Esegesi e meditazione alle letture di domenica 9 Agosto 2020 – don Jesús GARCÍA Manuel

Prima lettura: 1 Re 19,9.11-13

In quei giorni, Elia, [essendo giunto al monte di Dio, l’Oreb], entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: «Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore».

Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna.

Il testo si trova in quella parte dei libri dei Re che descrive il ciclo del profeta Elia. Esso racconta l’episodio dell’incontro del profeta con Dio sul monte Oreb.

Il monte Oreb, meta del viaggio del profeta Elia che fugge è il medesimo della storia della chiamata di Mosè che a questo monte ebbe la visione del roveto ardente e la rivelazione del nome divino (Es 3,1). Mosè aveva condotto al monte dell’alleanza tutto il popolo, il quale nonostante i benefici ricevuti, prevaricò prostrandosi davanti al vitello d’oro. Alla minaccia divina di rigettare il popolo eletto, Mosè, appellandosi all’alleanza con Abramo placò l’ira di Dio; in segno del perdono Dio si manifestò a Mosè in una spelonca, al riparo dal turbine che precedette l’apparizione (Es 33,18-34). Volendo salvaguardare l’alleanza e ristabilire la purezza della fede, Elia va allo stesso luogo dove si era rivelato il vero Dio a Mosè e dove era stata conclusa l’alleanza (Es 19,24; 34,10-28).

In tale modo l’opera di Elia si connette direttamente con quella di Mosè: ambedue questi personaggi sono accostati nella teofania sul monte Oreb. Essi saranno ancora uniti nella teofania della trasfigurazione di Gesù. Elia entra nella caverna, nella cavità della rupe dove si era messo Mosè durante l’apparizione divina (Es 33,22). L’uragano, il terremoto, i lampi che erano i segni dell’apparizione divina, nel racconto riguardante Elia sono soltanto i segni precursori del passaggio di Dio; il segno della sua presenza è invece il mormorio di un vento tranquillo, simbolo di intimità della conversazione divina con il profeta, conforto e consolazione che prepara l’animo di lui alle parole terribili che gli saranno rivolte.

Seconda lettura: Romani 9,1-5

 

Fratelli, dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua.

Vorrei infatti essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne.  Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen. 

Il testo inizia, nella parte dottrinale della lettera, nella sezione che descrive la situazione del popolo di Israele. Esso indica i privilegi del popolo eletto; il primo punto esprime l’amore di San Paolo per il popolo che gli ha dato le origini, il secondo punto enumera i privilegi di tale popolo.

La prima affermazione di grande amore di Paolo per il suo popolo si appoggia a Cristo e alla testimonianza dello Spirito; volendo che nessuno ponga in dubbio le asserzioni importanti che sta per esprimere e che gli sono care, l’apostolo non si fonda soltanto sulla sua lealtà personale, ma si richiama a Cristo e allo Spirito come a testimoni irrecusabili delle sue parole. Egli esprime il suo dolore per la infedeltà del popolo di Israele a cui appartiene. La frase sull’anatema è molto forte; l’anatema non è soltanto una scomunica ecclesiastica; nell’antico Testamento essa significava la distruzione totale dei nemici di Dio e dei loro beni; nel nuovo Testamento esso implica l’idea di maledizione; chi viene colpito da anatema non è soltanto escluso dalla comunità dei beni, è anche maledetto; una tale dichiarazione, di voler essere anatema egli stesso a favore del suo popolo mostra quale amore egli ha per la nazione eletta.

Vengono poi i privilegi del popolo. Il primo è di essere israeliti, cioè discendenti da Giacobbe Israele. Da questo derivano gli altri privilegi: l’adozione a figli di Dio, oggetto del suo amore, la gloria che era la presenza di Dio in mezzo alla comunità della tenda e nel tempio; le alleanze con Abramo, Giacobbe, con Mosè, la legislazione che concretava la legge del patto nella vita quotidiana, specialmente riguardo al culto autentico del vero Dio; le promesse, a cui venivano compendiati tutti gli ideali messianici ed escatologici, i patriarchi, primi depositari di tali promesse; al termine di questa catena di benefici viene il Cristo, che ne è lo scopo e il culmine. Egli sta al vertice della lunga trama storica e religiosa recata all’uomo dalla rivelazione divina. Questa esaltazione di Cristo culmina con la dossologia che è a lui diretta e che lo proclama Dio benedetto nei secoli. È un caso molto raro che a Gesù venga dato il titolo «Dio» e gli sia indirizzata una dossologia. Questo procedimento rappresenta il culmine della rivelazione di Gesù: Figlio di Dio, egli è associato con il Padre e lo Spirito Santo alla stessa divinità. Il movimento del pensiero dell’apostolo ha condotto a questa altissima dichiarazione espressa sotto la forma liturgica dossologica conclusa dall’Amen. 

Vangelo: Matteo 14,22-33

[Dopo che la folla ebbe mangiato], subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo.

La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare.  Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».  Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».  Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».

Esegesi

Il brano si trova nella sezione narrativa dell’atto che presenta gli inizi del regno di Dio nel gruppo di discepoli primizia della Chiesa. Il primo momento del racconto presenta Gesù in preghiera. Il momento centrale presenta il camminare di Gesù sulle acque e la sua manifestazione. Il termine contiene la professione di fede.

1) Gesù in preghiera

Nei vangeli viene frequentemente notato il fatto che Gesù prega. Ciò accade nella solitudine della notte, prima di prendere i pasti, in occasione di avvenimenti importanti quali il battesimo, la scelta dei dodici, l’insegnamento della formula di Preghiera «Padre nostro», la confessione di fede di Cesarea, la trasfigurazione, l’agonia, il momento che precede la morte in croce. Il pregare di Gesù manifesta il suo rapporto con Dio Padre.

Egli ha inculcato la necessità della preghiera non soltanto con le sue parole e il suo insegnamento, ma anche dando l’esempio. Nel nostro testo egli appare nella preghiera in solitudine sulla montagna al termine del giorno e al sopravvenire della notte. Il pregare di Gesù è parte della manifestazione del mistero della sua unione con il Padre.

2) La manifestazione sulle acque

L’apparizione di Gesù sulle acque nella notte ha carattere di teofania, manifestazione divina. Il racconto contiene reminiscenze veterotestamentarie, quali il passaggio del Mare Rosso da parte degli Ebrei e il susseguente canto di Mosè (Es 14,15.15,18); il vento è contrario, la barca dei discepoli è agitata. In questa situazione appare Gesù che cammina sulle acque; egli si presenta con la maestà della formula «Io sono» e li incoraggia a non temere. La presentazione di Gesù nello scatenamento degli elementi della natura e nella calma della sua apparizione è mirabile.

A tale punto entra in scena Pietro; il temperamento psicologico che lo caratterizza appare chiaro: impulsività, fede, amore a Gesù, paura, dubbio. Ma la rivelazione della scena è eminentemente teologica; due volte Pietro si rivolge a Gesù dandogli il titolo di Signore; dapprima gli dimostra obbedienza di fede andando verso di lui, poi al subentrare dell’esperienza della fragilità umana timorosa, prorompe il grido che domanda salvezza.

Gesù è colui che salva dall’abisso Pietro, e gli rimprovera la sua poca fede.

Questo incontro tra il Signore che cammina sulle acque e Pietro è un preludio, una anticipazione delle apparizioni e degli incontri postpasquali di Gesù risorto.

3) La professione di fede

L’episodio si conclude con la professione di fede sulla identità di Gesù come Figlio di Dio. Egli libera dal male coloro che stanno sulla barca, i quali rappresentano la Chiesa che, salvata da Gesù, proclama la sua fede in lui. Il brano è un vertice di rivelazione cristologica ed ecclesiale; in esso la centralità del Signore che si manifesta e il rapporto di lui con i suoi discepoli costituiscono il paradigma della relazione tra Gesù e la Chiesa in ogni tempo.

Meditazione

Se la prima lettura presenta una teofania, una manifestazione di Dio a Elia sul monte Horeb, il vangelo presenta una cristofania, una manifestazione della potenza divina che abita in Cristo ai suoi discepoli, in particolare a Pietro, sul lago di Galilea. Tuttavia il manifestarsi della presenza divina, sovente espresso da manifestazioni naturali grandiose (terremoto, vento, fuoco: Es 19; azione di dominio sulle acque: Es 14; Sal 77,17-21), è anche

evento discreto che chiede a Elia di farsi sensibile alla «voce di un silenzio sottile» (1Re 19,12: letteralmente) in una esperienza interiore, e chiede a Pietro un incontro personalissimo nella fede.

Il testo evangelico è metafora del cammino della chiesa nella storia, nel tempo fra la Pasqua e la parusia. Gesù è in alto, sul monte, a pregare (Mt 14,23): è il Risorto che sta alla destra di Dio nei cieli ed intercede per i suoi che sono nel mondo. Essi, sulla barca, compiono il loro itinerario adempiendo il mandato che il Signore ha affidato loro: vita comune, apostolato, missione. Anzi, il Risorto si fa presente presso di loro, è con loro tutti i giorni fino alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20). Anche quando le onde del mare si gonfiano e si agitano per la forza della tempesta, egli resta l’Emmanuele, il Dio con noi (cfr. Sal 46,4.8.12; Mt 1,23). Ma la presenza del Signore è colta solo nella fede e non è scontata,

ma sempre da decifrare, da scoprire: «Sono io», dice Gesù (Mt 14,27); «Sei veramente tu?» dice Pietro («Se sei tu…»: Mt 14,28). In quella traversata notturna e contrastata, in cui la fede si mescola con il dubbio, ci siamo dunque anche noi, c’è la vicenda della chiesa nella storia, c’è il cammino dei cristiani nel mondo.

Questo cammino implica in modo costitutivo, non accessorio o accidentale, contrarietà (vento infatti era contrario: cfr. Mt 14,24) e sofferenze comunitarie (la barca era squassata dalle onde: cfr. Mt 14,24). Questo carattere costitutivo è connesso ad una necessità umana (la vita dei cristiani e della chiesa è una vita reale, non esentata in nulla dal rischio esistenziale e dalle fatiche del vivere di ogni uomo e di ogni gruppo umano) e ad una necessità divina (ostilità e contrarietà rientrano, insieme al centuple, nella promessa di Cristo a chi lo segue: cfr. Mc 10,30). Chi pensa che la vita cristiana debba esentare da fatica, sofferenza e contrarietà, fa di Cristo un fantasma (cfr. Mt 14,26), un parto della propria fantasia, una proiezione idealizzata, e del proprio cammino non un’obbedienza al vangelo, ma un abbaglio.

Il dramma vissuto dai discepoli di Gesù sulla barca, dramma che spesso è anche il nostro, si situa fra l’obbedienza all’ordine impartito loro da Gesù (Mt 14,22: «costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva») e l’impotenza a realizzarlo (Mt 14,24). Nell’interstizio fra obbligo e impedimento, dunque al cuore di un’obbedienza frustrata, che si rivela sterile, possono nascere non solo il dubbio (Mt 14,28) e la paura (Mt 14,26), ma anche la contestazione, la protesta, la rivolta e la bestemmia nei confronti del Signore. Il cammino che si sta facendo è per la vita o per la morte? La traversata intrapresa in obbedienza alla parola del Signore e che ora incontra così tante difficoltà, è forse un inganno? È fidabile il Signore o è divenuto come «un torrente infido, dalle acque incostanti» (Ger 15,18)? Il vangelo mostra che l’impossibile impresa di camminare sulle acque diventa possibile – per fede – quando lo sguardo del credente è fisso su Gesù, quando il fine del suo cammino è «andare verso Gesù» (Mt 14,28), e si rivela fallace quando lo sguardo della carne si sostituisce a quello della fede («vedendo che il vento era forte, s’impaurì »: Mt 14,30): allora la paura prende il sopravvento e Pietro sprofonda nelle acque. E noi con lui.

Gesù salva Pietro con un gesto e una parola: stende la mano e lo afferra mentre lo rimprovera per la sua poca fede. Gesù salva rimproverando e rimprovera salvando. Nello spazio ecclesiale la correzione fraterna, il rimprovero secondo il vangelo, è sempre un atto che combina misericordia e verità, compassione e parresia, amore per il fratello e obbedienza al vangelo.

Commento a cura di don Jesús Manuel García

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