Don Luciano Condina – Commento al Vangelo del 6 Giugno 2021

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Padre Emidio Alessandrini – un francescano a me caro nella paternità spirituale, recentemente scomparso – ribadiva spesso una cosa che brilla particolarmente nella festa del Corpus Domini, solennità di questa domenica: «Cari amici, io rappresento la Chiesa e vi devo indicare mete altissime; non accontentatevi della povertà luccicante di questo mondo».

E ancora, il curato d’Ars, S. Giovanni Maria Vianney,  ai parrocchiani che affermavano di essere indegni di ricevere il Corpo di Cristo rispondeva: «È vero che non ne siete degni… ma ne avete bisogno!».

In queste “mete altissime” e in questo “bisogno” troviamo due punti cardine della solennità che celebriamo. Ne abbiamo bisogno, dice il santo curato, ma per fare cosa? A che ci serve questo cibo che oggi, sempre più spesso, si esige di ricevere senza comprendere le gravi considerazioni di san Paolo: «Chi mangia il pane e beve il calice del Signore indegnamente mangia e beve la propria condanna» (1Cor 11,29)?

Il corpo di Cristo, il pane del cielo, il cibo che al pari della manna permette di sopravvivere nel deserto, serve a raggiungere queste “mete altissime” di cui abbiamo disperato bisogno e ogni viaggio, ogni avventura ha un cibo specifico, più o meno adatto. Per scalare l’Everest non si può mangiare pesante prima di mettersi in cammino: si rischierebbe di soccombere nei passi impervi e nella fatica.

Sapientemente la liturgia colloca la solennità del Corpus Domini dopo la SS. Trinità, in cui Gesù consegna la missione ai discepoli. E nella festa di questa domenica Gesù offre se stesso come cibo necessario per portare a termine la missione – che definiamo “sua volontà” – e che ci consente di permanere in essa. Non comprendere questa finalità significa andare incontro alla condanna, ossia la perdita dell’esperienza di risurrezione, meta della missione.

La Chiesa ha il dovere perenne di indicare il fine: la risurrezione, che segue alla crocifissione. È uno stato noto come “vita eterna”, che non ha nulla a che vedere con lo stato abituale di esistenza basato solo sulla sopravvivenza o su uno “star bene”, affannosamente inseguito e sempre più assurto a valore assoluto. Vita eterna non significa vita dopo la morte, ma vita piena, ricca, gravida di frutti e di grazia di Dio. Essa si riceve seguendo lo stesso percorso compiuto da Cristo, salendo e rimanendo sulla croce, ossia rimanendo nella propria missione secondo la volontà di Dio indicata dalla Chiesa – nella sua autorevolezza ricevuta da Gesù – senza cedere al senso dell’oggi, perché ciò che era vero ieri è vero anche oggi.

Uscire dalla propria missione significa scendere dalle croci a cui la vita puntualmente conduce, per aggirarle con soluzioni personali, alternative, non cristiane, come l’eutanasia, l’aborto, il divorzio, la menzogna, il furto, le dissipazioni e le varie “ubriachezze”, presentate dal tentatore come uniche soluzioni, che privano della risurrezione; essa è invece la soluzione eco-friendly di Dio ai nostri problemi: è economica, non inquina, non lascia cadaveri lungo la via, ma solo risorti.

Non ha senso uscire dalla propria missione ed esigere di nutrirsi del Corpo di Cristo, che serve ad affrontare proprio ciò da cui invece si sta scappando; serve a viaggiare nella direzione esattamente opposta a quella verso cui il fuggitivo, sofferente, arrabbiato e spaventato tende.

Fidiamoci di Dio, diamogli la possibilità di salvarci sulla croce per trasformarci in salvatori nella risurrezione, di amarci affinché possiamo amare. Facciamo nostro l’apocrifo Quo vadis, Domine? quando siamo tentati di abbandonare la nostra missione e rimaniamo saldi nell’Eucarestia.

Dio non ci deluderà.

Commento di don Luciano Condina

Fonte – Arcidiocesi di Vercelli