Don Luciano Condina – Commento al Vangelo del 6 Dicembre 2020

Con l’inizio del vangelo di Marco celebriamo questa seconda domenica di Avvento, meditando la figura di Giovanni Battista, che la Chiesa ortodossa venera come cugino in terzo grado di Gesù: essa ritiene infatti Maria, madre di Gesù, ed Elisabetta, madre del Battista, figlie di due sorelle, Anna ed Esmerìa.

Da “parente” di Gesù, Giovanni è l’immagine dell’invito a entrare in questa parentela stretta con il Figlio di Dio.

Non è un caso che Marco cominci il suo vangelo citando Isaia (40,3), perché la storia della salvezza ha radici lontane che vanno ricordate e questo piano di salvezza è strutturato da Dio in ogni sua parte, affinché tutto si compia e l’uomo possa nuovamente riappropriarsi di Dio, del suo Dio, del Dio vero.

«Voce di uno che grida nel deserto» (Mc 1,3): proprio dal deserto giunge l’annuncio che sta per accadere qualcosa di grande e lo stile di vita di Giovanni – vestito di pelle, che si ciba di locuste e miele selvatico – riporta alla primitività, alla primordialità.

Il deserto è ricominciare da capo, prendere una tela bianca per disegnare qualcosa di nuovo, o una tela vecchia per stenderci un fondo nuovo e ridipingere qualcosa di splendidamente più grande.

Il disegno vecchio simboleggia le nostre vite spente, vuote, mediocri, soprattutto piccole: soffriamo, incatenati dal mondo, nello sperimentare questa piccolezza che stona con la grandezza scritta nell’immagine e somiglianza col Dio vero che ci portiamo dentro. Vorremmo spaccare il mondo, ma l’unica cosa che rompiamo sono i timpani di chi ci sta vicino, con la nostra petulanza strutturale, che parte di default non appena cominciamo a relazionarci con qualcuno.

Giovanni predica un battesimo di conversione e di penitenza, ma non è lui quello che Israele sta attendendo: questo significa che mettersi di impegno e fare penitenza non basta; conversione e penitenza – esortazioni tipiche di Avvento e di Quaresima – non sono sacrifici che facciamo per far piacere a Dio, il quale non ha bisogno dei nostri sacrifici, ma è la preparazione necessaria affinché possiamo essere pronti ad accogliere la grandezza dell’arrivo di Cristo.

Un affresco non può essere dipinto ovunque e il fondo va preparato meticolosamente, altrimenti la pittura si deteriorerà molto presto; così per la costruzione di una casa: non può essere edificata senza solide fondamenta. Entrare nel deserto è preparare il fondo per l’affresco e le fondamenta per la casa. Nel deserto non c’è niente, dunque, per edificare la vita nuova che nasce con Gesù: allora è necessario far sparire dalla vista le numerose immagini mentali ed esistenziali – veri e propri miraggi di felicità – che distolgono il nostro cammino dall’unica vera meta di pienezza. Ricordiamo che “idolo” deriva da eidon – aoristo del verbo greco orao, “vedere” – dunque l’idolo è una visione, un miraggio, un’immagine che esiste solo nel nostro cervello, che non ha corrispondenza nel reale. Buona parte dei nostri progetti di felicità – fermatevi un istante a pensare ai vostri – rientrano in questa categoria.

La conversione dell’Avvento è un volgere lo sguardo da queste visioni farlocche all’unica luce vera che il mondo ha conosciuto, conosce e mai ne conoscerà di altra. Per uscire dal nostro vuoto ed entrare nella pienezza abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio in persona, che arrivi e ci prenda col nostro consenso, così che in questa sequela noi possiamo tornare a Casa.

Da soli non possiamo farcela.

Da soli non ci salviamo.

Cogliamo l’occasione!

Commento di don Luciano Condina

Fonte – Arcidiocesi di Vercelli


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