Don Luciano Condina – Commento al Vangelo del 4 Ottobre 2020

Coltiviamo con gioia la vigna di Dio

A differenza delle parabole delle domeniche scorse, dove la vigna rivestiva un significato marginale, qui essa è al centro delle letture. Coltivare una vigna – che simboleggia il popolo di Israele – richiede cure amorevoli e il Signore che la pianta e la cura non risparmia le sue attenzioni: la circonda da una siepe di protezione, simbolo della legge; utilizza un torchio – simbolo dell’altare – affinché se ne possa ricavare la preziosa bevanda; erige una torre – simbolo del tempio – che riconduce anche al re Davide e alla cittadella in Gerusalemme che da lui prende il nome, costruita nel II secolo a.C , distrutta e ricostruita più volte.

Siamo al capitolo 21 di Matteo, due giorni prima della passione, e il frutto della vigna è chiaramente riconducibile al sangue che di lì a poco sarà versato da Gesù, per diventare nuova bevanda di vita eterna.
Il Signore, nel formulare questa parabola, indubbiamente si rifà a Isaia (testo della prima lettura), che parla proprio di una vigna in cui, però, si producono acini acerbi, alla lettera “puzzolenti” nell’ebraico (Is 5,2).

E tutti i riferimenti messianici confluiscono nella frase di Gesù che citando il salmo 117 afferma: “La pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta testata d’angolo» (Mt 21,42). Qualcosa che crea inciampo ed è da scartare, in realtà è la roccia su cui costruire.

Quando il padrone della vigna va a chiedere i frutti ai contadini della parabola, questi reagiscono con violenza; c’è dunque un’analogia con la condizione dell’uomo il quale riceve la vita da Dio come un dono e un compito, che è anche una missione. Il testo sottolinea come il padrone abbia diritto su tutto ciò che è nella vigna, in quanto è esplicitato il suo possesso del terreno, l’aver piantato di persona la vigna, l’aver messo siepe, torchio, torre e attrezzi per lavorarci. Che il padrone venga e chieda il frutto è più che legittimo. Quindi, continuando nel parallelismo con la vita umana, ne consegue che avendo l’uomo ricevuto la vita come dono, compito e missione, Dio ha ogni diritto nel chiedergli i frutti: attraverso il prossimo, attraverso persone, situazioni, fatti e cose che si incrociano quotidianamente lungo il cammino della vita. Purtroppo, un po’ alla volta, l’uomo abiura questa verità, sentendosi sempre più egli stesso il padrone di tutto ciò che in realtà non gli appartiene: il diritto all’aborto e l’avanzare della teoria gender sono solo alcuni degli aspetti più evidenti e recenti di questa appropriazione indebita di ciò che è la vita umana.

No, la vita non è nostra: ci è data per compiere qualcosa di buono e siamo chiamati a farla fruttare, dando la nostra vita affinché il seme possa morire per generare frutto.

Noi non siamo i padroni della nostra esistenza!
Il fascino moderno dell’autonomia umana porta sempre più a vedere gli altri come “l’inferno” – per citare Sartre – perché fare della propria vita un uso indiscriminato genera un solo frutto: la solitudine. E la solitudine è l’inferno.

Invece la vita, attraverso ciò che quotidianamente Dio mette sul nostro cammino, continuamente ci chiama a spostare da noi stessi agli altri il baricentro dell’esistenza, per scoprire che è nello spendersi per gli altri la condizione che fa scendere una strana pace nel cuore, profumata, delicata e soave; odore vero di quella vita che è scritta nella nostra intimità più profonda e che il mondo non può offrirci.

Fidiamoci di Dio che è maestro nell’edificare sopra ciò che noi crediamo sia da scartare.

Commento di don Luciano Condina

Fonte – Arcidiocesi di Vercelli


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