don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 7 Novembre 2021

468

Sarò il tuo nome nell’appello

Un suicidio, silenziato, nascosto sotto il tappeto luminoso della quotidianità. Come volersi concedere oltre l’argine di un fiume, come lasciarsi sommergere, come voler tornare nel ventre di una madre. Seppellirsi, finalmente, e farlo in silenzio e farlo non visti, lei non crede d’essere fissata, ormai si crede protetta dall’abitudine all’invisibilità che con il tempo acquisiscono i miseri.

La donna è povera e sembra non riuscire a produrre nessun rumore, cammina come sanno muoversi solo gli afflitti, nemmeno i passi rispondono, dignitosa quel tanto che basta a non urlare la sua presenza con una sconcia miseria, il mondo attorno non reagisce alla sua presenza, come se lei non importasse, ed in effetti è così, se non fossero esistiti gli occhi acuti del Cristo di lei ora non avremmo nessuna traccia. L’ennesimo invisibile lasciato morire fuori dal bordo della consapevolezza umana. Vedovanze.

Ci sono suicidi che diventano immortali grazie al grido compresso dentro un colpo di pistola e ci sono morti silenziose. Ci sono morti che risorgono quasi eternamente in sensi di colpa frantumati su amori acerbi e infilzati come aghi in rimorsi tardivi. E ci sono vedove che muoiono svuotate. Non è vero che la morte è giusta e che non fa differenze.

- PubblicitĂ  -

Sembra un suicidio silenzioso, sembra il tentativo di scrivere qualcosa con il poco inchiostro rimasto, e non può essere una lettera perché la donna è sola e non saprebbe a chi spedire. Solo una preghiera forse si può balbettare con ciò che rimane, almeno in quel caso il destinatario, seppur ipotetico, si lascia ancora sperare. Ecco, forse la donna prega la sua morte. Che altro può fare?

E lo fa avvicinandosi al tesoro, perché vivere, all’inizio, è credere che sia ricca la vita e che i giorni siano fatti per essere spremuti e che basta un po’ d’amore e di spensieratezza e che i sogni possono diventare realtà. Perché c’è un momento in cui credi che il tesoro sia anche per te, che per il fatto di essere venuto al mondo ti puoi aspettare la tua parte. Alla fine, invece, ti accorgi che qualcosa non è andato per il verso giusto o che, semplicemente, avevi capito male. Di tutto l’amore non restano che due monetine e la tua mano, quella sì, a stringerle senza nessuna bramosia. Troppo povera è diventata la vita e troppo solo il desiderio, ormai non vale la pena di stringere niente.

Solo una cosa si può fare, e quella cosa io credo si possa chiamare preghiera. Ci si può avvicinare ancora a quel tesoro di oro, incenso e mirra. Ci si può avvicinare al tesoro, allo stesso che intonava sicure speranze, ci si può avvicinare all’Origine e solo per il fatto di essere lì, in silenzio, con gli occhi gonfi di smarrimento, solo per il fatto di essere tornati per l’ennesima, e probabilmente ultima volta, nel cuore del Tempio, basta a fare della vedova l’espressione più alta di preghiera. Per il suo coraggio, è come volersi suicidare in chiesa.

Cosa può dire quel corpo frantumato? Come può iniziare la preghiera? Forse:

“Signore ma sapevi che sarebbe finita così?

Dimmi la verità per favore”

E intanto due monetine, le più piccole ed inutili, il loro nome in greco è un richiamo al verbo dello “sbucciare”, perché sono come la scorza, lo scarto del frutto, tanto sottile è il loro spessore. Due monetine abbandonano il palmo della vedova. E ci può essere preghiera più lucida? Sbucciarsi il palmo della mano, misurate stimmate.
“Io non ne posso di questa solitudine lo capisci? Questa è la povertà che mi scava dentro ogni giorno di più. Eccoti due monete, non valgono niente, ma io, io, non ho il coraggio di separarle, rimarranno coppia, mentre Tu, invece, Onnipotente, dove hai trovato la forza di strapparmi l’amore? Come hai osato scuoiare il mio cuore? Scorticare il mio sorriso?”

Tutto, certo che la donna dona tutto, perché non esiste preghiera senza violenza, e questo arrivare all’osso, questo annientamento, è la condizione minima che devono avere le parole umane per impennarsi in salmo. La donna declina in accusa la ferocia di uno svuotamento, sono verbi, i suoi, senza appello. Non sta donando, lei sta mostrando, spingendo negli occhi di Dio il nient’altro che è diventata. Possibile che non si senta lo scorrere del sangue fuori dalle vene aperte? La preghiera è un taglio netto, un rasoio. E la donna sta morendo a un passo dal divino.

“Tu non hai bisogno di me, lascio ad altri di frastornarti con le loro monete, cresca il tesoro, cresca il tempio, e si moltiplichino ancora le illusioni e che a qualcuno vada anche bene, a me non è toccato. E non serve fare memoria, lo sai. Ripensare al tempo andato è tortura. Adesso nel tuo tesoro metto me stessa. Sarò il vuoto che inquieta, sarò la negazione della felicità, sarò l’ombra implorante, la parte di mondo non baciata dalla fortuna, sarò un vuoto esploso nel cuore delle solenni liturgie, sarò un conto che non torna, un pezzo mancante, sarò uno scandalo, un tradimento all’ipocrisia. sarò per sempre una domanda. Sarò il tuo nome nell’appello, e resterò in attesa di risposta”.

E Cristo si accorge di lei. A un passo dal tesoro, a un passo dal Calvario. “Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato”. Ogni povero scrive la propria preghiera.  


AUTORE: don Alessandro DehòSITO WEB Leggi altri commenti al Vangelo della domenica