla domanda se sia il Profeta, “No”. Ma il verbo arnéomai (negare-rinnegare) suggerisce di vedervi un riferimento alla triplice sconfessione di Pietro, quando Pietro, interrogato a sua volta, ma non da una delegazione ufficiale inviata da Gerusalemme, bensì da una serva portinaia (Gv 18,17), da servi e guardie (Gv 18,25), da un servo del sommo sacerdote (Gv 18,27), e interrogato sul suo essere discepolo di Gesù, risponde prima “Non lo sono” (Gv 18,17), poi, ancora “Non lo sono” (Gv 18,25) e infine si dice solo che “rinnegò” (Gv 18,27). Pietro mente. E mentire è misura di difesa di sé, di sopravvivenza a qualcosa che viene sentito come troppo duro, tale da mettere in discussione il senso del proprio stare al mondo. Pietro pensa di proteggersi, di evitare il rischio di essere a sua volta arrestato, negando di essere discepolo di Gesù. Pietro non è libero, e la sua menzogna lo mostra; Pietro è dominato dalla paura di perdersi e dall’ansia di voler salvare se stesso. Se Pietro rinnega, Giovanni, al contrario, “non rinnegò”; se Pietro sconfessa Gesù, Giovanni, al contrario, “confessò”. Se Pietro mente, Giovanni resta nella verità.

Giovanni non si arroga un nome non suo, non prende il posto di un altro, e nega recisamente di identificarsi con le tre figure salienti dell’attesa giudaica dell’epoca: il Messia, l’Elia che deve venire, il profeta escatologico. Giovanni, che pure ha visto indirizzarsi su di sé attese colorate di tinte messianiche e che al dire di Gesù stesso è stato profeta e più che profeta, sa abitare il proprio limite, sa integrare ciò che lui non è nella sua identità, sa cogliere fin dove lui può arrivare, sa obbedire. Dopo aver rifiutato la vertigine del porsi più in alto di se stesso, ecco che alla domanda che gli chiede di dirsi, egli risponde positivamente, rinviando alla fonte della sua obbedienza, la Scrittura: “Io, voce di chi grida nel deserto: spianate la via del Signore” (Gv 1,23). Ecco il luogo della sua pace: la parola del Signore obbedita e divenuta principio ordinatore della sua esistenza. Ecco allora che dopo aver negato e poi confessato, può dare la sua testimonianza al Messia in verità, ovvero cogliendo se stesso in riferimento al Messia: “Io non sono degno di sciogliere il legaccio del suo sandalo” (1,27). Io battezzo in acqua, lui in Spirito santo. Giovanni compie dunque la sua testimonianza, la sua confessione di fede coinvolta e partecipe del destino del suo Signore, nella piena coscienza della distanza fra sé e il Messia. Nella conoscenza chiara di sé, condizione necessaria per conoscere e confessare il Signore in verità e non mentire su se stessi, non nascondersi a se stessi e ovviamente, agli altri. La testimonianza del Signore richiede questo processo di verità personale.

A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose


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