don Claudio Bolognesi – Commento al Vangelo del 25 Aprile 2021

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Dono e riprendo

Il buon pastore è un’immagine familiare, che ci viene ancor prima che da questo brano dal Vangelo di Luca, dalla parabola della pecorella smarrita. Però di fatto se ne parla in questo capitolo decimo del vangelo di Giovanni. Il buon pastore oggi viene riscoperto da tanti come il “pastore bello”. Perché il termine kalòs significa sostanzialmente questo: bello. Per il pensiero greco che di questo è profondamente innamorato, la bellezza è tale soltanto perché riflesso della bellezza interiore, quindi della bontà. La traduzione (l’ultima revisione è stata fatta nel 2008) probabilmente ha conservato il termine “buono” perché sostanzialmente esatto e forse perché anche più rispettoso di quello che ci è stata consegnato. Di fatto li accettiamo come sinonimi. La cosa più grande non è se il pastore sia bello o buono, “e” buono. La cosa più importante è la rivelazione che Gesù fa di sé nel momento in cui dice – io sono il pastore -. Essendo lui è chiaro che è bello ed è buono. Ma nel “io sono il pastore” Gesù applica a se una prerogativa di Dio. È Dio nel Primo Testamento che dice – Io sono il pastore -. Ed è a questa rivelazione che i presenti, coloro che conoscono la rivelazione, il primo testamento, reagiranno. Non è nel brano di oggi ma è subito dopo.

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Che cosa significa per Gesù dire di sé che è il pastore? Il mondo antico vive l’allevamento degli animali, la pastorizia come qualcosa di quotidiano. È come per noi andare in bicicletta, guidare un’automobile. È come usare un computer. Ecco la cosa più normale del mondo antico è prendersi cura degli animali. Tant’è che dal numero degli animali posseduti si quantifica la ricchezza di una persona, di una famiglia. Piano piano nella bibbia si vede che questa idea del gregge viene applicata al popolo. Quindi non è più semplicemente un qualche cosa che qualifica l’uomo, da Abele primo pastore fratello ucciso da Caino agricoltore, non è più soltanto il riflesso della ricchezza e quindi del bene che Dio ti concede ma diventa un’immedesimazione. Il popolo è il gregge e il pastore di conseguenza è Dio. Entra nella primo testamento una un’idea molto bella di dolcezza e di fragilità, e anche di responsabilità e di possesso. Quindi ci sono i temi della gelosia, del tradimento, del perdono…

Di fronte a tutto questo il pastore è Dio. Nel momento in cui Gesù dice – io sono il buon pastore – chiaramente si qualifica, si presenta come quel Dio là. Perché se andassimo a vedere tutti i brani in cui si parla di questo ci accorgeremmo che di fronte all’idea iniziale per la quale Dio è il pastore, piano piano nasce l’esigenza del popolo di trovare delle figure intermedie. Dei pastori che si prendono cura fisicamente, concretamente di loro. Incontriamo i giudici che però di fatto non sono una realtà strutturata. Vediamo la nascita della monarchia: il re Saul, Davide, Salomone, vengono scelti perché guidino il popolo, perché lo pascolino in nome di Dio. Questa cosa viene vissuta in modo traumatico da tanti profeti, da tanti uomini di Dio. Perché vedono in questo una sorta di pericolo, di sostituzione e quindi un problema di fede. Che poi dopo diventa anche un problema pratico, di morale. Nel senso che quel pastore che dovrebbe essere colui che pascola a nome, col cuore di Dio in realtà spesso è un cattivo pastore che invece di servire il gregge, di condurlo alla fedeltà a Dio usa il gregge per se stesso. Per arricchire se stesso. E non è tutto qui. Perché di pari passo sta il riconoscere che il gregge stesso è un cattivo gregge. È un gregge sordo, è un gregge ribelle. Quindi è un’immagine che sostanzialmente nasce nella bellezza e nella amorevolezza. Abbiamo in mente tutti l’immagine del pastore che porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri, che ci viene del profeta Isaia. Ecco questa immagine assolutamente tenera diventa un immagine conflittuale.

Che Gesù risolve radicalmente. Perché Gesù è il Dio unico vero pastore ma anche l’uomo presente in mezzo a noi che ci guida. Ed è l’unica possibile soluzione definitiva.
Poi questa soluzione avrà delle conseguenze. Perché è vero che Gesù è l’unico, il vero pastore. Però è anche vero che materialmente lui non è con noi. Quindi abbiamo due grossi esiti. Il primo alla fine del vangelo. Al capitolo 21 Gesù risorto chiederà a Pietro – mi ami tu più di costoro? -. È un vangelo molto bello. Lo commenteremo e l’abbiamo già commentato. Di fronte alla risposta zoppa di Pietro – sì, sì Signore, lo sai che ti voglio bene – c’è un triplice affidamento: – pasci le mie pecore, pasci miei agnelli -. Rimarrebbe da vedere quanto di questo mandato a Pietro poi è applicabile materialmente e a chi oggi, ma questo è un discorso molto lungo del quale non sono forse neanche qualificato a parlare. Ecco, questa è l’immagine che ci viene consegnata dal vangelo di questa mattina. Gesù pastore bello, pastore buono… che cosa vuole dire?

La prima grande affermazione che ritornerà più volte nel vangelo è che lui è il buon pastore perché dà la vita per le pecore. Anche questa è una sorpresa perché non è quello che il pastore deve fare. Certo il pastore deve pascolare. Ma non non gli può essere chiesto di dare la vita. Poi si dice che di fronte al buon pastore c’è il mercenario. C’è colui che è pastore ma non perché ha una relazione, perché il gregge è suo ma perché riceve un salario. È colui che di fronte al pericolo fugge, non gli importa. Invece al buon pastore importa. Si usa il verbo “conoscere”. Si dice che il buon pastore conosce le pecore. Sappiamo che “conoscere” per il pensiero ebraico, questo conoscere, è un conoscere esperienziale. È lo stare insieme, il vivere dentro le situazioni.

Piccola sorpresa: non è solo il pastore che conosce le pecore ma sono anche le pecore che conoscono il pastore. Questa è una piccola sottolineatura. Che conserviamo e che teniamo a cuore. È molto bella. Chiediamo proprio al Signore che la coltivi in noi. Il riferimento è un riferimento grosso: il pastore conosce le pecore e le pecore conoscono il pastore come il Padre conosce il Figlio, il Figlio conosce il Padre. Capite che questo sposta il piano di questa immagine del pastore che si prende cura del gregge, che che conosce e si lascia conoscere, che si prenda cura, a un livello profondamente teologico. All’interno dell’amore trinitario.

Sono cose talmente grandi che un po’ ci sfuggono. Non ne abbiamo consapevolezza. Facciamo fatica a crederci, ma sono proprio belle. 
Questa rivelazione è seguita da un’affermazione sorprendente: si parla di altre pecore, di un altro recinto. Questo fa un gran bene a noi che siamo a volte propensi a pensare in modo monolitico. Poi c’è una nota di speranza – ascolteranno la mia voce -. Poi una altra sorpresa – diventeranno un solo gregge, un solo pastore -. La storia delle traduzioni ha conosciuto a volte “un solo ovile” e cioè questo discorso fortemente unitario. Ma in realtà il testo che abbiamo va in questa direzione. Dice che c’è una meta finale che è essere un solo gregge. Questo in un modo o nell’altro con tante sottolineature diverse è abbastanza semplice da accogliere. È sorprendente l’ultima affermazione – diventeranno un solo pastore -. Perché non si dice tecnicamente: “con un solo pastore”. Certo forse questo è il significato originario: diventeranno un solo gregge perché c’è un solo pastore. Quindi avendo un’unico riferimento in quel pastore in un modo o nell’altro comunque siamo parte di un unico gregge. Però attualmente il testo dice esattamente che “diventeranno un solo gregge, un solo pastore”. Questo è sorprendente perché il gregge non esiste che divenga pastore. Eppure forse è questa la soluzione del problema. Perché Gesù non è materialmente fra noi e quindi anche noi siamo tentati di andarci a cercare dei pastori. Quindi ricadere nella dinamica di cui parlavamo all’inizio. Possono essere buoni cattivi e noi possiamo essere buoni e cattivi. Ma se tutti noi diventiamo pastori in Cristo, con Lui, ecco che forse nel momento in cui questo sarà, chiudiamo il cerchio. Le cose funzionano.
Dopodiché c’è un ultima affermazione di fondo. Si dice che il Padre ama il Figlio perché dà la vita e poi la riprende. Non gli viene tolta ma la dà lui volontariamente, perché ha il potere di darla e di riprenderla. E questo è il comando che ha ricevuto dal Padre.
La prima affermazione è: – io sono il buon pastore -. 
La seconda affermazione  è: – io sono buon pastore perché do la vita -. 
La terza affermazione ̬: Рio sono il buon pastore perch̩ do la vita, la do e la riprendo -.

In questo senso probabilmente veniamo consolati dalla paura del dover diventare pastori, dell’essere costretti a dare la vita e quindi di perdere ciò che siamo. Perché Gesù ci dice che in lui ciò che è donato è ripreso, è restituito. Che questo è il cuore dell’amore tra il Padre e il Figlio e quindi di nuovo siamo a un livello di contemplazione – e queste cose se ci parlano al cuore ci fanno un gran bene -. Ci aprono dentro. Ci aprono a quella speranza, a quel desiderio di accogliere Cristo buon pastore. Di condividere questo dono del poter essere capaci di prenderci cura, del donare, del ricevere, che sta nel cuore del suo essere pastore.

Buona domenica